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EBRAISMO E DEMOCRAZIA. PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo")

ISRAELE E IL NODO ANCORA NON SCIOLTO DI ADOLF EICHMANN. FARE CHIAREZZA: RESTITUIRE L’ONORE A KANT E RICONCILIARSI CON FREUD. Alcune note - di Federico La Sala

A EMIL L. FACKENHEIM. (...) il merito di aver ri-proposto la domanda decisiva: “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?”
sabato 2 agosto 2014
[...] La prima volta che Eichmann mostrò di rendersi vagamente conto che il suo caso era un po’ diverso da quello del soldato che esegue ordini criminosi per natura e per intenti, fu durante l’istruttoria, quando improvvisamente dichiarò con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principî dell’etica kantiana, e in particolare conformemente a una definizione kantiana del dovere.
L’affermazione era veramente enorme, e anche incomprensibile, poiché l’etica di Kant si fonda soprattutto (...)

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> ISRAELE E IL NODO ANCORA NON SCIOLTO DI ADOLF EICHMANN. ---- L’Auschwitz del pensiero. L’Auschwitz del pensiero. Due stralci delle riflessioni di Elie Wiesel e ohann Baptist Metz).

martedì 25 gennaio 2011

L’Auschwitz del pensiero

Anticipiamo in queste colonne due stralci delle riflessioni di Elie Wiesel e di Johann Baptist Metz raccolte nel volume ’Dove si arrende la notte. Un ebreo e un cristiano in dialogo dopo Auschwitz’, in uscita nei prossimi giorni per Rubbettino (pagine 148, euro 13,00). Si tratta di due colloqui speculari fatti nel 1993 dai teologi Ekkehard Schuster e Reinhold Boschert Kimmig al teologo cattolico e allo scrittore ebreo.
-  Nota nella sua introduzione la curatrice, Mariangela Caporale: «Nella riflessione di Wiesel e di Metz la parola del sapere si traduce nel primato della responsabilità per l’altro uomo, che, per entrambi, trasfigura il mondo secondo quelle promesse che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo ha consegnato alla speranza di ogni uomo».

-  A.

Elie Wiesel: «Il pericolo è normalizzare l’Olocausto»

«Nella storia solo due popoli sono stati destinati all’estinzione completa: noi e gli Etruschi»

DI ELIE WIESEL (Avvenire, 25.01.2011)

Non voglio scoraggiare nessuno, ma a volte credo che abbiamo perso la lotta per il ricordo. Questo non significa che dobbiamo smettere di lottare. Al contrario, dovremmo continuare a combattere. Il tempo però lavora contro di noi, come diceva Joachim Fest: il tempo è un alleato potente di coloro che parteggiano per la storicizzazione del nazismo. La gente non vuole più ricordare. Non può convivere con la verità e allora pensa di poter vivere contro di essa.

Ma anche se siamo solo in pochi e se diventiamo sempre di meno, dovremo continuare a ricordare. Fra cento anni gli studenti scopriranno che ci furono alcuni che rimasero fedeli alla memoria. Questo è un motivo sufficiente per continuare a ricordare. Spiegare la singolarità di Auschwitz non è semplice.

L’argomento che più frequentemente si ripete è ancora valido: il popolo ebreo era ed è l’unico popolo destinato all’estinzione completa. Questo significa che un ebreo nell’Estremo Oriente o un ebreo a New York o in Norvegia era condannato a morte.

Nessun altro popolo condivide questo destino tranne un popolo dell’antichità, gli Etruschi. Furono estinti e nessuno sa il perché. Un bel giorno i Romani decisero di ammazzare tutti gli Etruschi e questa decisione si trasformò in un fatto. Questa decisione fu tale che i Romani giunsero a distruggere completamente la cultura e la lingua etrusche.

Un ulteriore motivo della singolarità di Auschwitz è che nessun popolo fu mai tanto solo quanto quello ebreo. Durante la guerra anche altri uomini furono eliminati dai tedeschi, non solo gli ebrei. Per tutti esistevano comitati di soccorso che sostenevano questa gente. I comunisti furono sostenuti da Mosca, altri da Washington o Londra, gli ebrei non ebbero alcun aiuto. Non ebbero nessuno alloro fianco.

Perfino dopo la guerra gli ebrei non avevano una patria dove poter andare. Quando un francese fu liberato dal campo di concentramento, poté ritornare a casa sua; addirittura i tedeschi, che erano nei lager, poterono farlo. Gli ebrei non sapevano dove andare. Se fossero tornati dove vivevano prima, sarebbero stati perseguitati anche dopo la guerra, e perfino uccisi.

In Ungheria, per esempio, l’antisemitismo fu più forte dopo la guerra che non prima, poiché coloro che si erano impossessati delle proprietà degli ebrei scacciati non volevano restituire nulla a coloro che erano riusciti a tornare. Le vittime dovevano sopportare una pena doppia. Nonostante tutti questi argomenti ’razionali’, ci deve essere di più, qualcosa di sconosciuto che rende tanto singolare la singolarità. Ci sono storici che vorrebbero far rientrare l’Olocausto nel corso generale della storia, vorrebbero «normalizzare» questo evento.

Fare questo è completamente assurdo. Un evento di questa portata non si può rimuovere. Se accadesse questo, tale evento riemergerebbe con una potenza indomabile. Finché la Germania evita consapevolmente il suo passato, sarà sempre in pericolo.

Quando una persona singola rimuove un avvenimento di un certo peso del suo passato, si ritroverà un giorno o sul lettino dello psichiatra o in un manicomio. E lo stesso può succedere a una comunità.

B.

Johann Baptist Metz: «La Shoah è entrata tardi nella teologia»

«E se anche l’attuale crisi d’umanità fosse figlia della ferita inguaribile del lager?»

DI JOHANN BAPTIST METZ (Avvenire, 25.01.2010)

Come sempre accade, anch’io mi sono accorto tardi, troppo tardi, dell’assenza in teologia di una riflessione su Auschwitz. Quando molta gente, dopo la guerra, affermava di non aver saputo niente di quest’orrore, ritenevo che si trattasse di una menzogna o una rimozione. Quando mia madre mi disse che anche lei non aveva né sentito né saputo niente di questo crimine nazista, ho riflettuto ancora di più sulla cosa. In un certo senso questo oggi mi sembra chiaro: probabilmente allora non seppero davvero niente, soprattutto perché nessuno poteva immaginare una cosa così mostruosa, perché ogni orrore di cui avevano sentito parlare, l’avevano considerato un orrore proprio del tempo di guerra e solo lentamente, dopo la guerra, hanno preso coscienza di quello che era realmente successo. Perciò non mi meraviglio tanto quando, ancora oggi, qualche volta viene fuori qualcuno che nega questa atrocità. Piuttosto mi meraviglio che sono così pochi. In definitiva, la realtà di Auschwitz allarga lo spazio delle nostre vedute.

Naturalmente non si può fare di Auschwitz una specie di «religione negativa» o un «mito negativo» per i cristiani. Su Auschwitz nel nostro ambito cristiano si fa molta retorica della colpa e della responsabilità, retorica che, però, se capisco bene, non arriva fino alle radici della teologia cristiana.

Quello che successe durante la Shoah non esige solo una revisione delle condizioni storiche nelle quali si determinò la relazione tra cristiani ed ebrei, ma esige anche una revisione della teologia cristiana in quanto tale. Il mio amico Jürgen Moltmann a buon diritto ha messo in evidenza con nettezza questa questione.

L’antisemitismo non esiste solo come crudo razzismo: in questa forma non appare più in teologia.

Esiste però in forma molto più raffinata e sottile, ossia in veste psicologica o metafisica. Fu in questa veste che divenne fin dall’inizio il tentatore della teologia cristiana. Mi riferisco soprattutto a motivi e nozioni gnostiche. La domanda teologica dopo Auschwitz non è solamente: dove era Dio ad Auschwitz? Ma è anche: dove era ad Auschwitz l’uomo?

Come si potrebbe credere nell’uomo, o perfino nell’umanità, quando si dovette sperimentare ad Auschwitz di che cosa «l’uomo» è capace? Come continuare a vivere tra gli uomini? Che cosa sappiamo noi della minaccia all’umanità dell’uomo, noi che abbiamo vissuto voltando le spalle a questa catastrofe o che siamo nati dopo di essa?

Auschwitz ha ridotto profondamente il limite di pudore metafisico tra uomo e uomo. A questo sopravvivono solo coloro che hanno poca memoria o coloro che sono riusciti bene a dimenticare che hanno dimenticato qualcosa. Ma nemmeno questi restano illesi.

Non si può peccare quanto si vuole contro il nome dell’uomo. Non solo l’uomo singolo, anche l’idea dell’uomo e dell’umanità è profondamente vulnerabile. Solo pochi collegano ad Auschwitz l’attuale crisi d’umanità: l’insensibilità crescente di fronte a diritti e valori universali e grandi, il declino della solidarietà, la furba sollecitudine nel farsi piccoli pur di adattarsi a ogni situazione, il rifiuto crescente di offrire all’io dell’uomo una prospettiva morale, eccetera.

Non sono tutte scelte di sfiducia contro l’uomo? La catastrofe che è stata Auschwitz costituisce forse una ferita inguaribile?


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