Arendt e Eichmann la stupidità del male
Così, a confronto con Joachim Fest, la filosofa approfondì la sua analisi su uno dei maggiori responsabili della Shoah
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 28.05.2013)
«Più che della “banalità del male” si dovrebbe parlare della banalità delle conclusioni della signora Arendt. Il processo ad Eichmann fu fatto da ignoranti, voluto da Ben Gurion per giustificare la fondazione dello Stato di Israele. Hannah Arendt, che aveva seguito tutto da lontano, racconta un sacco di assurdità». Queste parole pronunciate giorni fa a Cannes, con la consueta passione, da Claude Lanzmann, autore del film Shoah, ripropongono la polemica violentissima scoppiata negli Anni 60 all’uscita dell’ormai celebre libro della filosofa ebrea, tedesca, americana Hannah Arendt, La banalità del male, appunto.
È una polemica «fuori tempo»? No. C’è infatti il rischio che la ricezione di questo libro diventi essa stessa banale (è inevitabile questo gioco di parole perché fa parte del problema). Che l’opera sia citata quasi esclusivamente per il suo titolo, ignorandone la complessità, la tortuosità e la problematicità.
Siamo quindi grati all’editore Giuntina d’avere tradotto in italiano un libro che inquadra e fa la sintesi di questa problematica ( Hannah Arendt, Joachim Fest, Eichmann o la banalità del male. Interviste, lettere, documenti, pp. 214, € 14). In esso troviamo una documentazione accurata della polemica iniziata nel marzo 1963 in America dall’Organizzazione degli ebrei emigrati dalla Germania e proseguita con moltissimi interventi tra cui quelli di personaggi di spicco come Golo Mann e Mary McCarthy.
Si è trattato di un vero e proprio processo alle intenzioni e ad alcune tesi del libro che investono non soltanto la personalità di Eichmann ma anche la corresponsabilità dei Consigli ebraici nell’organizzazione della deportazione e quindi della eliminazione degli ebrei. Hannah Arendt lo ha definito «il capitolo più fosco di tutta quella fosca storia».
In effetti è un tema terrificante e tuttora controverso, in cui guazzano anche incorreggibili antisemiti e negazionisti. Quanto a Eichmann, «altro che burocrate ottuso: era un demonio: violento, corrotto, furbissimo», prosegue oggi Lanzmann, respingendo tutti i tentativi della Arendt di darne un’immagine diversa, anche se negativa.
Già nel 1964 Golo Mann aveva riconosciuto che la Arendt aveva tracciato un ritratto a suo modo fedele di Eichmann. «Non si trattava di un mostro, di un sadico, nemmeno di un fanatico antisemita, bensì di un uomo oltremodo comune: ambizioso quanto altri, obbediente, scaltro e stupido quanto altri; rispetto alle persone più colte era animato da un misto di ammirazione e risentimento; fiutò delle opportunità per una nuova carriera bramoso di svolgere il grande compito omicida in maniera puntuale come qualsiasi altro compito gli fosse assegnato».
Dove sbaglia allora l’autrice? Il fatto che fosse un essere razionale e non un idiota, che fosse un marito tenero e un padre amorevole, nonché un amico disponibile non giustifica - scrive Golo Mann - che Eichmann venga presentato «così innocuo e bonario come lo dipinge la Arendt. Con osservazioni del genere non si risolve il problema della crudeltà e diabolicità dell’uomo».
Ecco il punto: il contrasto tra la «normalità persino bonaria dell’individuo e la mostruosità e diabolicità del suo comportamento» non può essere liquidato come «banalità del male». Questa definizione è frutto di una «saccente dialettica che genera una notte in cui i buoni non sono buoni e i cattivi non sono cattivi».
Non era certamente questa l’intenzione della Arendt. Ma per sostenere la sua tesi non usa argomenti del tipo: sì, anche l’uomo comune - immesso in un meccanismo più grande e potente di lui - si deresponsabilizza arrivando a comportarsi come un mostro. L’autrice non descrive Eichmann come un impotente automa. Analizza puntigliosamente quanto sia lucido e consenziente, accetti e si identifichi consapevolmente con la funzione che esercita perché lo fa sentire «potente» al punto che senza di essa perde la sua stessa identità. L’autrice non dice neppure che «un Eichmann alberga in noi, ciascuno di noi ha dentro di sé un Eichmann». No. La sua spiegazione è più impegnativa anche se a prima vista sconcertante: Eichmann - dice - è «stupido».
Lo spiega in una conversazione radiofonica con Joachim Fest dopo aver raccontato un episodio (ripreso da Ernst Jünger) di «normali» contadini tedeschi che trattano come esseri subumani prigionieri russi perché questi per fame rubano il cibo dei porci. Era questa «la stupidità scandalosa» che pure Eichmann condivideva in un universo di rapporti diverso. «Ed è questo che propriamente ho inteso quando parlai di banalità. In ciò non c’è nulla di abissale, cioè di demoniaco. Si tratta semplicemente della mancata volontà di immaginarsi davvero nei panni degli altri».
È facile immaginare quanto insoddisfacente suoni questa risposta, soprattutto per le vittime che si sono trovate davanti alla brutalità e al sadismo di questi «uomini comuni», «stupidi», «incarnazione della persona media».
La nostra insoddisfazione è mitigata se leggiamo e inquadriamo queste tesi, che suonano un po’ astratte, nel contesto delle conversazioni tra Hannah Arendt e Joachim Fest, che si svolgono nel periodo in cui quest’ultimo sta lavorando e pubblicando le sue biografie su Hitler e Albert Speer. È evidente che i due autori si scambiano simpateticamente riflessioni che nella diversità delle sensibilità hanno in comune l’interesse di conoscere quel mondo «borghese» o semplicemente quel «tedesco medio» che è stata la vera spina dorsale del regime nazionalsocialista. Apparentemente c’è poco in comune tra il burocrate Eichmann e il brillante architetto Speer, intimo di Hitler. Ma si intuisce lo stesso universo di seduzione e complicità che porta in grembo la nuova tipologia criminale, che la Arendt ha creduto di fissare nel concetto di «banalità del male».