Il familismo? Può essere morale
Risarcimento storico per Chiaromonte: per anni la teoria di Banfield ci ha condannati a essere percepiti come comunità senza civismo
di ISAIA SALES *
IL famoso psichiatra statunitense Irvin Yalom ha scritto che la forza di una credenza non ha nessun rapporto con la sua veridicità. Una di queste credenze (idòla, per dirla con Bacone) è il “familismo”, un paradigma interpretativo appiccicato addosso alla realtà meridionale, soprattutto nella sua versione di “familismo amorale”, che è entrato addirittura in un testo di storia per le scuole italiane (La discussione storica, di De Bernardi-Guarracino). Perché mai l’attaccamento ai legami familiari (che è una caratteristica positiva e ininterrotta della storia dell’uomo e della società a cui ha dato vita) si trasforma nel caso dell’Italia meridionale in una delle principali ragioni del suo ritardo storico e addirittura in un incentivo alle mafie? Dove è stato dimostrato che tra familismo, questione meridionale e mafie ci sia un indissolubile legame di causa ed effetto?
Indubbiamente il sociologo americano Edward Banfield coniò negli anni cinquanta del Novecento una delle formule sintetiche ed evocative sul Sud tra le più note in assoluto, perché è riuscita a travalicare i confini della letteratura sociologica e ad entrare e restare nel dibattito politico e giornalistico praticamente da più di 50 anni. Ma si tratta di una delle teorie più superficiali, più banale e più indimostrate.
Ricapitoliamo i fatti. Nel 1954 Banfield, sua moglie, i due figli e un allievo, si stabilirono nel piccolo e ( allora) sperduto paese di Chiaromonte in Basilicata (all’epoca di 3400 abitanti) per una ricerca sul campo che durò nove mesi con lo scopo di analizzare quali cause si celassero dietro l’arretratezza economica e sociale del Meridione.
Perché Banfield si recò in Basilicata e in particolare a Chiaromonte? Semplicemente perché sua moglie era di origini salernitane, di un comune confinante con la Lucania ed era dunque in condizioni di capire i dialetti locali, contrariamente a lui che non conosceva l’italiano né tanto meno il dialetto di quella comunità.
Banfield pubblicò i risultati della sua ricerca in un libro uscito negli Usa nel 1958 dal titolo The moral basic of a backward society (Le basi morali di una società arretrata). Nel libro il paese oggetto dello studio viene chiamato Montegrano.
Banfield propose una spiegazione “culturale” del perdurare dell’arretratezza merdionale: il Sud è in condizione di ritardo dello sviluppo perché la popolazione non è in grado di formulare strategie collettive per reagire alla povertà.
Questa mancanza di reazione è dovuta alla presenza di un particolare ethos, cioè appunto al “familismo amorale” che facendo concentrare gli interessi, gli affetti, le attenzioni, le preoccupazioni solo all’interno del proprio nucleo di sangue, bloccherebbe qualsiasi azione collettiva per migliorare la situazione.
Egli contestava aspramente le spiegazioni dell’arretratezza e della miseria ( e dunque anche della criminalità) dovute a fattori socio-economici come sostenevano gli studiosi della scuola sociologica di Chicago.
Insomma la povertà era causata da un modo particolare di agire e di pensare, non c’entravano i rapporti di proprietà, la sottomissione dei contadini a condizioni animalesche di vivere e di lavorare protrattesi nei secoli.
Il familista, in sintesi, è colui che perseguendo esclusivamente gli interessi della propria famiglia, dimostra di avere uno scarso senso civico, di essere avverso allo spirito di comunità e disposto semmai a cooperare con gli altri membri della comunità solo se ne ricaverà vantaggio materiale ed immediato per sé e per la sua famiglia.
Familismo amorale è, dunque, l’opposto di civismo.
Rileggendo oggi questa interpretazione sulle cause della miseria contadina del Sud d’Italia di quegli anni, appare ancora più incredibile che essa abbia avuto tanto seguito e sia ancora oggi usata come passepartout per ogni interpretazione dei mali meridionali e soprattutto come causa del divario con il Centro-Nord.
Come si poteva mettere sullo stesso piano “ povertà economica e barbarie interiore”?
Banfield lo fece ed ebbe successo, uno straordinario successo, con una teoria al limite del razzismo. La sua teoria fu estesa poi a tutte le realtà arretrate d’America e del mondo per poter dimostrare che la povertà è “una scelta individuale”.
Banfield, infatti, fu a lungo consulente dei governi Nixon e Reagan e in questa veste applicò le sue tesi sul familismo amorale agli slums abitati dalla popolazione di colore degli Stati Uniti : causa della povertà non era la discriminazione razziale ma la cultura degli abitanti di quei quartieri.
Meridionali e neri americani erano accumunati nell’essere essi stessi causa della loro arretratezza. Il familismo amorale, insomma, è una di quelle teorie per le quali i ricercatori hanno già in tasca le ipotesi fondamentali,di cui cercheranno sul campo la conferma.
E infatti Franco Ferrarotti sostiene che Banfield aveva già elaborato la teoria sul familismo amorale (e gliela illustrò in un colloquio prima dell’analisi sul campo a Chiaromonte, chiedendogli di collaborare a “dimostrarla”) e aveva bisogno solo di un piccolo comune meridionale dove poter dire di averla scoperta!
Ma i meridionali sono così familisti e in maniera diversa e patologica rispetto al resto d’Italia e ad altre nazioni?
D’altronde collocare nella propria scala di affetti e di interessi i familiari prima degli estranei non è una cosa moralmente sanzionabile, né tanto meno chi lo fa è necessariamente un pessimo cittadino. I Bush padre e figli sono stati presidenti degli Stati Uniti; la famiglia Kennedy è stata una specie di dinastia politica; Clinton e la moglie hanno occupato per anni la scena politica americana; in Italia gli Agnelli hanno trasmesso il potere sulla Fiat da quattro generazioni. Fabrizio Barca ha parlato a ragione in un suo libro di “capitalismo familiare italiano”.
Indagini anche recenti hanno dimostrato come il ruolo della famiglia (intesa come solidarietà all’interno del gruppo familiare) sia più forte in molte nazioni europee che nello stesso Mezzogiorno. Ad esempio in Irlanda e negli Usa. In particolare vanno letti gli studi al riguardo di Loredana Sciolla e di Emanuele Ferragina. Insomma, il familismo può essere tranquillamente “civico” e correlato positivamente con la fiducia sia interpersonale che istituzionale.
Il familismo può essere tranquillamente “morale”.
La famiglia è indissolubile legata all’evolversi delle vicende storiche e niente impedisce di poter contribuire allo sviluppo economico e lavorare al servizio dello Stato, come nel caso di alcuni magistrati che a Palermo, guidati da Chinnici, Costa, Falcone e Borsellino, e nonostante fossero tutti membri di forti reti familiari, hanno combattuto la mafia come nessun altro prima di loro, per ricordare le efficaci parole di Gabriella Gribaudi.
Perciò è insopportabile la connessione che si è stabilita in maniera del tutto arbitraria tra familismo e sviluppo delle mafie. Certo, il familismo amorale non è una teoria nata per spiegare le origini delle mafie. Eppure è stata ampiamente usata in questa impropria funzione.
Ma dal punto di vista scientifico si tratta di errore clamoroso.
Innanzitutto, se ci fosse rapporto tra il familismo amorale e lo sviluppo delle mafie, il paese e la zona dove è stata “scoperta” tale teoria, cioè Chiaromonte e la Basilicata, dovrebbero essere un territorio mafioso per eccellenza.
Recentemente ho ricostruito le statistiche degli omicidi in quel paese con la collaborazione del Ministero degli interni e della prefettura di Potenza: ebbene da quando Banfield mise piede a Chiaromonte, 1954, fino al 2014 (cioè in 60 anni) si è verificato un solo omicidio e tre tentati omicidi, tutti risolti con la scoperta degli autori.
Come si può descrivere un mondo familiare chiuso e in guerra con tutto il resto del mondo e poi verificare che quel paese, che dovrebbe essere intriso di sangue, invece è tra i più tranquilli d’Italia. Ci vorrebbe un risarcimento storico per gli abitanti di Chiaromonte, piuttosto che inserire il familismo in un testo di storia.
*Il Mattino, 17 gennaio 2015 (Il Quotidiano della Basilicata, 20.01.2015)