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LA PSICOANALISI, LA BANALITA’ DEL MALE, E IL NAZISMO. “Come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo").

CONTRO KANT (E MOSE’), UN FREUD CIECO. Negata la lezione del “Tu devi” di Kant, Freud riesce a liberarsi a stento dal “Super-Io” Faraonico. Alcune note - di Federico La Sala

Come ha fatto con Popper-Linkeus (sempre nel 1932) , così ora con Kant: un saluto, al suo busto marmoreo ai giardini pubblici - là dove i bambini vanno a giocare!
domenica 20 giugno 2010 di Federico La Sala
[...] Per Freud non c’è più alcuna distinzione tra Mosè e il Faraone e la Legge di Mosè diventa la “diretta erede” della Legge dell’edipico Faraone!!! Questo chiarisce come non sia affatto né un lapsus né una battuta di spirito assimilare Mussolini a Mosè, come fa nella dedica al Duce sulla copia del “Perché la guerra?”, in cui scrive: “da un vecchio che saluta nel Liberatore l’Eroe della cultura” (1933)!!! [...] (...)

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> CONTRO KANT (E MOSE’), UN FREUD CIECO. --- GOCE SMILEVSKI E UNA STORIA RIMOSSA. Le sorelle immolate al nazismo da Sigmund Freud (di Leonetta Bentivoglio).

domenica 9 ottobre 2011


-  Goce Smilevski fa una finta autobiografia tratta da una storia rimossa
-  La protagonista è Adolfine che ripercorre la sua vicenda dal lager

-  Il destino segreto delle sorelle di Freud dimenticate a Vienna

-  di Leonetta Bentivoglio (la Repubblica, 09.10.2011)

Rosa, Marie, Adolfine e Pauline furono le sorelle immolate al nazismo da Sigmund Freud. Le condannò per ignavia, trascuratezza, egoismo o per chissà quali segreti rancori familiari. Soltanto Anna, la maggiore, evitò i lager, emigrando in America nel 1889. Le altre quattro perirono in modo tragico e umiliante, in campo di concentramento, tra il 1942 e il 1943, mentre il loro celebre fratello si era spento nella quiete della sua bella casa inglese nel 1939, un mese dopo l’inizio della guerra. Semplicemente Sigmund aveva deciso di abbandonarle alla sventura. Già molto infragilito dal cancro, lo scienziato, dopo l’Anschluss, aveva ceduto alle pressioni della sua cerchia di devoti, che lo spingevano a lasciare l’Austria.

In principio aveva fatto resistenza, sentendosi troppo debole e anziano per andarsene da Vienna; poi convenne che era la cosa giusta. Per un personaggio tanto noto internazionalmente, non fu difficile trovare, in un paese come l’Inghilterra, la disposizione ad accoglierlo, e affinché i nazisti gli consentissero di partire vennero sollecitate molte prestigiose intercessioni, tra cui quella di Roosevelt. Ci fu tra l’altro il benevolo intervento di Mussolini, grande ammiratore di Freud. Quest’ultimo riuscì a salvaguardare la fetta più sostanziosa del suo patrimonio, incluse le amate collezioni di antiche statuette, che approdarono intatte a Londra, e si permise l’acquisto di Maresfeld Garden, l’abitazione oggi divenuta un museo, che in suo onore guadagnò un accessorio prezioso come l’ascensore.

L’aspetto incredibile di questa storia è che, lasciando Vienna, Freud aveva avuto la possibilità di portare con sé i propri cari, e nell’elenco che stilò per l’occasione figuravano la moglie, i figli, la cognata, le due assistenti, il medico personale con famiglia al seguito e persino il cane. Ma non le quattro povere sorelle.

Pur nel continuo proliferare di omaggi ad un eroe che non passa mai di moda (l’ultimo è il film, fastidiosamente iconografico, A Dangerous Method, di David Cronenberg, dedicato al suo incontro-scontro con Jung), è mancata sempre un’indagine seria riguardo alle cause di quest’inspiegabile episodio, sul quale le biografie tendono a sorvolare. Il principale agiografo del fondatore della psicoanalisi, Ernest Jones, scrisse, a proposito dell’orrenda fine delle quattro donne: «Freud, per fortuna, non avrebbe mai saputo nulla di ciò che sarebbe accaduto loro». D’altra parte Sigmund, commentava con ipocrisia lo stesso Jones, «non aveva alcun motivo di preoccuparsi delle sorelle, visto che all’epoca del suo trasferimento a Londra la persecuzione degli ebrei era appena cominciata».

Il giovane scrittore macedone Goce Smilevski (è nato nel 1975) si è ispirato a questa strana e rimossa vicenda per un romanzo di evidente asprezza, votato all’esplorazione della sorte di Adolfine. È alla sua voce che si affida l’intero racconto, plasmato come una finta autobiografia, e oscillante tra verità documentate e liberissime invenzioni. Pubblicato nel 2007, La sorella di Freud è stato subito un successo, e nel 2010 un suo estratto è apparso nell’antologia "Best European Fiction 2010", con un’introduzione di Zadie Smith. L’hanno comprato vari paesi, tra cui Inghilterra, Francia, Spagna e Stati Uniti, e ora sta per uscire in Italia per Guanda.

Nel lager di Terezin, dov’è rinchiusa in un assoluto stato d’infelicità e rimpianti, e dove si prepara con stoicismo alla morte (che sopraggiunge, nell’ultimo capitolo, come un tuffo finalmente lieve nell’oblio), Adolfine ripercorre la sua vita. Scorrono gli anni dell’infanzia, le tensioni all’interno della famiglia e lo speciale rapporto instaurato con Sigmund, poi sfociato in un allontanamento nell’adolescenza, quando tra loro si frappose un "qualcosa" che aveva molto a che vedere con la differenza di genere sessuale.

C’è l’amore disperato di Adolfine per Rajner, un ragazzo malinconico fino al torpore e con tendenze autodistruttive, e l’ansia martellante di una maternità mai realizzata. C’è la lunga amicizia con Klara Klimt, sorella del pittore Gustav, protesa in modo agguerritissimo e totalizzante, fino al martirio o al fanatismo, verso l’obiettivo di un mondo diverso per le donne, più paritario e giusto. C’è soprattutto il legame di Adolfine con sua madre, presenza angosciosa e punitiva al massimo, vera fonte del dolore esistenziale della figlia, perché in ogni vita ci sono ferite che scompaiono e altre che restano, ed è questo, forse, il tema-cardine del libro: l’idea di un danno primario, da considerare come il più autentico. Gli altri, andando avanti, ci colpiscono per suo tramite, e ogni seguente sofferenza trova la sua forza fin tanto che gli si avvicina. Il dolore di Adolfine aveva un nome, quello della madre, siglato nella sua memoria più profonda, e intimamente connesso ai tormenti successivi, come sgorgati da un’unica radice.

La sorella di Freud non è un romanzo "d’ambiente". Sprazzi della Vienna di quel periodo affiorano nelle dissertazioni sulla sessualità, sull’ebraismo e sul nascente femminismo, così come negli accenni all’opera freudiana. Ma Freud e Vienna sono soltanto un’occasione per un viaggio lungo il male oscuro di una donna schiacciata da un destino di passività. Ce lo restituisce una scrittura ruvida, insidiosa, ossessiva. E sempre consapevolmente disattenta alle ripetizioni. Un po’ come nello stile di autori quali Saramago, che sembrano voler abbattere i più gentili criteri della forma per dimostrare che è importante la sostanza.


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