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FILOSOFIA E MESSAGGIO EVANGELICO. IN PRINCIPIO ERA LA PAROLA (LOGOS): AMORE ("Charitas"), NON "MAMMONA" ("Caritas")!!!

IL MONITO DI PASCAL A SERGIO GIVONE: NON CONFONDERE IL NOME DEL MIO DIO ("charité") CON IL NOME DEL DIO ("caritas") DEI VESCOVI E DI PAPA RATZINGER. Il testo della nota (un "editoriale") sull’"Avvenire" - a cura di Federico La Sala

"Pascal in altre parole ci invita a prendere atto dei limiti della filosofia" - e della religione "mammonica"!!!
giovedì 18 febbraio 2010 di Federico La Sala
[...] se le cose prime e le cose ultime sono intime a noi più di quanto noi non lo siamo a noi stessi, come può la filosofia ignorarle? Il pensiero deve essere al tempo stesso molto umile e molto audace. Umile perché i contenuti su cui riflettere gli vengono da fuori, e lo sorprendono, proprio come ’ladro nella notte’. Audace perché capace di spogliarsi di tutti i pregiudizi e ’farsi libero’ nella verità. Secondo il più schietto insegnamento pascaliano [...]
CHARITÉ: BERLINO RICORDA A PAPA (...)

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> IL MONITO DI PASCAL A SERGIO GIVONE ----- Metafisica della peste. Il saggio di Sergio Givone spiega come “la peste” diventi, storicamente e socialmente, un’infezione della mente prima che del corpo (di Antonio Gnoli)

giovedì 14 giugno 2012


LA GLOBALIZZAZIONE È UN FATTO IRREVERSIBILE CHE NOI TENDIAMO A SPIEGARE IN MODO UNIVOCO, E NON INVECE, COME SI DOVREBBE, IN MODO EQUIVOCO.

-  La sfida. Diventare cittadini
-  Dialogare con l’«altro» è il primo passo per uscire dalla crisi
-  Confronto e riconoscimento nutrono la vita collettiva:
-  la politica non può limitarsi a prendere atto della realtà, deve riprendere la sua centralità e progettare alternative

-  di Sergio Givone (l’Unità, 14.06.2012)

Il processo in corso produce uniformità: ovunque andiamo ci ritroviamo sempre allo stesso punto, distinguiamo a stento la periferia di Milano dalla periferia di New York. Una tendenza universale all’omogeneità sta cambiando la fisionomia dei luoghi e degli stili di vita, dei modi di produzione e di distribuzione delle merci o di circolazione delle persone: è il caso degli aeroporti che esprimono un modello urbanistico universale. Tuttavia, questa grande tensione all’omogeneità che è sotto gli occhi di tutti e per questo è enfatizzata cela un altro processo in corso di natura opposta, un vero contromovimento: da un fondo nascosto emergono modi di vivere che costituiscono l’esatto contrario dell’uniformità. Nel mondo globalizzato acquistano nuova forza i localismi, i tribalismi e i fideismi, le religioni tornano a essere superstizioni. Insomma, un mondo in cui viviamo tutti la stessa vita e che dovrebbe portare, se non alla pace universale, almeno a una maggiore comprensione degli uni e degli altri, in realtà acuisce i particolarismi, le tensioni e i conflitti.

Come affrontare questo problema? Non esiste un governo mondiale dell’economia e la crisi che stiamo attraversando lo conferma: non siamo riusciti a inventare un governo dei processi economici e dei rapporti tra le nazioni, e neppure dei giudizi da dare sulle tragedie e sulle guerre che insanguinano il mondo.

La strada da percorrere è un’altra. Dobbiamo ripartire dalle persone, dai loro bisogni e dalle loro contraddizioni, e ciò è possibile solo imparando a dialogare, dunque a capire che io non sono tu, ma che solo grazie al rapporto con il tu io sono e posso dire «io». Quando mi guardo allo specchio accade qualcosa di strano, come se non mi riconoscessi, e ciò non avviene perché non mi piaccio o perché mi rendo conto con amarezza di come mi abbia ridotto il passare degli anni: non è questo il punto. Se guardandomi allo specchio accade che io non mi riconosca, che io non veda sulla superficie dello specchio la conferma inoppugnabile e tranquillizzante della mia identità, ciò è dovuto a una ragione molto più profonda: io sono sempre altro rispetto alla mia identità, o meglio, la mia identità si costruisce solo in rapporto all’identità dell’altro. Allora, se le cose stanno così, imparare a dialogare non significa banalmente imparare a sopportarci, bensì capire che io sono solo grazie all’altro, e non solo grazie a quell’altro che conosco e che amo, grazie all’amico, al familiare, al vicino o al concittadino che con me condivide abitudini e esperienze. No, io sono io anche grazie all’altro che mi dà fastidio, all’altro che mi toglie spazi che ritengo miei. Solo grazie a lui io sono io, sono vivo e vado avanti: capire davvero tutto questo, e da qui ripartire, è la vera rivoluzione. Questo è il nodo di quel processo che, con Bauman, possiamo chiamare glocalizzazione.

Rimane da capire in che modo tale processo rivoluzionario di riconoscimento dell’altro, che sposta l’accento sulle persone - cioè su noi cittadini come soggetti attivi del presente - possa influire sulle grandi decisioni politiche ed economiche. Un buon esempio potrebbe essere questo: fare il contrario di quanto sin qui si è fatto con le legge elettorali, che prevedono apparati che di fatto nominano i rappresentanti dei cittadini. Non può essere così: i rappresentanti dei cittadini devono venire dai cittadini stessi.

Il rischio che la parola dei cittadini si disperda attraverso i numerosi passaggi che portano alle grandi decisioni politiche ed economiche, anche per un problema di competenze, è un rischio reale che va affrontato. I greci avevano coniato una parola bellissima: agoreuein, prendere la parola in piazza. È un verbo carico di significato, che non vuol dire solo esporre una certa tesi, ma anche farsi responsabili di quella tesi di fronte ai concittadini. Ovviamente si tratta di un modello di democrazia diretta adatto a una città stato dove parlamento e piazza coincidevano, ma che certo non funziona in uno stato di diecimila città: qui ci vogliono le mediazioni, è chiaro. Ma le mediazioni non sono imposizioni, dunque non devono essere strumenti in mano a chi ha ottenuto il potere e se ne serve imponendo regole e misure dall’alto. Le cose non funzionano così: le mediazioni devono realmente mediare, devono permettere un autentico interfacciarsi dei cittadini e dei luoghi istituzionali in cui si prendono le decisioni.

In questo modo diverso d’intendere le mediazioni si cela la risposta alla grande domanda sul ruolo e sul destino della politica di fronte all’egemonia dell’economia finanziarizzata. La politica ridotta a tecnica gestionale dell’economia in realtà, ormai è chiaro, non gestisce un bel niente. Questa politica ci dice solo: le cose nel mondo vanno in questo modo perché così vogliono le leggi di mercato, i tassi d’interesse o lo spread. La politica ritiene di poter solo prendere atto della realtà e di avere davanti a sé un’unica soluzione. Poi, però, vediamo che la stessa attualità più stringente smentisce l’idea della soluzione unica dettata dal mercato. Il nodo cruciale della Grecia, ad esempio, può essere affrontato in un modo o in un altro, esistono alternative reali la cui portata va ben aldilà del mero fatto economico.

Dobbiamo capire che restituire alla politica la sua centralità ci conviene, anche dal punto di vista economico. Una simile rivoluzione che parte dalla centralità delle persone e dal riconoscimento dell’altro come origine dell’io va perseguita non perché sia una scelta più etica o più gratificante ma perché, di fronte alla crisi, ci prospetta delle soluzioni alternative. Litigare ci conviene. Confrontarci senza sosta e magari confliggere nelle scelte e nelle visioni da realizzare, liberandoci dall’illusione della soluzione unica imposta dal mercato, è l’unica strada che ci conviene percorrere.


Metafisica del contagio

Il nuovo saggio di Sergio Givone spiega come “la peste” diventi, storicamente e socialmente, un’infezione della mente prima che del corpo

Emergenza, caos e malattia: le metafore delle nostre paure

di Antonio Gnoli (la Repubblica, 14.06.2012)

Chiudo il nuovo libro di Sergio Givone - Metafisica della peste (Einaudi) - con la sensazione che qualcosa, negli ultimi anni, è accaduto nelle nostre teste. È come se il nostro paesaggio mentale abbia inasprito le parti più dolci e reso impervi certi percorsi psichici. I sentimenti si fanno più precari e inquietanti e ci rendono più deboli e più esposti al contagio. A quei focolai di paura e sfiducia che vediamo crescere intorno. In fondo, l’essenza della peste è nell’improvviso insorgere del timore del contagio. Tutto repentinamente muta. L’ordine fin lì esercitato si riscrive in codici impensabili fino a un attimo prima. Il contagio richiama l’emergenza, lo stato d’eccezione, l’enigma. È di questo che ci parla il libro di Givone? Lungo un percorso nel quale tornano le colte letture di questo filosofo - allievo di Luigi Pareyson, professore di Estetica all’Università di Firenze e da pochi giorni assessore alla cultura al comune di Firenze - scopriamo le forti congiunzioni tra il discorso letterario e quello filosofico.

Non teme una certa confusione di generi?

«E perché mai? I grandi testi che hanno preso a tema la peste non fanno differenza fra filosofia e letteratura. Cos’è Lucrezio - che della peste è il massimo poeta - filosofo o letterato? E Camus che al tema ha dedicato uno straordinario romanzo? Se guardo poi alla nostra tradizione penso che la Storia della colonna infame di Manzoni è probabilmente il più importante libro di filosofia morale del nostro Ottocento ».

La peste è un evento che proprio Manzoni riconduce a un disegno divino. Mentre Lucrezio ha un’idea opposta.

«Intendiamoci: la peste è un’infezione del corpo, una malattia che oggi sappiamo definire con precisione. Ma quando ho citato Lucrezio è perché nessuno come lui ci spinge a liberarci dalla superstizione che la peste ingenera e cioè dalla credenza che essa venga dal cielo. Non c’è nessun disegno divino che ci riguardi. Il mondo è il mondo e basta. Ma proprio questa assenza di trascendenza, questo vuoto nel quale versiamo, è la colpa».

La peste, come tutto quello che rappresenta la regressione estrema, ci trova impreparati. Non pensa che una catastrofe ha sempre qualcosa di inaudito?

«Ogni disastro epocale ci fa entrare in una desolazione primordiale. È vero: prima che accada, la catastrofe è impensabile. Per questo è difficile prendere delle precauzioni. La peste è un fenomeno della natura. Ma la natura non basta a spiegarla».

La peste scatena sia i meccanismi mentali che quelli fisici del contagio. Quali sono i più temibili?

«I meccanismi del contagio sono stati scoperti nell’Ottocento. Ma in fondo, già Omero parlava delle frecce che appestano, scagliate da Apollo nel campo degli Achei. Di solito però gli scrittori, i poeti, i filosofi sono stati attratti più dai meccanismi mentali ed emotivi che non dal carattere meccanico del contagio. Ipotizzando che i primi fossero più importanti del secondo. Artaud sosteneva che la peste è un fenomeno virtuale, ma aggiungeva che il virtuale è più reale del reale».

Oggi il contagio assume forme diverse: le pandemie, l’Aids, i virus nella Rete, il contagio finanziario. C’è in queste espressioni odierne qualcosa di diverso rispetto alle narrazioni che in passato si sono fatte della peste?

«La differenza è che oggi abbiamo occhi solo per la peste qual è veramente e non come la immaginiamo che sia. È chiaro che la medicina combatte la peste in modo più efficace della metafisica. Però allora come oggi la peste è un tremendo carro allegorico che irrompe nelle nostre città e travolge ogni cosa. Solo se ci rendiamo conto che sempre di contagio si tratta, anche se solo in senso traslato, possiamo sperare di scamparla».

Questa relazione che lei stabilisce tra metafisica e peste non rischia di essere equivoca? «In che senso?»

Dopotutto, siamo inclini a pensare che la metafisica debba risalire a una causa prima. In realtà la peste è esattamente l’opposto: un’irruzione del caos, dell’inspiegabile, l’assenza di un fondamento che non sia una spiegazione scientifica. «Dipende da cosa vogliamo intendere con l’espressione “metafisica”. Secondo Aristotele essa è la scienza dell’essere in quanto tale. Dopo di lui si è pensato che in questione fosse appunto il fondamento, la ragione delle cose. Ma questo schema conoscitivo è assai più convincente se è svolto dalla scienza piuttosto che dalla metafisica. Quest’ultima ritengo debba occuparsi non tanto della ragione delle cose, ma del loro senso».

Con quali effetti?

«È la metafisica a dirci che la peste non ha nessun senso e questa insensatezza è il senso dell’essere».

A proposito di insensatezza come giudica l’idea che ci siano in Europa paesi come la Grecia, la Spagna e forse domani l’Italia che minacciano di contagiare il resto del mondo?

«Da un lato digrigno i denti perché trovo eccessivo il tentativo da parte dei paesi che si presumono sani o immuni di colpevolizzare i paesi appestati. Dall’altro mi domando se davvero non abbiamo colpa. E penso al nostro paese e a quegli allegri monatti che per quasi vent’anni hanno distribuito a piene mani intrugli malefici. Chi li ha voluti? Chi li ha eletti democraticamente?»

Anche la politica è vista oggi come un luogo di appestati.

«È un mondo chiuso in se stesso, autoreferenziale, poco incline a farsi tramite delle istanze dei cittadini».

E perché lei ha accettato di farne parte?

«È la prima volta in vita mia che assumo un incarico politico, per la precisione, come assessore alla cultura. Penso, o mi illudo, che ci sia ancora lo spazio per la correttezza del linguaggio del fare e delle parole chiare e coerenti».

-   La lingua è proprio l’organismo più esposto al contagio.

«Appestata è la lingua che ci ritroviamo a parlare per inerzia, per imitazione: la lingua di Facebook, di Twitter, figlia della televisione, a confronto della quale quella del vecchio e glorioso Bar Sport mi appare salutarmente ironica. La verità è che chi parla male pensa male. E chi pensa male, prima o poi il male lo fa».

Il male, come la peste, produce il disordine?

«L’arrivo della peste produce caos. Ma c’era chi, come Boccaccio, pensava che il crollo di ogni realtà civile fosse già la peste. In ogni caso, la peste è un’occasione per il pensiero: invita a pensare dall’impensabile, dal nulla che ci minaccia».

Caos, disordine, stato d’eccezione. Il tempo della peste sospende il tempo della normalità?

«Daniel Defoe, che scriveva sulla peste di Londra intorno alla metà del XVII secolo, in anni non lontani dal Leviatano di Hobbes, pensava così. Ma sapeva anche che la sospensione del tempo della normalità, in cui ciascuno attende ai suoi doveri, mette capo a un’alternativa. O la rinuncia alla libertà e a tutti i diritti, tranne quello di aver salva la vita. O l’assunzione di una libertà totale, grazie alla quale farsi responsabili di tutto nei confronti di tutti. Anche di ciò che non abbiamo voluto».

Non le pare che è chiedere un po’ troppo a questa fragile creatura che è l’uomo? Non le pare che viviamo ormai immersi nel tempo del colera?

«Penso che si viva sempre nel tempo del colera. E se questo è vero, allora hanno senso quelle vite che, nonostante la fragilità, si fanno carico del problema. Non hanno senso quelle che il problema lo ignorano, come se vivessero nel tempo della beata innocenza».


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