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LO STATO DEL FARAONE, LO STATO DI MINORITÀ, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ

"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo. Alcuni appunti sul tema - di Federico La Sala

ADOLF EICHMANN CHIARISCE COME E’ DIVENUTO “ADOLF EICHMANN”, MA HANNAH ARENDT TESTIMONIA CONTRO SE STESSA E BANALIZZA: “IO PENSO VERAMENTE CHE EICHMANN FOSSE UN PAGLIACCIO”( ...)
lunedì 14 novembre 2011
[...] “(...) quella giornata fu indimenticabile per Eichmann. Benché egli avesse fatto del suo meglio per contribuire alla soluzione finale, fino ad allora aveva sempre nutrito qualche dubbio su “una soluzione cosí violenta e cruenta”. Ora questi dubbi furono fugati. “Qui, a questa conferenza, avevano parlato i personaggi piú illustri, i papi del Terzo Reich”. Ora egli vide con i propri occhi e udí con le proprie orecchie che non soltanto Hitler, non soltanto (...)

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> "LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN --- La Arendt, la banalità del male e Eichmann in un film Margarethe von Trotta (di Paolo Lepri - Lo sguardo di Hannah sul boia)

mercoledì 16 gennaio 2013

Lo sguardo di Hannah sul boia

La Arendt, la banalità del male e Eichmann in un film

di Paolo Lepri (Corriere della Sera, 15.01.2013)

BERLINO - Non è un obiettivo da poco quello che si è proposta Margarethe von Trotta nel raccontare Hannah Arendt. Ha cercato, come ha detto lei stessa, di «trasformare i pensieri in immagini» e ha provato ad entrare nella mente della filosofa ebrea tedesca, espatriata negli Stati Uniti per sfuggire al nazismo, i cui articoli sul processo Eichmann diventarono un libro, La banalità del male, che ha fatto la storia del Novecento.

Gli interrogativi che quel testo continua a suscitare, cinquanta anni dopo la sua pubblicazione, sono al centro dello sforzo della regista tedesca di fare rivivere la Arendt affidandosi ad un’attrice che è sempre stata quasi il suo doppio davanti alla macchina da presa, Barbara Sukowa (la Marianne di «Anni di piombo», personaggio ispirato alla terrorista della Raf Gudrun Esslin). Tutto questo nonostante il parere contrario dei produttori e chiedendo a Barbara Sukowa una immedesimazione totale con il suo personaggio. «Non farò questo film senza di lei», fu il suo ultimatum. Ed è stata una scommessa riuscita.

«La scelta di un’attrice che non ha nessun tipo di rassomiglianza fisica con la Arendt si è dimostrato un dono del cielo, perché ha eliminato qualsiasi empatia kitsch fin dall’inizio», ha scritto su «Der Spiegel» Elke Schmitter. Si tratta di un confronto fra tre donne, ad una delle quali è stato tributato un omaggio totale. E non è un caso che Adolf Eichmann, invece, appaia solo nelle immagini storiche del processo: nessun attore avrebbe potuto, dice la regista tedesca, interpretare la miseria morale e la mediocrità di quel burocrate dello sterminio, di quell’«impiegato» per il quale si prova solo disgusto.

«Barbara e Hannah si sono fuse insieme», ha detto Margarethe von Trotta, che racconta oggi di non sapere quasi più chi delle due è la donna che ha di fronte, tanto è stato intenso il lavoro di comprensione, di analisi, di ricostruzione, tanto è stata appassionata questa doppia irruzione nella storia. «Improvvisamente - ha aggiunto in una intervista al sito del Goethe Institut - qualcuno in carne ed ossa è davanti a me, con la sua voce, che non è quella di Hannah Arendt. Naturalmente si tratta di un’approssimazione, ma tuttavia è lei, il suo spirito, il suo intelletto, il modo con cui si muove e parla».

Parole appassionate, che spiegano il modo con cui è stato concepito un film che cerca di stabilire un legame totale con l’oggetto della narrazione. Ma l’idea di Margarethe von Trotta non è stata soltanto quella di narrare la storia di una persona, come aveva fatto per esempio con la Sukowa e Rosa Luxemburg. Il film, come si diceva, è una rimeditazione sul modo con cui Hannah Arendt ha elaborato le sue tesi su Eichmann, uno dei maggiori organizzatori della «soluzione finale», fuggito in Argentina, catturato dal Mossad e trasferito in Israele dove fu processato, condannato a morte e impiccato in prigione.

Siamo a Gerusalemme, nel 1961. L’allieva di Martin Heidegger (che compare brevemente in alcune scene dedicate al passato), arriva in Israele da New York, dove viveva con il marito Heinrich Blücher e si trova di fronte, nella gabbia di vetro dell’aula del processo, ad un uomo che non giudica un pazzo, un fanatico o un criminale. Eichmann le sembra un funzionario dell’orrore che ha applicato le istruzioni con diligenza, che non si è mai reso effettivamente conto di quanto stava facendo, perché privo di quei codici morali che dovrebbero guidare le nostre azioni. Un prodotto delle società dell’obbedienza.

Lei vuole capire e cercherà di farlo, anche se la sua lettura della personalità dell’imputato (e dello stesso modo con cui è stato organizzato il processo) contrasta con gli schemi di interpretazione di chi la circonda. Le conversazioni registrate in Argentina dall’olandese Willem Sassen dimostrarono, ricorda «Der Spiegel», che Eichmann «era un convinto antisemita, incapace di usare personalmente la forza, ma determinato a sterminare il popolo ebraico». La parte da lui recitata a Gerusalemme era stata soltanto un inganno, non tale però da togliere forza al nocciolo delle riflessioni svolte dall’autrice di Le origini del totalitarismo.

«Era una donna - afferma Margarethe von Trotta - che si adatta al mio modello personale delle donne di importanza storica che ho ritratto. "Voglio capire" era uno dei suoi principi-guida. Penso che valga anche per me e per i miei film».


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