È come manna dal cielo che regala libertà e spirito di fratellanza
di Erri De Luca (Corriere della Sera, 19 maggio 2010)
In una città dove arrivo per la prima volta assaggio l’acqua di una fontana e il pane di un forno. Sono il biglietto da visita del posto. L’acqua è lì da prima della presenza della nostra specie, il pane lo abbiamo aggiunto noi. Viene dal sud del mondo, dall’oriente, ha attraversato l’infinita selezione delle spighe, l’intelligenza di millenarie civiltà contadine. Contiene il meglio della sapienza alimentare dell’umanità.
Trent’anni fa lavoravo in cantiere con operai del sud che rientravano a casa il sabato sera. Tornavano il lunedì con pagnotte che duravano fresche per la settimana, impastate e cotte al forno da mani di mogli. Profumavano di case imbiancate a calce. Riuniti intorno alla mensa di mezzogiorno li ascoltavo ripetere un ritornello che traduco: «Fabbrichiamo casa agli altri, ma la nostra rimane un progetto». Poi tagliavano il pane imbracciandolo come un violino, affettando verso il petto. Mi allungavano un taglio, ricambiavo col vino. A differenza dell’uso di tavole eleganti, a quelle mense il bicchiere andava riempito fino all’orlo. Il resto no, ma vino e pane andavano divisi.
Nella scrittura sacra la manna si chiama pane dei cieli. Si legge la sua apparizione nel capitolo 16 del libro Esodo/Shmot. È la fornitura del nutrimento indispensabile per i 40 anni di Israele nel deserto del Sinai. La libertà che affrontano per la prima volta è uno sbaraglio assistito dal cielo. Una colonna di fuoco li orienta di notte, una di nuvole guida nel giorno. Dall’alto piove un cibo condito di regole e d’istruzioni per l’uso. Esige innanzitutto di essere raccolto e distribuito in parti uguali. Nessuno deve temere di averne ricevuto di meno. È legge che mette pace tra gli uomini.
Poi deve servire da cibo e non se ne deve fare commercio. Perciò dura solamente un giorno, chi lo conserva per quello seguente, se lo trova marcito. Il fornitore di manna impedisce l’accaparramento, la scorta, vuole che abbia solo valore di uso e nessun valore di scambio.
Inoltre ne fa piovere più dello stretto necessario pro capite. Questo spreco apparente è la più bella di tutte le premure: il fornitore ha a cuore che nessuno raccolga l’ultima porzione, quella scartata dagli altri. Nessuno si deve affrettare nel dubbio di essere l’ultimo, che va a racimolare l’avanzo calpestato. Potevano andare alla provvista fuori dell’accampamento con passo sereno, senza contendersi il pane quotidiano. Perché non è pane di umiliati, ma pane di affrancati in cammino dentro la libertà. È cibo di riscatto, gustato nelle tende insieme a una divinità che si fa zingara per accompagnare. La manna è stato il più buono dei pani del sud, perché era il più giusto.
Smise all’ingresso di Israele in terra di Canaan, ma non è perduta la formula nè la ricetta. Chi nel suo giorno si fa distributore di pane a chi ne manca, è il vice di quel distributore e chi assaggia il suo pane ritrova le proprietà organolettiche della manna: parti uguali in spirito di fratellanza, dentro la libertà. È questo il pane del sud, che è pane suddiviso.