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EBRAISMO E DEMOCRAZIA. PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo")

ISRAELE E IL NODO ANCORA NON SCIOLTO DI ADOLF EICHMANN. FARE CHIAREZZA: RESTITUIRE L’ONORE A KANT E RICONCILIARSI CON FREUD. Alcune note - di Federico La Sala

A EMIL L. FACKENHEIM. (...) il merito di aver ri-proposto la domanda decisiva: “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?”
sabato 2 agosto 2014
[...] La prima volta che Eichmann mostrò di rendersi vagamente conto che il suo caso era un po’ diverso da quello del soldato che esegue ordini criminosi per natura e per intenti, fu durante l’istruttoria, quando improvvisamente dichiarò con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principî dell’etica kantiana, e in particolare conformemente a una definizione kantiana del dovere.
L’affermazione era veramente enorme, e anche incomprensibile, poiché l’etica di Kant si fonda soprattutto (...)

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> ISRAELE E IL NODO ANCORA NON SCIOLTO DI ADOLF EICHMANN. ---- UN MALE SENZA BANALITA’. Olocausto - La sofferta e incerta conoscenza di un genocidio da collocare nella Storia. .

venerdì 27 gennaio 2012

Un male senza banalità

di Gianpasquale Santomassimo (il manifesto, 27 gennaio 2012)

Per quanto strano possa sembrarci oggi, è relativamente recente la centralità della memoria dello sterminio del popolo ebraico nella coscienza occidentale. Non che non si sapesse cosa era accaduto: ne parlavano i nostri libri di scuola, ma era presentata solo come una grande tragedia fra gli innumerevoli lutti della seconda guerra mondiale. È stato necessario molto tempo perché si elaborassero in tutte le loro implicazioni l’enormità, la specificità e l’unicità del fenomeno: e anche da parte delle vittime è spesso dovuto passare il tempo necessario perché si potesse trovare la forza di raccontare ciò che appariva indicibile.

Commemorazione da un lato, istituzionalizzata nella giornata della memoria del 27 gennaio, e ricerca e riflessione dall’altro sembrano procedere spesso su binari paralleli che raramente si incontrano. Una felice eccezione è stata rappresentata quest’anno in Italia dal convegno fiorentino su Shoah, modernità e male politico che ha teso a fare il punto su acquisizioni e dibattiti più recenti della storiografia internazionale come della riflessione filosofica e sociologica sulla Shoah.

Le prime caratteristiche che emergono dal complesso dei lavori sono senza dubbio quelle dell’ampliamento e dell’approfondimento della tematica. Ampliamento geografico, in primo luogo: l’apertura degli archivi sovietici consente di includere in maniera documentata territori come quelli della Bielorussia e in parte dell’Ucraina, a pieno titolo inseriti nella fabbrica dello sterminio, come anche del collaborazionismo e delle complicità che ovunque accompagnarono il fenomeno. Viene confermata la partecipazione diretta allo sterminio della Wehrmacht e della polizia, a lungo negata o sottaciuta nell’autorappresentazione tedesca (Browning).

Cadono molti luoghi comuni, fortunati e tenaci, come quelli formulati da Hanna Arendt su Eichmann ne La banalità del male: il vertice dello sterminio non era costituito da grigi burocrati, che si limitavano ad eseguire ordini, ma era formato da personale molto qualificato e competente.

Non era la feccia della società, come ci piacerebbe credere, ma una élite di rango anche accademico: antropologi, giuristi, studiosi di scienze sociali, architetti, persone in ogni caso convinte di perseguire una missione che volevano portare fino in fondo (Collotti). Più che opportunismo, era adesione ideologica, che trovava il suo fondamento in un antisemitismo di massa che nel corso della guerra si poneva l’obiettivo di effettuare una trasfusione di sangue nel corpo dell’Europa, cambiando radicalmente la natura del continente.

Antigiudaismo di massa

Contestualizzare la Shoah è tema arduo ma inevitabile, per non farne celebrazione dai toni quasi religiosi e catartici, e include anche inevitabilmente un elemento di comparazione, largamente usata e forse anche abusata in maniera cervellotica negli ultimi vent’anni. Anche chi, fondatamente, teorizza l’unicità e al tempo stesso l’incomparabilità del fenomeno deve aver preliminarmente compiuto una comparazione che giustifichi il suo convincimento.

Le domande di fondo di una contestualizzazione sono quelle riassunte da Browning in questi termini: «Perché gli ebrei? Perché i tedeschi? Perché nel XX secolo?». Alla prima domanda forse è più facile rispondere oggi, perché sono stati ampiamente ripercorsi i sentieri di un antisemitismo e di un antigiudaismo profondamente radicati nell’Europa cristiana (Battini), di intensità diversa nelle singole fasi di questo percorso, e in grado di riaccendersi nei momenti di crisi, in cui la ricerca di un capro espiatorio dei mali della società ritrovava il suo archetipo ideale.

Meno banale e ricca di implicazioni nuove è la domanda: perché i tedeschi? Oggi può sembrarci una domanda scontata, avendo alle spalle una lunga elaborazione, che è stata anche in parte riflessione autocritica della parte migliore della società tedesca, sulla formazione storica del «carattere tedesco» (Burgio, anticipato in sintesi su questo giornale il 19 gennaio). Ma probabilmente un osservatore della fine dell’Ottocento, chiamato a pronosticare il paese che avrebbe avuto più problemi con la questione ebraica nel secolo successivo, avrebbe indicato nella Francia dell’affaire Dreyfus il luogo più critico, mentre in Germania l’integrazione ebraica appariva in via di definitivo compimento. L’intensità e la rapidità dell’affermazione di un antisemitismo di massa tra le due guerre sono tra i fenomeni più sconvolgenti dell’Europa fra le due guerre, premessa necessaria in Germania della costruzione sociale dello sterminio.

Quello che oggi appare indubbio è il coinvolgimento amplissimo e rapido della «società civile» tedesca e delle sue istituzioni portanti. Già nel 1935 sulle toghe nere dei giudici viene applicata un’aquila che regge fra gli artigli una svastica e una spada, e il ritratto di Hitler incombe nelle aule dei tribunali (Schminck-Gustavus). Una adesione così vasta da rendere problematica e sterile la «denazificazione» del secondo dopoguerra. Per la penuria dei giudici, fu istituito il principio per cui ogni giudice non iscritto al partito nazista doveva farsi affiancare da un magistrato compromesso. I risultati furono generalmente assolutori, e anche le condanne vennero in breve annullate da provvedimenti di grazia.

«Non possiamo buttare via l’acqua sporca, finché non abbiamo acqua pulita», è la frase molto significativa attribuita al cancelliere Adenauer: un problema che era indubbiamente serio (e non ignoto, peraltro, anche a noi italiani, ove si pensi che il primo presidente effettivo della Corte Costituzionale - dopo la presidenza onorifica e inaugurale di Enrico De Nicola - fu Gaetano Azzariti, che era stato anche l’ultimo presidente del Tribunale della Razza). Né le cose sembrano essere andate molto meglio nella Rdt, al di là della propaganda ufficiale, dove una rapida conversione al nuovo partito unico garantiva spesso assoluzione e continuità di carriera.

Il secolo della razza

Ma il problema tedesco ha molte altre dimensioni, e contribuisce a porre nuovi interrogativi proprio l’ultima domanda, quella relativa alla periodizzazione. Non mancano certamente i residui di una retorica sul «secolo assassino» e l’agitarsi del fantasma indistinto del «totalitarismo» onnicomprensivo, la più fortunata tra le molte approssimazioni banalizzanti di Hanna Arendt. È molto stimolante l’emergere di una periodizzazione che pone a cavallo tra Otto e Novecento il processo unificato di un racial century (1850-1945). Quel «secolo della razza» che si dipanò in strettissimo collegamento con imperialismo e colonialismo e che produsse rituali e abituali atrocità, e nel quale per la prima volta l’elemento razziale divenne non accessorio ma fondante di espansione e dominio. Da questo punto di vista, assumono un valore prima ignorato gli stermini coloniali a sfondo razziale compiuti nell’Africa Sud-occidentale tedesca, pratica nella quale, come sappiamo, i tedeschi non furono isolati nel novero delle potenze coloniali.

La logica coloniale, come quella imperialistica, è uno dei termini di inquadramento possibili, ma quello che emerge come il vero tratto comune e indispensabile di tutti gli stermini rimasti nella memoria di quello che potremmo definire «secolo lungo», è soprattutto l’elemento della guerra, incubatrice indispensabile per la costruzione sociale e culturale dei genocidi. Vale per turchi e armeni, come per giapponesi e cinesi, e per tutte le popolazioni decimate nelle guerre coloniali.

E da questo punto di vista, va ricordato che tutta l’espansione ad Est fu concepita dalla Germania come guerra di sterminio (Bartov), che i venti milioni di russi uccisi furono dal punto di vista quantitativo l’apice di questa pratica, e che l’estirpazione del popolo ebraico era parte di un progetto di ristrutturazione razziale dell’Europa, e soprattutto di quella orientale, sbocco prestabilito dello spazio vitale che la Germania riservava a sé.

Theodor Adorno, a caldo, paragonò il trauma di Auschwitz per l’umanità del XX secolo a quello che era stato il terremoto di Lisbona del 1755 per Voltaire e gli illuministi. Ma in realtà la portata dell’interrogazione prodotta dallo sterminio era molto più ampia di quella che aveva potuto coinvolgere credenti o deisti come i philosophes, perché andava oltre i termini della fede e investiva l’umanità nel suo complesso (Neuman). Da allora la coscienza occidentale non ha smesso di chiedersi come è stato possibile, e, anche, se può essere ancora possibile (Seppilli).

Colpisce che in molte relazioni, e soprattutto in quella di Zygmunt Bauman, venga richiamato l’episodio recente di Abu Ghraib nella guerra irachena degli Stati Uniti. Non certo per effettuare una comparazione impossibile o istituire un parallelismo privo di senso. Ma per osservare, come in un esperimento di laboratorio, che in clima di guerra dei tipici ordinary men, ragazze e ragazzi della porta accanto, possano trasformarsi - se dotati di potere illimitato e convinti di portare a termine una missione - in qualcosa che loro stessi avrebbero ritenuto impensabile nella loro vita normale.


La sofferta e incerta conoscenza di un genocidio da collocare nella Storia

di Marco Pacioni (il manifesto, 27 gennaio 2012)

La filosofia occidentale si è sempre nutrita della propria voce, come ha criticamente ribadito, non da ultimo, Jacques Derrida in Timpano. Gli eventi esterni hanno potuto fare poco per distoglierla dall’ascoltare soprattutto se stessa. La Shoah, anche in questo specifico argomento, segna una rottura. Non solo rende difficile rintonare il pensiero alla malia della propria voce, ma mette addirittura in discussione la stessa possibilità della filosofia e, in modo specifico, dell’etica. Sul rapporto del pensiero al cospetto della Shoah si è sviluppata un’ampia ricerca che ha all’attivo una consistente bibliografia.

In questo ambito, di particolare importanza sono i testi nei quali chi svolge la riflessione è anche la persona che ha fatto esperienza diretta del campo di concentramento come accade con il sopravvissuto, filosofo e teologo Emil L. Fackenheim, del quale ci si è iniziato ad interessare anche in Italia come attestano le recenti pubblicazioni di Tiqqun. Riparare il mondo (Medusa) e Un epitaffio per l’ebraismo tedesco(Giuntina). A questi libri si deve ora aggiungere il testo Olocausto (Morcelliana, a cura di Massimo Giuliani, pp. 55, euro 8) nel quale Fackenheim (1916 - 2003) affronta in modo più sintetico temi svolti in maniera più distesa ed elaborata in Tiqqun.

La questione di come pensare la Shoah coinvolge argomenti quali la memoria, la testimonianza, la rappresentazione, la divinità. Tutti questi aspetti vengono affrontati lungo un crinale che spesso cede alle idee d’indicibilità, unicità, impensabilità di cui Auschwitz è diventato il luogo per eccellenza e che in ragione di ciò è spesso utilizzato del tutto fuori contesto ogni qualvolta che si deve evocare un inarrivabile culmine di mostruosità. Il paradigma dell’indicibilità non è soltanto evocato, ma anche altrettanto spesso utilizzato contro quelle ricognizioni storiografiche, filosofiche nonché contro opere letterarie e film che invece cercano di trovare un modo per parlare della Shoah.

Sotto questo profilo, il libro di Fackenheim può essere considerato come una riflessione che esprime una posizione moderata da inserire nel versante che vede con favore la rappresentabilità e dunque la pensabilità della Shoah. Fackenheim ritiene che la Shoah sia un «evento unico» nella e non della storia, tale da configurare una sorta di sommità metafisica con tutto ciò che ne consegue in termini religiosi e sacrali. A tal proposito il filosofo scrive che «non si può negare, certo, che Auschwitz sia stato "un altro pianeta", ossia che si sia trattato di un mondo a parte con leggi, codici di comportamento e persino un linguaggio in proprio. Con tutto ciò, e pur essendo senza precedenti, piuttosto che unico, esso va fermamente situato nella storia».

Proprio perché è un evento nella storia, per l’autore la Shoah può essere definita come «un genocidio». (È da notare che questa espressione compare significativamente anche come sottotitolo del recente e importante libro dello studioso americano Donald Bloxham, Lo sterminio degli Ebrei, Einaudi). Per Fackenheim, la Shoah manterrà sempre degli elementi difficili da comprendere e immaginare, ma ciò non inficia completamente la possibilità per noi e le generazioni future di rapportarsi a essa. Anzi, su questo aspetto sta uno degli spunti più importanti del libro di Fackenheim e cioè che la Shoah vada affrontata anche prendendo in considerazione proprio il «noncomprendere», ossia un capire non totalizzante, un conoscere che non vuole chiudersi in un sapere assoluto. Qui Fackenheim sembra raccogliere la critica alla forza soffocante del comprendere di Bataille, Lévinas, Jankélévitch e trattare paradossalmente come una risorsa positiva anziché come un ostacolo lo stesso non-comprendere: forma aperta che proprio grazie alla sua impersuasione agisce come pungolo della memoria che stimola a colmare e non solo a subire le lacune della conoscenza.

Se per Fackenheim conoscere non è sinonimo di sapere, è però certamente sinonimo di costruire, riparare e cioè agire per il futuro. In questa idea sta l’altro elemento cospicuo della conoscenza applicata alla Shoah di Fackenheim che sottolinea l’importanza di proiettare nel futuro gli elementi che si hanno a disposizione dal passato e non risospingerli soltanto indietro con il rischio di allontanarli troppo dal presente.

Meno audaci invece e pericolosamente ancora tentate dall’orizzonte della sacralità della Shoah, sono le sue argomentazioni teologiche che sfociano poi nella politica: «Dopo tali eventi, porre fine all’esilio significa esprimere una volontà e fedeltà alla vita. Il prodotto di tale fedeltà - lo Stato ebraico - è ancora fragile e in un mondo che fatica comunque a capire. Se sull’onda dell’Olocausto non fosse già sorto uno Stato ebraico, sarebbe una necessità religiosa crearlo ora».


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