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EBRAISMO E DEMOCRAZIA. PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo")

ISRAELE E IL NODO ANCORA NON SCIOLTO DI ADOLF EICHMANN. FARE CHIAREZZA: RESTITUIRE L’ONORE A KANT E RICONCILIARSI CON FREUD. Alcune note - di Federico La Sala

A EMIL L. FACKENHEIM. (...) il merito di aver ri-proposto la domanda decisiva: “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?”
sabato 2 agosto 2014
[...] La prima volta che Eichmann mostrò di rendersi vagamente conto che il suo caso era un po’ diverso da quello del soldato che esegue ordini criminosi per natura e per intenti, fu durante l’istruttoria, quando improvvisamente dichiarò con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principî dell’etica kantiana, e in particolare conformemente a una definizione kantiana del dovere.
L’affermazione era veramente enorme, e anche incomprensibile, poiché l’etica di Kant si fonda soprattutto (...)

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> ISRAELE E IL NODO ANCORA NON SCIOLTO DI ADOLF EICHMANN. FARE CHIAREZZA: RESTITUIRE L’ONORE A KANT E RICONCILIARSI CON FREUD. Alcune note - di Federico La Sala

martedì 13 maggio 2014

      • CONTINUAZIONE ----

In quegli stessi giorni il processo entrò nella fase decisiva, quella in cui si esaminava il ruolo svolto da Eichmann in Ungheria nel 1944, dove aveva organizzato il «trasferimento» ad Auschwitz di 437 mila ebrei. Eichmann aveva suggerito di cominciare con quelli della Carpazia, cosicché i loro correligionari di Budapest si «tranquillizzassero» al pensiero che ad essere colpiti fossero solo gli ortodossi. Poi aveva aperto una trattativa con il negoziatore Joel Brand per «vendergli» un milione di ebrei e nello stesso tempo aveva suggerito al comandante di Auschwitz, Rudolph Höss, di «trattarne» con il gas il maggior numero possibile. Infine si era tornati sul caso Kasztner - su cui la Lipstadt ha parole di grande comprensione - e quando si era presentato a testimoniare Pinchas Freudiger, membro del consiglio ebraico ungherese, dopo che un uomo dall’aula lo aveva accusato di essere responsabile della morte della propria famiglia, il processo era precipitato nel caos. Aggravato dal fatto che il giudice Halevi (quello che aveva condannato Kasztner) chiese a uno di quei testimoni se avessero mai pensato di uccidere Eichmann. Senza ottenerne risposta. Con il che Halevi aveva raggiunto lo scopo di dimostrare che in qualche modo i dirigenti dei Consigli ebraici - tranne rare eccezioni - avevano delle «colpe» per quel che era accaduto al loro popolo.

Il 20 giugno, dieci settimane dopo l’inizio del processo, Eichmann salì sul banco degli imputati. Fu assai vago e, ad un tempo, loquace. Il giudice fu costretto più volte a interromperlo: «Non le è stata chiesta una lezione generale... Le è stata posta una domanda specifica». Ma lui decise di insistere con la sua vuota verbosità. E ottenne un risultato. Il «New York Times» scrisse che non appariva «astioso o insolente», dal momento che «si crogiolava in frasi burocratiche» e che, dunque, non «valeva la pena di odiarlo». Hausner, secondo Lipstadt, commise molti errori nell’interrogarlo. Va ad Halevi merito di averlo indotto a pronunciare la frase che lo avrebbe condannato. Fu quando Eichmann, per dimostrare di non essere stato antisemita, raccontò di aver favorito la fuga di una coppia di ebrei viennesi e, per spiegare in che modo, si lasciò sfuggire: «In ogni legge esiste qualche scappatoia». Da quel momento non poté più cavarsela dicendo che era stato soltanto ligio alle leggi del suo tempo. Per lui non c’era più scampo.

A dicembre Eichmann viene condannato a morte. Alcune autorità morali del Paese, Martin Buber, Yeshayahu Leibowitz, Gershom Sholem, chiedono che ci si fermi lì. Ben Gurion che pure aveva dato battaglia per non includere la pena di morte nel codice penale di Israele, discute della questione con Buber, ma non si fa convincere. Decisiva è la presa di posizione del poeta Uri Zvi Grinberg: «Buber può rinunciare al castigo per la morte dei suoi genitori, se sono stati assassinati da Eichmann, ma né lui né altri Buber possono chiedere un’amnistia per l’assassinio dei miei genitori». Il 31 maggio 1962 Eichmann salirà sul patibolo.

Merito di questo libro è di aver ripercorso le tappe del processo senza fermarsi ai celebri reportage di Hanna Arendt, usciti sul «New Yorker» e poi raccolti nel libro La banalità del male (Feltrinelli). Ma un capitolo è dedicato alla stessa Arendt. Un capitolo non simpatizzante: «La Arendt tra l’altro mancò dall’aula per buona parte del processo», fa notare Lipstadt, «il suo fu un abuso di fiducia nei confronti dei lettori». Si mette in risalto come la Arendt scrivesse della «commedia di parlare ebraico», descrivesse i poliziotti israeliani come «simili agli arabi», «brutali», gente che «obbedirebbe a qualsiasi ordine», imputasse ai sionisti («senza offrire alcun dato per giustificare tale accusa») di «parlare un linguaggio non del tutto diverso da quello di Eichmann», avesse parole sprezzanti per i Consigli ebraici, il cui capitolo definì «fosco, patetico e sordido». Anche se, alla fine, la Arendt fu favorevole alla pena di morte. E diede il suo contributo a far sì che, se a Norimberga al centro dell’attenzione erano stati i carnefici, adesso giungesse «l’ora delle vittime». Gli ebrei. È questa, scrive Lipstadt, l’eredità più significativa del dibattimento che si concluse nel 1962 con le ceneri di Eichmann sparse nel mare.


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