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EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).

HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI. Alcune note di Federico La Sala

(...) Ancora oggi, ci sono studiosi che sembrano “prendere sul serio il profetismo di Heidegger” e insistono a dare credibilità ai sogni dei visionari e dei metafisici (...)
lunedì 22 agosto 2011
[...] Nel 1933, il discorso del rettorato di Martin Heidegger è la ‘logica’ conseguenza dell’assassinio non solo del “Mosè della nazione tedesca” (come voleva Holderlin), ma del Mosè Liberatore e Legislatore dell’intera tradizione abramica (ebraismo, cristianesimo, e islamismo) ed europea. L’"Uno" di Mosè (“Ascolta Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è Uno”), come l’“uno”di Kant, diventa l’uno della monarchia prussiana prima (si cfr. la (...)

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> HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI. --- Da Dio allo spread il Due (di R. Esposito) è sempre tiranno ...Certo il capitalismo non sembra avere niente da temere da questa decostruzione della teologia politica (di Gianni Vattimo).

sabato 13 luglio 2013

-  Da Dio allo spread il Due è sempre tiranno
-  Una liberazione dalle gerarchie del capitalismo mondiale chiedendo aiuto ad Averroè, Deleuze e Heidegger
-  Il soggettivismo personalistico ci fa vedere tutto in termini di colpa, debito, personalismo individuale

di Gianni Vattimo (La Stampa TuttoLibri, 13.07.2013)

      • Roberto Esposito «Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi» pp. 233, € 21.

Uno dei termini chiave della filosofia recente, introdotto per la prima volta da Heidegger nel 1927 (in Essere e tempo) e poi reso popolare soprattutto da Jacques Derrida è quello di «decostruzione»; in origine, nel testo heideggeriano era semplicemente «distruzione» (della storia dell’ontologia, cioè del modo in cui la tradizione metafisica ha sempre pensato l’essere, identificandolo con ciò che è dato nella presenza). Ma già nell’ opera di Heidegger la distruzione era diventata una specie di riflessione genealogica sulla storia della metafisica occidentale, dunque più una ricostruzione del passato che una sua liquidazione.

Nei filosofi - tanti - che si sono ispirati alla lezione di Heidegger e Derrida rimangono decisivi questi due aspetti del filosofare: l’idea radicale di una distruzione, che si attua, e spesso si esaurisce, in un lungo percorso rammemorativo. Nei casi migliori, come è quello dell’ultimo libro di Roberto Esposito, filosofo napoletano tra i più originali della sua generazione, il risultato è sicuramente affascinante per la quantità di informazione storica che mobilita - da Averroè a Deleuze! - anche se lascia aperte molte domande e giustifica qualche insoddisfazione.

Il Due che dà il titolo al libro di Esposito allude alla struttura teologico-politica della tradizione egemone nella nostra cultura: da sempre siamo abituati a definirci persone in quanto abbiamo un corpo e un’anima, o anche ragione e istinto, spesso in lotta tra di loro, con il dovere di realizzare l’unità attraverso la sottomissione di una parte all’altra. Questo schema ripete quello del rapporto tra Dio e il mondo, che ci sembra del tutto naturale , mentre naturale non è , ed è anzi, alla lunga responsabile del disagio esistenziale in cui viviamo; soprattutto, è la struttura portante di un «dispositivo» fondamentalmente politico che Esposito, nelle pagine conclusive del libro, non esita a identificare con la macchina mondiale del capitalismo che ci impone sempre più esplicitamente una logica del debito insolvibile, anche nei termini del discorso politico quotidiano.

Anche per chi non sempre riesce a seguire il complesso discorso decostruttivo di Esposito, il libro riveste un sicuro interesse per le tante informazioni storiche che mette in campo: così anche il lettore medio leggerà con profitto le pagine sul grande commentario di Averroè (1126-98) al trattato sull’anima di Aristotele, che non è proprio un dato di cultura comune ; o quelle dedicate alle discussioni sulla Trinità tra Carl Schmitt, Erik Peterson, Jacob Taubes; e la parte del libro teoreticamente più impegnata che analizza il rapporto di Schelling (ma qui andava tenuto più presente il lavoro di Pareyson) con Spinoza. Non vogliamo spaventare il lettore con questi richiami perché per la massima parte del lavoro Esposito riesce ad essere chiaro e in genere persuasivo.

In vista di quale conclusione? Come abbiamo accennato, il libro finisce con Deleuze e la sua polemica contro le «territorializzazioni», le divisioni e le gerarchie (sempre il due che ritorna) che caratterizzano la macchina del capitalismo mondiale, e dunque anche il nostro disagio di cittadini di questo ordine-disordine. La decostruzione delle strutture binarie della teologia politica che continua a dominarci dovrebbe preparare una trasformazione radicale del nostro modo di fare esperienza del mondo. Liberandoci soprattutto dal predominio del soggettivismo personalistico, che ci fa vedere tutto in termini di debito, colpa, responsabilità individuale, alla fine anche di nevrosi.

Averroè sta all’inizio di una tradizione liberante che arriva appunto, secondo l’autore, a Bergson, a Deleuze, anche a Heidegger sia pure in termini non esattamente coincidenti. Averroè aveva sostenuto la tesi della unità dell’intelletto , quello che Aristotele chiamava l’intelletto agente, universale, capace della verità, di cui le intelligenze dei singoli sono partecipi solo nella misura in cui si liberano dai limiti e dalla opacità legati alla loro costituzione finita, appunto dal loro essere «persone»..

Ciò che dovrebbe liberarci dal meccanismo del dominio capitalistico, o almeno porre le premesse per questa trasformazione, è la capacità (ma con una decisione sempre ancora «personale»?) di abbandonarci, in una sorta di estasi mistica, al flusso della vita e a una conoscenza che non appartiene più al singolo ma, come la sapienza di cui parla Schelling, è una sorta di teoria-prassi condivisa.

Il rischio di irrazionalismo che percepiamo a questo punto è limitato, come del resto accade in Deleuze e in certa misura, prima ancora, in Heidegger, dal realismo del richiamo alla macchina mondiale del capitalismo. Niente pura ricerca di una liberazione mistica, direbbe Esposito, ma lotta dura per uscire dal dominio del «dispositivo» teologico-politico. O, diremmo noi, semplicemente dalla logica del dominio. Certo il capitalismo non sembra avere niente da temere da questa decostruzione della teologia politica. Ma non si sa mai, anche Averroè (niente da fare con l’islamismo radicale!) potrebbe alla fine dare una mano all’impresa.


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