Vita di famiglia
Il «privato» fa la storia del Novecento: uno studio di Paul Ginsborg
Un progetto ambizioso che inserisce l’istituto familiare nella grande storia, e lo mette in relazione con le politiche, le idee, le ideologie, le utopie rivoluzionarie e reazionarie che hanno attraversato la prima metà del ’900
di Jolanda Bufalini (l’Unità, 28.01.2014)
IL DESTINO DI MILIONI DI FAMIGLIE DURANTE LA GUERRA CIVILE RUSSA CHE, «per orrori e perdite di vite umane superò la prima guerra mondiale»; quello di altri milioni nel tragico passaggio dall’impero ottomano alla Turchia moderna. La guerra civile spagnola, la Germania di Weimar e l’ascesa di Hitler, le famiglie «approvate» e quelle escluse ed eliminate, il fascismo della tassa sul celibato. Famiglia Novecento di Paul Ginsborg illumina un aspetto sorprendentemente trascurato dagli studi storici sul XX secolo, immettendo l’istituto familiare nella grande storia.
Ginsborg riferisce il gesto della sua amica sociologa madrilena Elisa Chulià a spiegare il perché nella gran parte degli studi storici la famiglia rimanga dietro le quinte: «Si è portata le mani al volto intrecciando le dita a formare una grata davanti agli occhi». Grate, persiane, tende, persino, vengono in mente, gli specchi da cui le beghine olandesi guardavano ciò che accade in strada al riparo della loro casa.
L’operazione, portata avanti con una complessa metodologia comparativa, è tirare fuori la famiglia dalla dimensione domestica per metterla in relazione con le politiche, le idee e le ideologie, le utopie rivoluzionarie e reazionarie che hanno attraversato la prima metà del 900, le stesse tensioni fra individui e famiglia di provenienza, i mutamenti straordinariamente potenti nel passaggio dal mondo contadino all’industrializzazione: la Germania hitleriana è il paese più moderno del tempo, la popolazione è urbanizzata, le ragazze lavorano e amano la vita indipendente, la natalità è bassa. Eppure l’ideale propagandato dal regime con i suoi formidabili mezzi di comunicazione è rurale. La famiglia ideale, rappresentata in un olio di Adolf Wissel nel 1939, è incorniciata da un ambiente campestre, numerosa e ariana. Nulla a che vedere con la rappresentazione caotica in un interno urbano e affollato che ne aveva fatto Max Beckman nel 1920.
Nella esposizione universale del 1937 nessun padiglione eguagliò quello spagnolo, per il quale Picasso aveva dipinto Guernica. A sinistra nella grande tela c’è la rappresentazione di una maternità disperata, la testa del bambino morto ciondola all’indietro, il grido della madre si alza verso il toro che la sovrasta. Nello stesso padiglione era esposto un fotomontaggio: accanto ad una donna immobilizzata nel rigido costume tradizionale c’è la «donna nuova», «capace di prendere parte attiva nella creazione del futuro». Eppure nel movimento anarchico spagnolo non si produsse alcuna riflessione sulla famiglia, le mogli degli anarchici erano rinchiuse in casa come tutte le altre donne spagnole.
Nella tela di Zeki Kaik Izer, La via della rivoluzione, Ata Turk in giacca e cravatta avvolge con il braccio destro una famiglia cittadina medio borghese, lei indossa un tubino nero e un cappellino da passeggio. Sono loro, la famiglia nucleare borghese e non quella patriarcale tradizionale, il punto di riferimento dei giovani turchi. Ata Turk copiò il codice svizzero della famiglia. Non c’è nulla di agiografico ne La famiglia dipinta da Sironi, pittore di regime ma artista grandissimo, né oro alla patria, né prole numerosa da mandare al fronte. Nei manifesti russi che propagandano la costruzione delle mense, sedute a tavola con gli impiegati, stanno le operaie con il fazzoletto da lavoro in testa, aspirazione a liberare la donna dalle incombenze domestiche.
La narrazione storica di Ginsborg è resa affascinante dalla scelta di aprire ogni capitolo (ciascuno dedicato a un paese) con personaggi simbolo. Ci sono le storie familiari dei dittatori e ci sono alcuni ritratti strepitosi. Aleksandra Kollontaj e Inessa Armand in Russia, Halide Edib, protagonista femminile in una società patriarcale del movimento progressista turco. Tommaso Marinetti per il quale la famiglia era «una tenda di beduini». Straordinario il ritratto di Magda Quandt Goebbels, che con i suoi sette figli, divenne il simbolo della madre nazista.
«La famiglia non è solo oggetto, scrive Ginsborg destinataria dell’azione del potere politico ma anche soggetto, protagonista della storia». La famiglia e lo stato sono «due sistemi dinamici» che non necessariamente vanno alla stessa velocità né nella stessa direzione. Per quanto forte sia la pressione, la repressione, per non parlare del genocidio e delle soppressioni eugenetiche, le famiglie «dispongono di particolari codici e culture di resistenza». «Flessibilità, solidarietà, reti, segreti gelosamente custoditi» che entrano nel gioco della sopravvivenza in condizioni terribili: «La radicata cultura clientelare», scrive Ginsborg in un parallelo fra Urss e Italia fascista consentì in questi paesi «alle famiglie di scalare le pareti dello Stato apparentemente verticali».
Il libro si ferma al 1950. Dopo vennero alla ribalta «nuove problematiche sulle modalità con cui le famiglie, nell’ambiente radicalmente nuovo delle libertà civili e politiche, si posero in connessione con la società civile e lo Stato democratico». Ma «questa è un’altra storia». I meccanismi e le risorse che nell’età delle dittature «servirono a mantenere viva la memoria di ciò che era stata la libertà» fanno esprimere all’autore «scetticismo nei confronti di uno schema interpretativo che utilizza il totalitarismo come filo conduttore». Quegli stessi meccanismi di salvezza potrebbero essere alla radice del «familismo amorale» di cui Ginsborg ha scritto altrove.