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EBRAISMO E DEMOCRAZIA. PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo")

ISRAELE E IL NODO ANCORA NON SCIOLTO DI ADOLF EICHMANN. FARE CHIAREZZA: RESTITUIRE L’ONORE A KANT E RICONCILIARSI CON FREUD. Alcune note - di Federico La Sala

A EMIL L. FACKENHEIM. (...) il merito di aver ri-proposto la domanda decisiva: “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?”
sabato 2 agosto 2014
[...] La prima volta che Eichmann mostrò di rendersi vagamente conto che il suo caso era un po’ diverso da quello del soldato che esegue ordini criminosi per natura e per intenti, fu durante l’istruttoria, quando improvvisamente dichiarò con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principî dell’etica kantiana, e in particolare conformemente a una definizione kantiana del dovere.
L’affermazione era veramente enorme, e anche incomprensibile, poiché l’etica di Kant si fonda soprattutto (...)

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> ISRAELE E IL NODO ANCORA NON SCIOLTO DI ADOLF EICHMANN. --- Israele è in pericolo se si isola dal mondo (di Thomas L. Friedman)

mercoledì 21 settembre 2011

Israele è in pericolo se si isola dal mondo di Thomas L. Friedman (la Repubblica, 20.09.2011)

NON sono mai stato tanto preoccupato per il futuro di Israele. Lo sgretolamento dei pilastri della sicurezza di Israele - la pace con l’Egitto, la stabilità della Siria e l’amicizia con Turchia e Giordania - abbinato al governo più inetto dal punto di vista diplomatico e più incompetente dal punto di vista strategico della sua storia hanno messo lo Stato ebraico in una situazione pericolosissima.

Il governo americano è stufo marcio di questi leader israeliani, ma è ostaggio della sua inettitudine, perché in un anno di elezioni la potente lobby filoisraeliana può costringere la Casa Bianca a difendere lo Stato ebraico all’Onu anche quando sa che il governo di Tel Aviv sta portando avanti politiche che non sono né nel suo interesse né nell’interesse degli Stati Uniti. Israele non è responsabile del rovesciamento del presidente egiziano Hosni Mubarak o delle rivolte in Siria, o della decisione della Turchia di cercare di ritagliarsi un ruolo guida a livello regionale scagliandosi cinicamente contro Israele per aver spaccato il movimento nazionale palestinese fra Gaza e Cisgiordania. Quello di cui il primo ministro israeliano Bibi Netanyahu è responsabile è di non aver messo in campo, in risposta a tutte queste trasformazioni, una strategia in grado di difendere gli interessi di Israele sul lungo periodo.

Anzi no, una strategia Netanyahu ce l’ha: non fare nulla, rispetto ai palestinesi o rispetto alla Turchia, che lo costringa ad andare contro la sua base, a scendere a compromessi con le sue idee o a inimicarsi il suo principale partner di coalizione, l’estremista di destra Avigdor Lieberman, che ricopre l’incarico di ministro degli Esteri. Dopo di che, chiedere aiuto agli Stati Uniti per bloccare il programma nucleare iraniano e per farsi tirar fuori da pasticci di ogni genere, ma fare in modo che il presidente Barack Obama non possa chiedere nulla in cambio mobilitando i Repubblicani al Congresso per mettergli i bastoni fra le ruote e incoraggiando i principali esponenti della comunità ebraica a insinuare che Obama è ostile a Israele e sta perdendo i voti degli ebrei. Ecco qua: non si può certo dire che Netanyahu non abbia una strategia.

«Anni di sforzi diplomatici per far accettare Israele in Medio Oriente sono crollati in una settimana con l’espulsione degli ambasciatori dello Stato ebraico da Ankara e dal Cairo, e con la frettolosa evacuazione del personale dell’ambasciata da Amman», ha scritto Aluf Benn sul quotidiano israeliano Haaretz. «La regione sta rigettando lo Stato ebraico, che si rinchiude sempre di più dietro mura fortificate, sotto la guida di una leadership che rifiuta qualsiasi cambiamento, movimento o riforma [...] Netanyahu ha dato prova di una passività totale di fronte ai drammatici cambiamenti avvenuti nella regione e ha consentito ai suoi rivali di prendere l’iniziativa e fissare l’agenda».

Che cosa avrebbe potuto fare Israele? L’Autorità Palestinese, che negli ultimi cinque anni ha fatto grandi passi avanti nella costruzione delle istituzioni e delle forze di sicurezza di uno Stato in Cisgiordania, alla fine si è detta: «I nostri sforzi per costruire lo Stato non hanno indotto Israele a fermare gli insediamenti o a impegnarsi per giungere alla separazione dei Territori Occupati, perciò in pratica non stiamo facendo altro che sostenere l’occupazione israeliana. Andiamo alle Nazioni Unite, facciamoci riconoscere come Stato all’interno dei confini del 1967 e combattiamo Israele in questo modo». Una volta resosi conto della situazione, Israele avrebbe dovuto proporre un suo piano di pace o cercare di influenzare la diplomazia dell’Onu con una risoluzione che riaffermasse il diritto sia del popolo palestinese che di quello ebraico di avere uno Stato all’interno dei confini storici della Palestina, e facendo ripartire i negoziati.

Netanyahu non fatto nessuna delle due cose e ora gli Stati Uniti si stanno barcamenando per disinnescare la crisi, per non essere costretti a opporre un veto alla proposta di creare lo Stato palestinese, una mossa che potrebbe rivelarsi disastrosa in un mondo arabo che marcia sempre più verso l’autogoverno popolare.

Quanto alla Turchia, la squadra di Obama e gli avvocati di Netanyahu in questi ultimi due mesi hanno lavorato instancabilmente per risolvere la crisi nata dall’uccisione di civili turchi da parte di agenti delle forze speciali israeliane nel maggio del 2010, quando la flottiglia turca cercava in tutti i modi di sbarcare a Gaza per portare aiuti alla popolazione. La Turchia pretendeva scuse ufficiali. Poi però Bibi ha smentito i suoi stessi avvocati e ha respinto l’accordo, per orgoglio nazionale e per paura che Lieberman lo usasse contro di lui. Risultato: la Turchia ha espulso l’ambasciatore israeliano. Quanto all’Egitto, la stabilità lì ormai è un ricordo e qualunque nuovo Governo al Cairo dovrà fare i conti con pressioni populiste antisraeliane più forti che mai. Tutto questo in parte è inevitabile, ma perché non mettere in campo una strategia per minimizzare il problema proponendo un vero piano di pace?

Ho grande simpatia per il dilemma strategico di Israele e non mi faccio nessuna illusione sui suoi nemici. Ma Israele oggi non offre ai suoi amici - e Obama è fra loro - nessun elemento per difenderlo. Israele può scegliere di combattere contro tutti oppure può scegliere di non arrendersi e attutire il colpo ricevuto con un’apertura, sul fronte delle trattative di pace, che gli osservatori equilibrati possano considerare seria, in modo da limitare il suo isolamento. Purtroppo oggi Israele non può contare su un leader o su un esecutivo capace di simili sottigliezze diplomatiche. Non resta che sperare che gli israeliani se ne rendano conto prima che questo Governo precipiti ancora di più lo Stato ebraico nell’isolamento, trascinandosi dietro l’America.

Traduzione di Fabio Galimberti


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