Quel che rende unico ogni individuo
Perché l’individuo è alle fondamenta della democrazia
Sappiamo adattarci e adeguarci alle condizioni di vita più diverse
La verità della nostra umanità non sta in una filosofia ma sta dentro ciascuno di noi
di Gustavo Zagrebelski
Anticipiamo una parte della lezione che il giurista terrà domani a Pistoia sul rapporto tra democrazia e identità personale
«Sull’uomo», sull’essere umano. Non so immaginare come altri, intervenendo in questi "dialoghi sull’uomo", interpreteranno l’espressione e intenderanno il loro compito. Da parte mia, non andrò di certo alla ricerca di qualcosa di essenziale, di ideale, di radicale circa l’essere-uomo. Nelle cose politiche e morali, è bene diffidare delle astrazioni e delle dottrine circa l’umanità autentica, vera, non corrotta, corrispondente all’ideale, un ideale che debba essere realizzato con ogni mezzo e a ogni costo. È prudente pensare che non esista "l’uomo" o che, se esiste, non l’abbiamo mai incontrato. Ci sono "gli uomini" e non uno è per natura uguale all’altro. Per nostra fortuna è così. Altrimenti saremmo pronti ad accettare l’uomo-massa, l’uomo-gregge, l’uomo in serie. La verità della nostra umanità non sta in una filosofia, in un’antropologia; sta dentro ciascuno di noi, in interiore homine, e tutti possiamo cercare di conoscerla seguendone le tracce profonde, senza mentire a noi stessi. Conosci te stesso! E non pensare che quello che hai trovato valga necessariamente nemmeno per chi ti sta più vicino.
La storia ci mostra però che questa realtà, tanto molteplice da non poter trovare un esemplare di per sé uguale a un altro, è tuttavia massimamente plastica, cioè capace di adattarsi, adeguarsi, combaciare alle condizioni nelle quali si trova a vivere. Nessun altro essere vivente ne è altrettanto capace. Per questo, gli esseri umani sopravvivono nelle condizioni ambientali, climatiche, sociali, politiche più diverse. Non solo gli individui, ma anche le loro società sono varie e sono capaci di cambiare, come nessun’altra società di esseri viventi. I viventi non umani ci appaiono programmati per vivere nella e solo nella struttura sociale che è loro propria.
Dalle società tribali arcaiche, studiate dagli etologi, alle odierne società della comunicazione, di cui si occupano gli informatici, quante varianti, quanti tipi umani diversi: cacciatori, agricoltori, nobili e plebei, liberi e servi, cittadini e contadini, corteggiani, cavalieri e borghesi, umanisti e tecnici, imprenditori ed esecutori, proprietari e proletari, uomini di religione e uomini di scienza, eccetera. Differenze, queste, che riguardano il lato esteriore degli esseri umani, quello che riguarda i rapporti sociali tra di loro. Ma che diremmo del lato interiore, quello che riguarda cose come le loro qualità morali, la loro sensibilità artistica, l’autocoscienza, la felicità e l’infelicità? Qui davvero ogni pretesa di generalizzare sarebbe ancora più arbitraria.
Forse però, potremmo già subito smentirci da noi stessi e dire che, allora, una natura dell’essere umano c’è, ed è la sua plasticità e irriducibilità ad unitatem. Ma è una smentita apparente, perché non ci permette di andare oltre, mentre è propriamente questo "oltre", o questo "altro" ciò che ci importerebbe di definire.
Orbene, è precisamente l’indefinibiltà di un’idea essenziale a priori che consente di dire qualcosa in modo indiretto, a partire dalle condizioni esterne che operano sugli esseri umani, conformandoli a determinati standard sociali e a determinate aspettative sociali. Ferma restando, peraltro, la sempre presente, residua e ribelle, loro irriducibilità integrale a tali standard.
Guardando alle condizioni odierne delle nostre società, troviamo impressionanti conferme di due profezie che risalgono, l’una, a Tocqueville e, l’altra, a Dostoevskij.
Tocqueville, osservando le condizioni della società americana orientata alla democrazia ugualitaria, previde «una folla innumerevole di uomini simili e uguali, che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri, con cui soddisfare il proprio animo. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è come estraneo al destino degli altri: i suoi figli e i suoi amici più stretti formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, è vicino a loro, ma non li vede; li tocca, ma non li sente; vive solo in se stesso e per se stesso, e se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia patria.
Al di sopra di costoro s’innalza un potere immenso e tutelare, che s’incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Assomiglierebbe al potere paterno, se, come questo, avesse per fine di preparare gli uomini all’età virile; ma al contrario, cerca soltanto di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia» (La democrazia in America, 1840, libro II, parte IV, capitolo VI).
Dall’altra parte del mondo, qualche decennio dopo (1879-1880), Dostoevskij avrebbe scritto, presumibilmente senza conoscere il suo predecessore, quella che è stata definita la storia dei due secoli successivi, La leggenda del Grande inquisitore, capitolo centrale, somma del suo pensiero politico e vetta della sua arte, ne I fratelli Karamazov. Anche qui, l’umanità è vista divisa in due. I "tutori" di Tocqueville diventano gli "inquisitori" in Dostoevskij. La visione generale è la stessa: la massa addomesticata e i pochi che, al di sopra, l’addomesticano. Non tiranni feroci, ma benefattori che prendono sulle loro spalle il fardello di una libertà di cui, per lo più, gli esseri umani non sanno che farsi, anzi anelano di sbarazzarsi. La società dei grandi numeri, industrializzata, standardizzata, meccanizzata produrrebbe così una doppia, opposta umanità. La divisione ha a che fare con la distribuzione ineguale di tre risorse vitali, i beni materiali, le conoscenze, il potere: detto altrimenti, l’avere, il sapere, il potere, i tre pilastri d’ogni struttura sociale.
La democrazia in America è un testo che potremmo definire di sociologia politica; La Leggenda, di antropologia morale. Per questo, in un discorso sull’essere umano come è quello cui i "Dialoghi sull’uomo" ci invitano, è a Dostoevskij, innanzitutto, che ci rivolgiamo. Non con l’illusione di trovarvi tutto, ma almeno con la certezza di scorgervi qualcosa di ciò che cerchiamo, anzi forse non poco.