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LA PSICOANALISI, LA BANALITA’ DEL MALE, E LA HITLERIZZAZIONE DELL’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT.

FREUD, LE SUE ILLUSIONI SULLA CHIESA CATTOLICA E SU MUSSOLINI, E LA SUA EdiPICA LOTTA CON MOSE’ E KANT. Appunti per una rilettura di “L’uomo Mosè e la religione monoteistica”. Un breve saggio - di Federico La Sala, con prefazione di Riccardo Pozzo.

Incompresa la lezione del “Tu devi” di Kant, Freud con gran difficoltà riesce a liberarsi dal “Super-Io” del Faraone
sabato 31 luglio 2010 di Federico La Sala
Per leggere l’intero saggio, cliccare in fondo sull’icona del doc., allegato - in fondo ...
INDICE:
PREFAZIONE di RICCARDO POZZO
[...] Il lavoro che si presenta ha l’obiettivo di mostrare il valore euristico della filosofia di Kant per chiarire la problematica dell’illusione in quanto processo naturale e necessario nel quadro della filosofia della cultura di Freud. La Sala procede nel solco aperto da Jonathan Lear nel suo mirabile volume su Freud, che non a caso contiene un’analisi a (...)

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> FREUD, LE SUE ILLUSIONI SULLA CHIESA CATTOLICA ---- JEAN-LUC NANCY RISPONDE SULLE "BEATITUDINI. Un’intervista a cura di Élodie Maurot ("La Croix).

sabato 24 luglio 2010


-  Le Beatitudini: Beati i puri di cuore
-  “Avere il cuore puro, è vedere l’altro in quanto altro”

-  intervista a Jean-Luc Nancy,

-  a cura di Élodie Maurot

-  “La Croix”, 23 luglio 2010
-  traduzione: www.finesettimana.org

Come risuona per lei, di primo acchito, il testo delle Beatitudini?

Non è un testo che ho l’abitudine di frequentare. Diciamo che lo intendo innanzitutto come una promessa di felicità, ma che contiene sempre il rischio di essere una falsa promessa. È certamente il testo biblico per il quale mi pongo subito in una prospettiva critica e diffidente, perché le Beatitudini hanno tutte quelle caratteristiche della parola che dà sollievo, che smussa gli angoli, che cancella gli ostacoli. Concentrano, a mio avviso, quanto c’è di più difficile e di cui sospettare nel messaggio cristiano. Vi si reperisce troppo facilmente una “buona volontà”, piena di buone intenzioni, che resta lontano da ciò che con Kant si può definire una “volontà buona”. Le Beatitudini ci mettono sempre davanti ad un dilemma: o si tratta di un pacchetto di buone intenzioni dolciastre, addirittura sdolcinate, che cercano di sedurre i lettori e gli ascoltatori con una sorta di assopimento della loro vigilanza, come un oppio dei popoli particolarmente potente, oppure si tratta di qualcosa di radicalmente diverso...

Lei ha lavorato molto sul linguaggio. È sensibile alla forma di questo testo?

La grande caratteristica del Vangelo è di essere un libro religioso che non contiene molta dottrina. Un libro in cui la “dottrina” è interamente offerta con parole pronunciate in certe situazioni. Le Beatitudini portano questo paradosso al culmine. Siamo all’acme del racconto evangelico, nel momento in cui ci si potrebbe attendere uno sviluppo dottrinale, invece, appunto, la dottrina non arriva. E Cristo pronuncia le Beatitudini. Ciò mi fa pensare a Nietzsche che dice: “Se Cristo fosse vissuto più a lungo, avrebbe abolito la sua dottrina.” Nietzsche manifesta in questo la sua profonda comprensione del cristianesimo. Ha capito molto bene che il cuore del cristianesimo non consisteva in una dottrina, ma in una vita. Questo nocciolo duro, etico se si vuole (se questa parola non è troppo consumata), non si lascia assorbire dai montaggi teorici, teologici o ecclesiastici. È un nocciolo molto resistente, mentre la forma che assume è apparentemente fragile, narrativa, invece di essere dottrinale, e il suo contenuto si situa interamente nella dolcezza.

Questo permette di intendere in modo diverso questo testo, di cui lei sottolineava ora l’ambivalenza?

Le Beatitudini, tutte insieme, sono l’amore. E l’amore cristiano, è un paradosso completo. È l’impossibile per eccellenza e, al contempo, come dice Freud, è la sola risposta che sia all’altezza della violenza umana. Freud scrive questo subito dopo la Prima Guerra mondiale, quando la violenza si era scatenata sotto i suoi occhi. Lì sta tutto il paradosso: è una risposta impraticabile e, al contempo, solo quello resiste! Le Beatitudini pongono il problema dell’amore cristiano e l’amore pone subito il problema del suo carattere “felice”.

Come intende lei questo “beati”, “felici”, che scandisce le Beatitudini?

Il “felici” o “beati” del Vangelo risuona in una società in stato di profondo disorientamento. Il mondo nel quale nasce il cristianesimo è un mondo che crolla, che perde le sue sicurezze, che perde di senso, che viene messo di fronte ad una perdita generale dei suoi punti di riferimento. Uno storico dell’antichità, che Freud cita nel suo Mosè, scrive a proposito di quell’epoca: “Sembra che una gran malinconia si sia impossessata in tutti i popoli del Mediterraneo.” Questa frase, così sorprendente per uno storico, dice una grande verità. Il mondo politeista che scompare è infatti un mondo nel quale gli dei, anche quelli cattivi, anche quelli minacciosi, erano presenti dappertutto. Era un mondo nel quale ci si poteva ritrovare, orientare. Invece, il tempo della Roma imperiale è un tempo di grande angoscia e di grande abbandono. Lo stoicismo e l’epicureismo che si sviluppano a quell’epoca sono del resto dei tentativi di rispondere a quel disorientamento. Stoici ed epicurei sono dei tormentati che cercano di sviluppare tutta una serie di esercizi per preservarsi da quel disorientamento, pur rassegnandovisi.

Qual è la felicità proposta qui?

Il “beati” del Vangelo non vuole tanto dare felicità o soddisfazione, quanto indicare una via per uscire dall’angoscia. Le Beatitudini non designano felicità, ma un atteggiamento, una disposizione generale della vita umana che sfugge al contempo all’angoscia e alla rassegnazione.

Non è una risposta che assume la forma di consigli morali...

Infatti, è un pronunciamento, un po’ ritmico. È un’arringa, ma non solo. È piuttosto un’esclamazione e quindi una celebrazione. “Beato” significa qui “glorioso”, “in gloria”. È quasi come dire “santo”... Le Beatitudini “mettono in gloria” coloro ai quali esse sono rivolte. Sono una celebrazione di coloro che sono nelle disposizioni descritte. Non sono dei consigli o delle indicazioni di comportamento dedotte da principi, ma è l’affermazione che “è così”. È molto interessante che non si sia nell’ambito dell’esortazione morale. Cristo celebra qualche cosa e sta a colui che ascolta trarne profitto. Le Beatitudini non sono legate ad alcun processo, al alcun comportamento veramente prescritto. Dicono piuttosto: c’è “qualche cosa” in voi, “qualche cosa” che voi siete e che deve essere celebrato: questo “qualche cosa”, è il Regno, è l’uscita dalla concatenazione dei mezzi e dei fini, dei possessi e delle dominazioni. Come nella parabola dei gigli dei campi.

“Beati i puri di cuore” dice una delle Beatitudini: che cosa significa per lei?

Il termine greco, tradotto qui con “puro”, rinvia all’aggettivo “limpido”. Come si dice dell’acqua, che è pura o limpida. Mette l’accento sulla trasparenza. Il testo greco dice del resto non “i cuori puri”, ma “i puri di cuore”. Essere puri “di cuore” rinvia ad un altro modo di essere puri “di corpo”. Questa differenza colpisce immediatamente, sapendo l’importanza delle purificazioni e dei riti associati alla purezza nelle religioni antiche e nell’ebraismo. Bisogna collegare questa Beatitudine a tutta la tradizione profetica che critica i riti e considera che la purificazione dei corpi è insufficiente. Celebrare il “cuore puro” crea una differenza rispetto all’osservanza rituale.

Che legame vede tra essere un “cuore puro” e “vedere Dio”?

Nelle religioni antiche, la purificazione ha la funzione di liberare l’uomo dagli elementi profani per permettergli di accedere al sacro. È il primo gesto per fare un passo nello spazio sacro. Ora, qui, la possibilità di vedere Dio non è legata al permesso di accedere all’ordine del sacro, del separato, del proibito. Questa Beatitudine dice che Dio non è dell’ordine del sacro, non si situa “dall’altra parte” di un confine che bisognerebbe superare grazie al rito. Colui che ha il cuore puro è colui che può, grazie alla limpidezza del suo cuore, vedere Dio.

Come se Dio fosse già presente, ma non ancora riconosciuto?

Quando il cuore è purificato, vede Dio. Si potrebbe dire che la purificazione del cuore fa vedere, di per se stessa. Non fa vedere qualche cosa che era nascosto, ma qualcosa che prima non si vedeva. È molto diverso. Non siamo qui in uno sviluppo cultuale. La purificazione del cuore produce senso di per se stessa. Non è il mezzo per accedere ad altro, ma un modo per vedere in modo diverso. È un’apertura all’interno del “mondo”. Il cuore puro è forse “Dio” stesso.

In che cosa consiste secondo lei la purificazione?

Le Beatitudini fanno risuonare negativamente la grandezza, la potenza, la ricchezza, la violenza del mondo... La purificazione del cuore è la purificazione di tutte le pesantezze, di tutti i domini e, al limite, di tutti i significati del mondo... Il “cuore puro” è colui che si tiene a distanza da tutta la macchina del mondo, il che non significa che si tenga al “di fuori” del mondo. Neppure è attirato dalla ricompensa massima che potrebbe consistere in questo “vedere Dio”, come una forma di partecipazione al potere o al dominio legata al desiderio di essere ammessi presso Dio. Non si è “felici” per una ricompensa, il che resterebbe dell’ordine del “mondo”, ma si è “felici” di non essere rinchiusi “dentro”. Senza dubbio per comprendere che cos’è un “cuore puro” bisogna tornare all’amore, che consiste nel vedere l’altro come altro. Si tratta proprio di vedere, cioè di essere nel rapporto, senza nulla che si possa afferrare. Non si “vede” un oggetto, si “vede” un’apertura, un’evasione verso l’altro. Che cosa chiede l’amore se non una purificazione del cuore? Una purificazione delle mie attese affinché io possa vedere l’altro come altro. È veramente attraverso il cristianesimo che l’amore diventa questo riconoscimento dell’assolutezza integrale della persona. L’amore rinvia a ciò che noi non possiamo assolutamente afferrare. Forse è questo, “vedere Dio”. Non vedere un essere dietro gli altri esseri, ma vedere che ogni essere è assoluto, incommensurabile.


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