Lo spirito di Port-Royal
Tra Sant’Agostino e Pascal, storia del pensiero forte
Ripubblicato il capolavoro di Sainte-Beuve che racconta idee e protagonisti di un’epoca d’oro
Da Montaigne a Voltaire, radici e influenze della filosofia nata nell’abbazia francese
Un’opera vastissima dove ogni lettore può trovare il suo alimento
Il cuore sta nella famiglia Arnauld e nella Grazia come illuminazione radiosa e dono
di Pietro Citati (la Repubblica, 10.03.2011)
È uscito da Einaudi il PortRoyal di Sainte-Beuve (a cura di Mario Richter, vol. I-II, pagg. XCI-2100, euro 150), da molto tempo esaurito nelle librerie italiane, e nella Pléiade di Gallimard. Parlare di evento è poco. Il Port-Royal è uno dei rarissimi capolavori della storiografia di ogni tempo e di ogni paese; e va posto accanto ai libri supremi; Erodoto, Tucidide, Senofonte, Curzio Rufo, Ammiano Marcellino, Beda, Liutprando, Guicciardini, Gibbon.
Il Port-Royal è un libro straordinariamente vasto. Comincia con Montaigne e finisce con Voltaire: discorre volubilmente di tutto: storia politica, guerre, storia morale, letteratura, eloquenza, religione, psicologia, paesaggio; e non si arresta mai senza aver esaurito le sue innumerevoli forme. Appaiono i grandi della letteratura e della religione; e centinaia di piccoli ritratti: figure in movimento, devote, profonde, solenni, frivole, drammatiche, avventurose. Alla fine, Port-Royal basta a tutti. Ogni lettore possibile vi trova il suo alimento definitivo.
Il libro comincia, o finge di cominciare, nel cuore del sedicesimo secolo, con Montaigne e San Francesco di Sales. Da principio, Sainte-Beuve sembra vicinissimo a Montaigne: mobile, frivolo, cangiante, multiforme, fluttuante, morbido, frantumato, molle, analogico, onnipresente: parla come Montaigne, conserva fedelmente nella memoria i libri che egli amava - e poi, all’improvviso, abbandona il suo meraviglioso modello. Solo alla fine comprendiamo che il romantico profondamente cristiano che abita in Sainte-Beuve non sopporta il profondo acristianesimo degli Essais. Verso San Francesco di Sales e la sua "dolce devozione interiore", Sainte-Beuve ha una simpatia intensissima: ama quella piacevole abbondanza di parole, quella fioritura graziosamente famigliare di immagini, quelle "siepi profumate di similitudini": ma presto si rende conto che la strada verso Port-Royal lo porterà in luoghi diversi. Sono le diverse "famiglie naturali" degli spiriti, tra le quali Sainte-Beuve muove, oscilla, guizza con una versatilità colorata.
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Per Sainte-Beuve, Port-Royal des Champs e Port-Royal de Paris sono due paesaggi della natura e dello spirito: due Gerusalemmi celesti, che occupano un posto unico in terra. Port-Royal des Champs era un monastero medioevale cistercense, fondato nel 1204 nella valle della Chevreuse: mentre il secondo Port-Royal era stato costruito nel faubourg Saint-Jacques, a Parigi. Sainte-Beuve ama questi due luoghi: inquieto, sofferente, curioso dei fiori nascosti dell’anima, vi era penetrato da giovane, visitando i boschi, gli edifici, gli stagni, i chiostri, e camminando lungo le navate: aveva ascoltato le preghiere, i pianti, gli inni dei monaci mentre guardava commosso la loro folla raccolta attorno a lui, per trovare finalmente una voce. Era la sua voce: la sua morbida e inquieta voce; la sola che poteva prestare a tutti i fantasmi di Port-Royal.
Il cuore di Port-Royal era, per Sainte-Beuve, la famiglia Arnauld, con tutti i parenti vicini e lontani, e gli amici e gli affini. Come amava dire, si trattava di una vasta famiglia d’anime, segnata da un timbro inconfondibile. Era, in primo luogo, una tribù di patriarchi borghesi, profumati di Bibbia, con la devozione di una dinastia cinquecentesca. Possedevano un’autorità naturale: una eloquenza che preferiva la parola orale a quella scritta: una moderazione rigorosa: la grandezza romana o spagnola del gesto. Avevano un coraggio guerriero: nessun timore dei potenti: pervicacia: urbanità: ardore; e un’ironia sottilissima, lo spirito di Port-Royal, che comunicarono al più spiritoso di tutti i solitari: Pascal.
Qualcuno dei loro amici, e dei loro nemici, scrisse che gli Arnauld, in qualsiasi momento della loro esistenza, erano posseduti da un pensiero unico, da una parola misteriosa, la Grazia. Ma cos’era la Grazia? Ne aveva parlato Sant’Agostino; e Giansenio. La Grazia era un’illuminazione radiosissima: un dono inesplicabile, che scendeva da chissà dove; ma anche un lavoro, una fatica dura e persistente, che impregnava le giornate degli Arnauld. Se si guardavano attorno, nei campi e nelle chiese di Port-Royal, tutto era grazia: innumerevoli scintille di grazia. Armati con questo strumento dolcissimo e terribile, essi distinguevano e classificavano le vocazioni, i talenti, le ispirazioni di Dio: educavano le famiglie degli spiriti. Così nascevano le grandi menti, ardenti e insaziabili, nutrite di religione: la grandezza e la follia cristiana, il vero argomento di Sainte-Beuve. Più ancora dei monaci, Sainte-Beuve amava le Madri di Port-Royal; e la più grande di tutte, Madre Angélique. Ne parlava incessantemente e ne trascriveva le lettere, con una passione che non finiva di esaurirsi, come se soltanto in una monaca potesse calarsi l’occulto e manifesto spirito di Cristo. Quale grandezza, quale dolcezza, quale devozione, quale rispetto, quale timore di Dio; e anche quale grazia ironica, perché, come disse una volta Cristina Campo, solo le sante sono (o erano) spiritose. Così queste donne austerissime, perennemente in preghiera, avevano un immenso successo mondano. Intorno a Madre Angélique svolazzavano le spiritose e graziose dame gianseniste: madame de Sablé, madame de Sévigné, madame de La Fayette, madame de Longueville, coi loro sterminati epistolari.
Port Royal ha un culmine: Pascal, rappresentato con una complessità e una tensione grandiose. Non c’è niente di più terribile delle nevrosi e dei traumi di Pascal: durante un incidente, Pascal perde i sensi e pochi giorni dopo viene illuminato da una visione: le lunghissime insonnie, appena alleviate dai notturni esercizi di geometria; l’angoscia dell’abisso, aperto come una ferita vertiginosa al suo lato sinistro. Sainte-Beuve adorava la leggera, irrispettosa, insolente ironia delle Provinciales: la tremenda forza di volontà che nelle Pensées assoggettava la facoltà di ricerca: la percezione netta e sottile del reale; e la perfezione sovrana dell’intelletto, che conosceva soltanto ciò che è puro e distinto.
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Sainte-Beuve non amava, in Port-Royal, tutto ciò che di solito veniva definito giansenista. Non poteva dimenticare di essere un figlio di Rousseau, un fratello di Lamartine e di Lamennais, un futuro parente di Nerval e di Baudelaire. Leggendo le pagine di Arnauld, di Giansenio e di Nicole, le trovava troppo rigide, troppo contratte, e soprattutto senza colore, linfa e sangue. Mancavano di quella vita, che affluiva così liberamente negli Essais di Montaigne e negli scritti di Pascal.
Port-Royal fu ucciso da questa sterilità, oltre che dalle paurose persecuzioni politiche. La furia della menzogna e del male, l’orgoglio di Luigi XIV e dei vescovi si scatenarono sopra la piccola chiesa e i cori, che con voci celestiali ed austere avevano invocato Dio. L’autunno scese rapidamente. Port-Royal diventò una fortezza assediata, che il potere voleva conquistare per inedia. Le monache diminuirono. Le converse scomparvero. Durante i primi anni del diciottesimo secolo, sul Journal di Port-Royal si leggevano soltanto uffici di defunti, brevi commemorazioni funebri. L’antico monastero cistercense si trasformò in una necropoli sacra. Le salme dei monaci e delle monache venivano esumate e trasportate in altre chiese. La valle di Port-Royal diventò un immenso ossario, dove le zappe dei becchini rimuovevano incessantemente un terreno arido, dal quale un tempo tanta vita spirituale era sgorgata.