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EBRAISMO E DEMOCRAZIA. PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo")

ISRAELE E IL NODO ANCORA NON SCIOLTO DI ADOLF EICHMANN. FARE CHIAREZZA: RESTITUIRE L’ONORE A KANT E RICONCILIARSI CON FREUD. Alcune note - di Federico La Sala

A EMIL L. FACKENHEIM. (...) il merito di aver ri-proposto la domanda decisiva: “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?”
sabato 2 agosto 2014
[...] La prima volta che Eichmann mostrò di rendersi vagamente conto che il suo caso era un po’ diverso da quello del soldato che esegue ordini criminosi per natura e per intenti, fu durante l’istruttoria, quando improvvisamente dichiarò con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principî dell’etica kantiana, e in particolare conformemente a una definizione kantiana del dovere.
L’affermazione era veramente enorme, e anche incomprensibile, poiché l’etica di Kant si fonda soprattutto (...)

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> ISRAELE E IL NODO ANCORA NON SCIOLTO DI ADOLF EICHMANN. ---- Israele e Palestina: due popoli, due Patrie. - Samuel Willerberg, l’eroe di Treblinka tifa per i palestinesi: “Senza un loro Stato sarà la catastrofe”.

mercoledì 2 novembre 2011

Israele e Palestina due popoli, due Patrie

di Abraham Yehoshua (la Repubblica, 2.11.2011)

Non c’è nell’identità ebraica concetto più problematico di «patria». «Vattene dalla tua terra, dalla tua patria, dalla casa di tuo padre, verso la terra che ti mostrerò». È la prima frase che viene detta ad Abramo, il primo ebreo. Nel corso di tutta la storia ebraica, la frase è stata adottata da molti ebrei tanto come comandamento teologico, quanto come possibilità esistenziale e ideologica. Lo stesso Abramo non abbandonò solo la propria patria e la casa paterna, ma perfino la nuova Terra che gli era stata destinata, e discese verso l’Egitto. Il popolo d’Israele non si è formato nella propria patria e anche la Torah, il nucleo essenziale della Bibbia ebraica, non gli è stata consegnata in patria ma nel deserto, zona intermedia fra la diaspora e la patria cui erano diretti.

Sono pochi i popoli che hanno consolidato la propria identità fisica e spirituale in un luogo diverso dalla patria. Gli esiliati condotti in Babilonia dopo la distruzione del primo Santuario di Gerusalemme, cantavano con emozione: «Sui fiumi di Babilonia sedevamo e piangevamo ricordando Sion». Ma quando, dopo soli 40 anni il re di Persia li chiamò per tornare alla loro terra e riedificare il Santuario, solo una parte di loro accettò di tornare nella Terra d’Israele. Per i 600 anni del periodo del Secondo Santuario di Gerusalemme, circa la metà del popolo d’Israele aveva già iniziato a vagare nel mondo antico, contribuendo al progressivo indebolimento del legame fisico con la Terra d’Israele. L’identità nazionale e religiosa ebraica non rinunciò alla patria, ma riuscì a trasformarla da concreta in virtuale.

I romani non esiliarono gli ebrei dalla Terra d’Israele dopo la distruzione del Secondo Santuario di Gerusalemme. Qualsiasi storico di quel periodo può offrirne le prove. E nei 1500 anni seguiti allo sfaldamento dell’impero romano, non c’era alcun presidio di aguzzini sui confini della Terra d’Israele, ad impedire il ritorno degli ebrei alla loro terra. Il falso mito dell’esilio degli ebrei da parte dei romani, profondamente radicato nelle ragioni che ci fanno pretendere il diritto storico sulla Terra, non ha il sostegno neppure della secolare preghiera ebraica, in cui si dice: «A causa dei nostri peccati siamo esiliati dalla nostra terra» e non «siamo stati esiliati». E così, i circa due milioni di ebrei che, secondo le stime più accettate vivevano in tutta la terra d’Israele al momento della distruzione del Secondo Santuario di Gerusalemme, non vennero ammassati su navi romane e forzosamente esiliati (dove poi?), bensì lasciarono pian piano la loro patria (in particolare dopo la rivolta di Bar Kochbà nel 135) e andarono ad unirsi al gran numero di ebrei già sparsi nei Paesi del mondo antico.

Una dispersione che è viva e dinamica anche ai nostri giorni. Dall’Afghanistan all’Iran, da Bukhara all’Uzbekistan, dall’Ucraina alla Romania, alla Turchia, all’Irak, allo Yemen, al Nordafrica e a tutto il bacino Mediterraneo, alla Russia in tutte le sue varianti etnico-regionali, all’Europa occidentale e orientale e in tutto il Nuovo Mondo, e anche le lontanissime Australia e Nuova Zelanda. Dagli inizi del XIX secolo (quando in Terra d’Israele risiedevano secondo fonti storiche solo 5000 ebrei su una popolazione ebraica globale stimata in 2,5 milioni) fino ad oggi, l’80% della popolazione ebraica ha cambiato la propria nazione di residenza. Il massimo dell’orrore può essere rappresentato dal fatto che perfino una gran parte delle vittime della Shoah non è stata eliminata nei luoghi dove risiedeva ma è stata trasportata all’annientamento con la forza, in una non-patria, in campi di sterminio alienati, privi di qualsiasi carattere nazionale.

La «patria virtuale» nella quale gli ebrei si sono specializzati , non è mai piaciuta agli altri popoli. Nelle composizioni filosofiche gordoniane sul rinnovato legame con il lavoro agricolo, nelle ideologie morali brenneriane sulla totale responsabilità verso la realtà, nelle utopie herzliane e nelle ammonizioni di Jabotinsky del genere «se non eliminerete la diaspora, la diaspora eliminerà voi» - i vari padri del sionismo tentarono di convincere gli ebrei agli inizi del XX secolo a restaurare il concetto di patria che tanto si era indebolito con il passare delle generazioni. Urgeva però trovare risposta a un’altra domanda: c’era un territorio libero per realizzare questo programma?

L’unico luogo nel quale sarebbe stato possibile convincere gli ebrei a rinunciare alla propria patria virtuale per identificarsi in una patria reale, fisica, era la Terra d’Israele. Ma la Terra d’Israele era già la patria degli abitanti che vi vivevano. Potevano gli ebrei mantenere con un comando a distanza un diritto storico sulla Terra d’Israele dopo centinaia di anni in cui ne erano stati assenti? Per questo l’unico diritto morale in virtù del quale il popolo ebraico ha potuto rendere la Terra d’Israele patria ebraica reale, gli è derivato dalle tragiche necessità di un popolo che altrimenti sarebbe stato condannato a morte. E così fu. La vecchia-nuova patria salvò di fatto dai campi di sterminio centinaia di migliaia di ebrei europei.

Quindi, dato che la patria non è solo territorio ma anche un elemento primario nella identità individuale e nazionale, la divisione della Terra d’Israele in due Stati non è solo l’unica soluzione politica, ma è anche un imperativo morale. E chi si impossessa di parti di territori palestinesi come fa quotidianamente lo Stato d’Israele al di là della Linea verde, deruba e ferisce la parte più delicata dell’identità dei suoi abitanti.

L’identità patriottica dei palestinesi è quasi opposta alla nostra, e anch’essa ha bisogno di revisione. Di fronte a un popolo che ha cambiato continuamente Paesi di residenza, il concetto di patria dei palestinesi si restringe talvolta al villaggio e alla casa. I palestinesi nei campi profughi a Gaza o in Cisgiordania sono rimasti a vivere a pochi chilometri di distanza dalle case e dai villaggi dai quali sono fuggiti o sono stati allontanati dalla guerra del 1948, e di fatto si trovano ancora nella patria palestinese. Nella loro percezione non sono stati solo esiliati dal villaggio o dalla casa, ma dalla patria stessa, e per questo da 64 anni abitano nelle condizioni umilianti e paralizzanti dei campi profughi. E il diritto al ritorno alla propria patria - una richiesta legittima - si è trasformato nel diritto a tornare nella propria casa dentro Israele - che è una richiesta impossibile e non indispensabile ai fini di una soluzione pacifica.

In giorni di sconforto politico, non vale forse la pena di cercare una nuova strada per la pace, rivedendo nelle due parti concetti antiquati? (Traduzione di Cesare Pavoncello)


L’eroe di Treblinka che tifa per i palestinesi

“Senza un loro Stato sarà la catastrofe”

di Roberta Zunini (il Fatto, 2.11.2011)

All’ultimo piano di una bella palazzina bianca, tardo Deco, su viale Ben Gurion, nel cuore di Tel Aviv, abita Samuel Willerberg, l’ultimo ebreo sopravvissuto alle persecuzioni naziste nel lager di Treblinka. È un eroe nazionale, avendo preso parte alla rivolta del ghetto di Varsavia e a quella del campo di sterminio polacco. “Purtroppo sono anche molto vecchio ormai”, dice sorridendo sul terrazzo dove la moglie Ada annaffia le piante. Nonostante l’età ha 88 anni Willenberg ha una memoria sorprendente: la sua mente è lucidissima, la sua parola ironicamente tagliente e il suo sguardo è preoccupato.

“LA SITUAZIONE non è per nulla rosea, né internamente né per quanto riguarda il conflitto con i palestinesi, per non parlare dell’isolamento internazionale in cui siamo finiti dopo l’esplosione della primavera araba”. È questo voto a favore dell’ingresso della Palestina nell’Unesco (che ieri Israele ha punito bloccando il trasferimento dei fondi all’Autorità nazionale palestinese, ndr) che la preoccupa? “Non è che la logica conseguenza del cambiamento in atto negli equilibri internazionali e dell’inazione intransigente di Israele. Però le vorrei far vedere si alza di scatto e con passo deciso si avvia verso il corridoio quindi entra in una grande stanza piena delle sue sculture - le mappe su cui ho lavorato quando arrivai in Israele dopo essere scampato al genocidio”. Willenberg nacque in Polonia nel 1923, figlio di un insegnante ebreo polacco e di una madre molto devota. “Ma non sono credente: dopo l’Olocausto non ci credo più e non riesco a tornare indietro, a quando ero un giovane fedele praticante che frequentava la sinagoga. Comunque ora parliamo della spartizione di Israele e dei Territori”.

Stendendo la mappa inizia a tracciare con un dito una ipotetica dorsale, al confine tra l’attuale Israele e la Cisgiordania dove secondo lui ci sarebbe stato modo di modificare i confini. “Ho lavorato per tanti anni presso la municipalità e lo Stato israeliano come addetto allo studio delle mappature e non sono d’accordo su come è stato suddiviso il territorio. Avremmo dovuto creare una continuità diversa tra le zone a prevalenza araba, ora ci sarebbero molti meno problemi. Perché, anche se nessuno lo grida, i coloni israeliani e i palestinesi di nazionalità israeliana che vivono a Jaffa, Nazareth, Haifa, (città israeliane a maggioranza araba palestinese, ndr) sono sempre più ai ferri corti: pensi ai coloni estremisti religiosi ebrei che hanno distrutto tombe islamiche e cattoliche nel cimitero di Jaffa”.

Mentre i razzi degli estremisti islamici di Gaza cominciavano a piovere attorno alla capitale amministrativa israeliana, difesa da un potente scudo satellitare. “La situazione si complica, oltre all’imminente voto del Consiglio di Sicurezza Onu che scatenerà il putiferio visto il veto già annunciato di Obama, bisogna vedere se la fratellanza musulmana vincerà le elezioni in Egitto”.

Insomma questo mese sarà cruciale per il Medio Oriente? “Sì, lo sarà, sul fronte diplomatico e arabo, non certo da parte del governo Netanyahu a cui non interessa uscire da questo stallo. È ovvio che i palestinesi cerchino di ottenere ciò che vogliono. Se nessuno risponde fanno bene a chiederlo per via diplomatica.. Siamo noi che non agiamo per biechi scopi elettorali. E non è solo colpa di Netanyahu - che ieri ha deciso di accelerare la costruzione di nuove colonie a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, ndr ma anche della coalizione al governo, fondata sull’ortodossia religiosa più esasperata. Ma non c’è nulla da fare, per sbloccare la situazione, bisogna dare ai palestinesi un Stato indipendente e finirla con l’espansione delle colonie”.


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