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EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).

HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI. Alcune note di Federico La Sala

(...) Ancora oggi, ci sono studiosi che sembrano “prendere sul serio il profetismo di Heidegger” e insistono a dare credibilità ai sogni dei visionari e dei metafisici (...)
lunedì 22 agosto 2011
[...] Nel 1933, il discorso del rettorato di Martin Heidegger è la ‘logica’ conseguenza dell’assassinio non solo del “Mosè della nazione tedesca” (come voleva Holderlin), ma del Mosè Liberatore e Legislatore dell’intera tradizione abramica (ebraismo, cristianesimo, e islamismo) ed europea. L’"Uno" di Mosè (“Ascolta Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è Uno”), come l’“uno”di Kant, diventa l’uno della monarchia prussiana prima (si cfr. la (...)

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> HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI. --- La filosofia tedesca è morta. Dopo 300 anni (di Donatella Di Cesare)

domenica 10 maggio 2015


La filosofia tedesca è morta. Dopo 300 anni

di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, la Lettura, 10.05.2015)

La filosofia tedesca contemporanea non è che una pallida controfigura di quella del Novecento. I motivi che hanno contribuito a questo declino sono molteplici. Negli ultimi vent’anni è cambiata anzitutto la politica culturale della Germania, che ha preferito puntare sulle materie scientifiche piuttosto che su quelle umanistiche. A farne le spese è stata la filosofia il cui pur forte prestigio non ha arginato il discredito in cui è caduta. Ma la vera novità è che la «filosofia continentale » è stata soppiantata dalla «filosofia analitica», importata dai Paesi anglosassoni. Interi dipartimenti, roccaforti dell’idealismo tedesco, della fenomenologia, dell’ermeneutica, sono caduti nelle mani degli analitici, in un conflitto senza esclusione di colpi. A Tubinga, patria di Hegel e Schelling, vengono oggi offerti anonimi corsi di teoria della scienza; a Heidelberg, sulla cattedra che è stata di Jaspers prima, di Gadamer poi, siede un analitico che insegna in inglese «filosofia della mente».

A nulla sono valsi gli appelli che i filosofi da tutto il mondo hanno inviato alle autorità tedesche. Come a nulla è servita la petizione, lanciata il 9 marzo scorso e firmata da oltre tremila filosofi - da Jean-Luc Nancy a Judith Butler - per evitare che, sull’onda del dibattito suscitato dai Quaderni neri, venisse soppressa la cattedra di Friburgo intitolata a Martin Heidegger; con la scusa di introdurre una Juniorprofessur, cioè un posto per un giovane studioso, che peraltro si occupi di filosofia analitica, la celebre cattedra di fatto è già stata eliminata.

La difficoltà in cui si dibatte oggi la filosofia tedesca, nella sua affannosa ricerca di una nuova identità, ha a che fare con Heidegger. Incapace di uscire dal cono d’ombra proiettato dal suo pensiero, prova a demolirne la figura. Così diventa molto più facile cancellare con un colpo di spugna non solo Heidegger, ma anche il passato recente che pesa sempre di più: la fine dell’ebraismo tedesco, le leggi di Norimberga, la Shoah.

Al contrario di quel che è avvenuto altrove, la filosofia ebraica non ha mai fatto davvero breccia, e questi temi non sono stati considerati filosofici. Che cosa c’era di meglio, dunque, che ricominciare tutto da zero, aprendo le porte dell’università a un pensiero angloamericano, refrattario alla storia e poco propenso a intervenire nel dibattito politico? L’oculata regia di accademici come Jürgen Mittelstraß non basterebbe altrimenti a spiegare il successo delle correnti analitiche.

Quando, nel 2002, è morto Gadamer, allievo di Heidegger, fondatore dell’ermeneutica, la situazione era già mutata. Oggi che, dopo la scomparsa recente di Otto Pöggeler, il 10 dicembre 2014, e di Michael Theunissen, il 18 aprile 2015, si può dire concluso il capitolo del Novecento, c’è da chiedersi se abbia giovato alla filosofia tedesca quell’atteggiamento autodistruttivo che ha finito per nuocere non solo all’ermeneutica - ne sono rimasti coinvolti anche personaggi come Hans Blumenberg - ma anche alla fenomenologia.

Se i ponti costruiti da Ernst Tugendhat tra ermeneutica e filosofia analitica restano solidi, più pericolanti sono quelli gettati da Bernhard Waldenfels che ha tentato di sganciare la fenomenologia dall’ermeneutica e di rileggerla alla luce della tradizione francese. Certo sono ben pochi i nomi dei filosofi tedeschi che superano i confini nazionali. Non mancano figure di rilievo, come Julian Nida-Rümelin o Volker Gerhardt, pressoché sconosciuti, però, al grande pubblico europeo.

Nel complesso il paesaggio appare molto frastagliato. È sopravvissuta la «Scuola di Francoforte» grazie a Jürgen Habermas e ai suoi allievi, come Axel Honneth. Ma è difficile rinvenire nei loro scritti quell’afflato che aveva ispirato Horkheimer e Adorno nella loro critica radicale alla ragione.

Le opere di politica hanno in genere un carattere molto normativo. Accanto alla filosofia pratica, sono molto diffuse la bioetica, l’etica applicata, l’etica dell’ambiente, nonché tutte quelle specializzazioni con cui il pensiero si sforza di essere un’utile prassi. La ricerca teoretica, per quanto rigorosa e accurata, sembra incapace di aprire nuove prospettive, mentre mantengono un alto profilo la storia della filosofia e lo studio dei classici, greci e tedeschi, spesso dettato tuttavia da un interesse antiquario.

Costretta a misurarsi con il modello vincente della scienza, la filosofia tedesca del XXI secolo, quando non ha vestito i panni dell’epistemologia, ha finito per rifugiarsi nell’estetica. Di qui la grande mole di pubblicazioni nell’ambito della riflessione sull’arte e sull’immagine. A questo proposito si parla di Neuromantik, un «nuovo romanticismo», in cui si inscrive anche Peter Sloterdijk, l’unico filosofo tedesco che abbia raggiunto fama internazionale. Dopo lo spettacolare successo del suo libro Critica della ragione cinica, uscito nel 1983, Sloterdijk ha mantenuto un ruolo di primo piano sulla scena filosofica tedesca grazie alle sue doti comunicative e a una brillante critica della globalizzazione, di stampo, però, fortemente conservativo.

Oltre al poliedrico racconto dell’umanità, affidato ai tre volumi di Sfere (i primi due sono stati tradotti da Cortina), Sloterdijk ha pubblicato numerosi saggi, libri, pamphlet, che hanno suscitato accese polemiche. Hanno fatto scalpore alcune sue tesi, come quella in cui sostiene che lo «Stato finanziario», basato sulla tassazione, è una sorta di «saccheggio». Erede di Nietzsche e Heidegger, ne accentua il risentimento in modo talvolta parossistico. Viviamo in un’epoca post umana, nella quale riemerge la «bestialità» dell’uomo e diviene tangibile il fallimento dell’umanismo. Paradigmatico è il titolo di una raccolta: Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger. Nostalgia del passato e una certa aspirazione all’ordine attraversano il suo ultimo libro Die schrecklichen Kinder der Neuzeit («I terribili figli della modernità») pubblicato da Suhrkamp nel 2014.

Se le pagine di Sloterdijk sono sempre coinvolgenti, non si può dire altrettanto per quelle di Markus Gabriel, anche lui ospite del Salone internazionale del Libro di Torino. Perché il mondo non esiste si intitola il suo bestseller, appena pubblicato in Italia da Bompiani. Il libro di Gabriel ruota intorno alla tesi che il mondo, inteso come un insieme di oggetti, non esiste. Ma non l’aveva già detto Heidegger? Il mondo è piuttosto un esistenziale, viene cioè tratto alla luce dall’essere umano che vi soggiorna. L’intento di Gabriel, che si serve di Heidegger leggendolo attraverso le lenti riduttive della filosofia analitica, è però ben diverso: si tratta di dimostrare che il mondo esiste al plurale e che gli oggetti possono essere colti in sé, nei molteplici «campi ontologici» in cui si rendono accessibili. Contro Kant, contro il postmodernismo, contro Derrida, sarebbe questa la via per salvare la «realtà». È difficile credere che - come auspica Gabriel - attraverso queste speculazioni, a dir vero molto antiche, la Germania possa tornare a essere di nuovo leader sul «mercato». L’impressione è, al contrario, che volge al termine un predominio di quasi trecento anni. I protagonisti del dibattito filosofico parlano ormai altre lingue.

Donatella Di Cesare


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