L’epistemologo...
Kant contro la metafisica
Una nuova traduzione dei «Prolegomeni», scritti per rispondere alla accuse di idealismo rivolte alla «Critica della ragion pura»
di Franco Giudice (Il Sole-24 Ore, Domenica, 09.10.2016)
Dopo, nulla sarebbe più stato come prima. La Critica della ragion pura di Immanuel Kant fu un vero e proprio spartiacque, destinato a cambiare, se non il mondo, quantomeno la filosofia occidentale. Eppure, quando fu pubblicata nella primavera del 1781, incontrò un silenzio quasi assoluto. Anzi, peggio: ai primi lettori, compresi gli amici più stretti di Kant, come i filosofi Moses Mendelssohn e Johann Georg Hamann, l’opera apparve oscura e incomprensibile. Erano rilievi che lo stesso Kant considerava non del tutto infondati, ma che andavano attribuiti, a suo avviso, alla natura estremamente innovativa della Critica che peraltro, pur avendo alle spalle undici anni di lavoro molto intenso, era stata scritta quasi di getto, nel giro di quattro o cinque mesi. Così, fin dall’epoca della sua pubblicazione, egli aveva pensato di darne un’esposizione più breve e popolare. Questo progetto però, agli inizi del 1782, subì un profondo cambiamento.
A determinarlo fu un’anonima recensione, uscita appunto il 19 gennaio di quell’anno nelle «Göttingische Gelehrte Anzeigen», che accusava Kant di aver riproposto, senza alcuna originalità, l’idealismo di Berkeley. È in questo contesto che nacquero e videro la luce, nell’aprile 1783, i Prolegomeni ad ogni futura metafisica che possa presentarsi come scienza. Che nelle intenzioni di Kant dovevano senz’altro chiarire e difendere la dottrina presentata nella Critica, rispondendo a quanti ne avevano biasimato l’oscurità e la complessità. Ma che sarebbe fuorviante considerare come un’esposizione divulgativa o un mero riassunto della Critica. I Prolegomeni sono infatti un libro autonomo che, anche per il metodo specifico di cui si avvalgono, vanno letti come tali.
Ed è quanto ci invita a fare Renato Pettoello nell’introduzione alla sua nuova traduzione dei Prolegomeni, che riesce a conciliare un rigoroso rispetto per il testo originale con la massima leggibilità possibile. È bene precisare tuttavia che i Prolegomeni rimangono pur sempre un’opera difficile, faticosa e a tratti perfino involuta. Non solo: in diversi luoghi Kant si richiama esplicitamente alla Critica, presupponendone così la conoscenza. Tutti ostacoli resi comunque sormontabili dall’ampio commento di Pettoello che, oltre a spiegarne i passi più ambigui, mostra come i Prolegomeni siano stati anche «un banco di prova per la revisione della Critica in vista della seconda edizione (1787)».
Un commento dunque prezioso, che ci aiuta sia a seguire il filo conduttore dei Prolegomeni, sia a comprendere quella «rivoluzione copernicana» che Kant pensava di aver introdotto in filosofia e che consiste nel collocare al centro del processo conoscitivo non l’oggetto, bensì il soggetto, capovolgendone il rapporto tradizionale. Fu proprio questa rivoluzione nel modo di pensare a disorientare i primi lettori della Critica e a far dire all’anonimo recensore delle «Göttingische Gelehrte Anzeigen» che Kant in fondo non aggiungeva niente di veramente nuovo rispetto all’idealismo di Berkeley, poiché anche lui finiva per ridurre il mondo a mera parvenza.
Kant si irritò molto per questo accostamento, e nell’appendice ai Prolegomeni replicò infatti con inconsueta durezza, considerandolo un grossolano fraintendimento del suo pensiero. Di qui il tono polemico, se non addirittura sprezzante, che pervade l’intera opera e che la rende, a tutti gli effetti, «un libro di battaglia».
Prendere le distanze da ogni idealismo distruttivo della realtà era una questione talmente centrale da spingere Kant a inserire, nella seconda edizione della Critica, un’esplicita e ferma «Confutazione dell’idealismo». Un aspetto cui Pettoello dedica tutta la sua introduzione, evidenziando l’infondatezza dell’accusa rivolta al filosofo di Königsberg che, a differenza degli idealisti, non sostiene che sia il soggetto a produrre ontologicamente l’oggetto, ma afferma soltanto che nel processo gnoseologico gli oggetti - o, meglio, i fenomeni - devono essere organizzati dal soggetto.
I Prolegomeni però sono «un libro di battaglia» anche da un’altra, forse più importante, prospettiva: intendono demolire le pretese della vecchia metafisica, che crede di poter fare affermazioni conoscitive sul mondo indipendentemente dall’esperienza. E che si tratti appunto di pretese, osserva Kant, lo dimostra la sua lunga storia di fallimenti, dove la metafisica ruota sempre intorno allo stesso punto, senza mai fare un passo avanti, «mentre ogni altra scienza progredisce incessantemente».
I Prolegomeni prendono dunque le mosse dal riconoscimento che esistono forme effettive di conoscenza scientifica, come la matematica e la fisica, e si chiedono poi quali siano le loro condizioni di possibilità. E si pongono ovviamente anche una terza domanda, implicita nel lungo titolo: «com’è possibile la metafisica come scienza»? La risposta a quest’ultima domanda dipende così dal confronto tra ciò che rende possibile la matematica e la fisica e ciò che dovrebbe essere la metafisica se potesse essere anch’essa scienza. La matematica, secondo Kant, è possibile come scienza perché è costituita da giudizi sintetici, giudizi cioè che ampliano la nostra conoscenza, le cui condizioni a priori sono le forme pure della sensibilità, lo spazio e il tempo. La fisica è possibile come scienza perché è costituita da giudizi sintetici le cui condizioni a priori sono le categorie e i principi dell’intelletto, il più decisivo dei quali è quello di causalità.
In entrambi i casi, queste componenti del nostro apparato conoscitivo hanno un uso limitato, nel senso che valgono soltanto in relazione all’esperienza. Ma ciò non vuol dire, diversamente da quello che sosteneva Hume a proposito della causalità, che tali concetti «siano tratti dall’esperienza» e che la loro necessità sia da imputare a «una lunga abitudine» psicologica. Kant pensava infatti che Hume - il filosofo cui attribuiva il merito di aver posto fine al suo «sonno dogmatico» - si sbagliasse perché questi concetti sussistono invece «a priori, prima di ogni esperienza» e hanno «una loro indubitabile esattezza oggettiva».
Il problema della metafisica quindi, può essere posto con speranza di soluzione soltanto dopo aver stabilito che il concetto di causa è a priori e oggettivo, prendendo atto, nello stesso tempo, della sua validità nei limiti invalicabili dell’esperienza. L’esito però è tutt’altro che positivo: affinché possa presentarsi come scienza, la metafisica deve servirsi di questo concetto, ma deve anche, per costituirsi come totalità, farne un uso trascendente che va oltre i limiti di ogni possibile esperienza. Di conseguenza, la metafisica, a differenza della matematica e della fisica, è condannata a non essere scienza.
L’esigenza della metafisica di spingersi oltre l’esperienza tuttavia, assicura Kant ai lettori dei Prolegomeni, è così radicata nella ragione umana che non può mai andar perduta. Bisogna pertanto capire per quale fine la natura abbia predisposto nella nostra ragione questa tendenza a formare concetti trascendenti. Che è precisamente quello che Kant, pochi anni dopo, cercherà di fare nella sua filosofia morale.
Immanuel Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che possa presentarsi come scienza , a cura di Renato Pettoello, Editrice La Scuola, Brescia, pagg. 309, € 16,50
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...e il filosofo morale
La libertà di essere un fine
di Giuseppe Bedeschi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 09.10.2016)
Benché Kant abbia tenuto, tra il 1767 e il 1788, dodici corsi universitari sul diritto naturale, a noi è rimasta una sola trascrizione manoscritta: quella del semestre estivo del 1784 (nota come Naturrecht Feyerabend, dal nome del suo possessore), che esce ora per la prima volta in traduzione italiana (presso Bompiani), a cura di Gianluca Sadun Bordoni, il quale ha premesso al testo kantiano una acuta introduzione e vi ha apposto un ricco apparato di note.
Il cosiddetto Naturrecht Feyerabend è un testo di grandissimo interesse: infatti, mentre svolgeva tale corso, Kant ultimò la redazione della Metafisica dei costumi: di qui i numerosi parallelismi tra le due opere, a volte assai stretti, che meritano di essere considerati attentamente.
Al centro della meditazione kantiana è il nesso libertà-ragione. Già nelle lezioni di filosofia morale degli anni settanta Kant aveva detto che «la libertà è il grado più alto della vita» ed è «il valore intrinseco del mondo». Il manoscritto del 1784 svolge su questo punto considerazioni assai importanti. «Il valore intrinseco dell’uomo - dice il filosofo - si fonda sulla sua libertà, sul fatto che egli possiede una propria volontà. Dato che egli deve essere il fine ultimo, la sua volontà non deve dipendere da null’altro».
Anche gli animali hanno una volontà, ma non hanno una volontà propria, bensì la volontà della natura. La libertà dell’uomo, invece, è la condizione sotto la quale l’uomo può essere un fine in se stesso, nel senso che egli regola le proprie azioni secondo fini degni di lui, e quindi non tratta (non deve trattare mai) i propri simili come mezzi. Perciò alla libertà umana è indissolubilmente connessa la ragione. Infatti, “senza ragione un ente non può essere fine in se stesso: perché non può essere cosciente della sua esistenza, non può riflettere su di essa”.
Ma attenzione: la ragione non costituisce ancora la causa per cui l’uomo è scopo in se stesso. Noi vediamo infatti che la natura produce negli animali attraverso l’istinto ciò che la ragione scopre attraverso tortuosi cammini. Separata dalla libertà, la ragione può ricadere interamente nel meccanismo della natura: in tal modo noi non saremmo migliori degli animali. Dunque, soltanto la libertà fa sì che noi siamo scopi in sé. «Qui abbiamo la capacità di agire secondo il nostro proprio volere», e quindi di perseguire le finalità più alte.
Kant non esita ad affermare di non sapere «come io possa comprendere tale libertà». E tuttavia, egli dice, essa è un’ipotesi necessaria, se devo pensare enti razionali come scopi in sé. Se l’ente umano non è libero, allora egli è nelle mani di un altro, dunque è sempre scopo di un altro, cioè è un semplice mezzo. «La libertà quindi non è solo la condizione suprema, ma anche quella sufficiente».
La libertà diventa così la chiave di volta tanto del mondo morale quanto del mondo etico-politico. Infatti per Kant uno dei princìpi a priori sui quali deve essere fondato lo Stato in quanto Stato giuridico, è la libertà. Tale principio significa, dice il filosofo, che «nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo (cioè come egli immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale (cioè non leda questo diritto degli altri)».
Sicché Kant affermava in modo perentorio che un governo paternalistico, in cui i sudditi, come figli minorenni che non possono distinguere ciò che è loro utile o dannoso, sono costretti ad aspettare che il Capo dello Stato giudichi in qual modo essi devono essere felici, è il peggior dispotismo che si possa immaginare.
Immanuel Kant, Lezioni sul diritto naturale (Naturrecht Feyerabend), a cura di Norbert Hinske e Gianluca Sadun Bordoni, Bompiani, Milano, pagg. 305, € 50