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CRISI POLITICA E "SACRA FAMIGLIA [UNITA]"!!! NON SOLO LA TEOLOGIA (E LA FILOSOFIA), MA NEMMENO LA SOCIOLOGIA SA DISTINGUERE TRA FAMIGLIA DEMOCRATICA E FAMIGLIA DI "MAMMASANTISSIMA" E DI "MAMMONA"...

"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA. Una nota di Chiara Saraceno - a cura di Federico La Sala

(...) l’enfasi un po’ asfissiante sulla famiglia come panacea universale rende più muti e ciechi quando le cose non vanno (...)
giovedì 12 agosto 2010
[...] questa cecità al lato oscuro della famiglia, alle piccole o grandi
violenze che si producono al suo interno non solo quando c’è trascuratezza o abbandono, ma quando
l’intimità diviene mancanza - o non riconoscimento - di confini tra le persone e il senso di
appartenenza diventa pretesa di possesso, lascia particolarmente indifese le vittime di violenze
famigliari. Per vergogna, indicibilità, speranza che le cose cambino, malinteso senso di pudore, esse
spesso faticano a denunciarle e (...)

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> "FAMILISMO AMORALE" E SOCIETA’. --- "Amore senza fine, amore senza fini. Appuntini di storia su chiese, matrimoni e famiglie". Il manifesto/testimonianza di Alberto Melloni (di Silvana Seidel Menchi)

lunedì 30 marzo 2015

La verità vi prego sul matrimonio

L’amore, ispiratore naturale di ogni unione autentica, nei millenni è stato sempre sacrificato al princìpio di autorità

di Silvana Seidel Menchi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 29.03.2015

Un autore che utilizza la parola “appuntini” nel titolo del suo libro deve essere molto sicuro del fatto suo. Alberto Melloni in Amore senza fine, amore senza fini. Appuntini di storia su chiese, matrimoni e famiglie ( Il Mulino, Bologna, pagg. 142, € 12) ha da dire cose importanti e lo sa. Il tema di Melloni è il matrimonio in quanto amore. Questo tema occhieggia dietro un ventaglio di argomenti che sono attualmente tra i più dibattuti nella società civile italiana - nozze omosessuali, regolazione pattizia della convivenza (già “concubinato”), ammissione alla comunione ecclesiale dei divorziati risposati, femminicidio come frutto del sessismo.

Il saggio tematizza anche gli scontri che stanno a monte di questi dilemmi attuali e che continuano a condizionarli - cioè l’alternativa tra matrimonio religioso e matrimonio civile, le battaglie per il divorzio, per l’interruzione volontaria della gravidanza, per la contraccezione ormonale, contro l’accanimento medicale. Dietro a queste questioni che hanno dominato in passato o dominano oggi il nostro orizzonte quotidiano, riemerge sempre di nuovo il problema cruciale di questo saggio, nel quale tutte le sue molteplici componenti convergono e trovano una loro unità, anzi si potenziano reciprocamente: il matrimonio inteso nella sua accezione più forte e dirompente, cioè in quanto «legame più irresistibile e più fragile che la vita regali». Proprio come preannuncia il titolo.

La storia del matrimonio che l’autore ricostruisce partendo da Adamo ed Eva, toccando (fugacemente) il matrimonio nel diritto romano, fermandosi in modo più analitico sul matrimonio medievale di puro consenso, delineando incisivamente le caratteristiche del matrimonio tridentino, del matrimonio civile sancito dal codice napoleonico e dai codici che a esso si sono improntati, fino al matrimonio come contratto tutelato dagli stati moderni, appare caratterizzata da una continuità millenaria, nella quale lo sguardo severo di questo autore non coglie incrinature sostanziali.

Il matrimonio codifica oggi come sempre ha codificato il «principio di autorità» che regola l’intera società, sancisce anzi «santifica» l’inferiorità femminile, scinde tendenzialmente il coniugio dall’amore, subordina il dono coniugale alla costruzione della famiglia e aggrava la famiglia stessa - la sede di quei «dolori e gioie semplici di cui l’affetto custodisce il senso» - di un compito straniante e deviante, cioè costituire «la cellula della società».

Quale prova più lampante di questa formula - coniata da Jean Bodin al declino del secolo XVI, rilanciata dai giuristi gallicani al servizio della corona di Francia nel secolo XVII, adottata pari pari da Pio XII nel secolo XX -, quale argomento più stringente per provare la perfetta osmosi tra cultura cristiana e cultura secolare, tra matrimonio come sacramento e matrimonio come contratto, ovverosia «l’interscambio tra il matrimonio religioso del regime di cristianità e matrimonio civile del regime di modernità»?

Questa santa alleanza - suggerisce l’autore - celebra i suoi trionfi a spese dell’essere umano individuo, del suo senso della vita, della sua aspirazione alla felicità: a spese di quell’amore, insomma, che non è etero o omo, non divino o umano, non spirituale o carnale, perché «l’amore è uno».

Quello che in particolare suscita lo sdegno lucido dell’autore è il concetto de «i fini propri del coniugio». Tali fini (denunciati fin dal titolo) sarebbero, auspice Agostino, il porre rimedio alla concupiscenza e il mettere al mondo dei figli. Questa dottrina, sancita da una catechesi secolare, ispira all’autore formulazioni che tagliano come lame: perché il matrimonio inteso come atto d’amore, come osare di «mettere la [propria] vita nelle mani di un altro o di un’altra» non ha altro fine che sé stesso, né altra logica che la sua difficile, fragile, dolorosa logica interna. Saldandosi con la visione della famiglia come «cellula della società», la teoria dei «fini» subordina la sussistenza del matrimonio alla procreazione, o alla volontà della procreazione, risolvendo e dissolvendo il dialogo d’amore tra due esseri umani, tra due persone, in una istituzione, in una piccola collettività, in una proiezione fuori del sé.

La ribellione dell’autore contro questo straniamento dell’amore a sé stesso si esprime in una tendenziale scissione, a livello linguistico, tra «matrimonio» e «famiglia», una scissione che si esprime nel fatto che la «famiglia», quando è intesa come «fine», e quindi non coincidente con l’amore, è collocata tra virgolette in tutto il corso del saggio. L’amore può, sì, espandersi e fiorire in una famiglia, ma questo fiorire deve essere libero, non imposto, non costrittivo, non punitivo.

Nel tentativo di orientarmi, come storica del matrimonio, nei tornanti di questa prosa di grande vigore e densità, che impone una lettura lenta - in quanto osa mettere in discussione tutta la pastorale cattolica degli ultimi cinque secoli in materia coniugale - confesso di essermi messa alla ricerca di una professione di fede: che cosa vuole Alberto Melloni? E credo di averla trovata, questa professione di fede, nell’epilogo. E poiché essa mi ha scosso, non posso fare a meno di riprodurla qui, come condensato di un percorso di coscienza e autocoscienza che mi appare di folgorante lucidità e intensa sofferenza: -«Alla fine del Vaticano II monsignor Helder Camara immaginò un finale spettacolare per il Concilio del XXI secolo. Il papa da solo usciva da san Pietro e domandava perdono dell’autoritarismo ai vescovi, che lo perdonavano e si univano a lui; procedevano ora insieme, papa e vescovi, a chiedere perdono ai laici. Stessa scena. Poi i cattolici chiedevano perdono agli altri cristiani, e questi insieme agli ebrei e poi ai credenti delle religioni; e poi tutti alle donne per un soggiogamento blasfemo e durato dalla notte dei tempi».

A questa schiera di esseri umani ai quali la Chiesa Cattolica in capite et in membris potrebbe, dovrebbe, ora chiedere perdono Alberto Melloni propone di aggiungere - questa è una mia ipotesi - la fiumana di coloro ai quali il diritto canonico e una catechesi estraniatasi dal Vangelo hanno reso difficile l’esercizio dell’amore, di quell’amore che non si identifica sempre con la charitas, di quell’amore che è anche - non solo - eros.

Un manifesto/testimonianza come quello che Alberto Melloni ha dato alle stampe ha due coordinate. Una di esse è il pontificato di Jorge Mario Bergoglio, la brezza che spazza via l’aria ristagnante (da secoli?) nei recessi direttivi della Chiesa Cattolica; la seconda è il Vangelo, e in particolare il messaggio di Cristo (per Melloni: Gesù), che va dissepolto, specialmente in un Paese come il nostro, del tutto privo di cultura biblica. «La lingua del perdono e della misericordia e la forza che gli deriva dall’essere il linguaggio del Vangelo e di Gesù» devono essere riscoperte.

Il manifesto/testimonianza di Alberto Melloni, sprigionatosi dalla sua lotta corpo a corpo con la Chiesa in cui vive e di cui vive, e anche con la società in cui vive, nasce al punto di intersezione di queste due coordinate. Mi auguro che questo libro, ingannevolmente snello, arrivi nelle mani di Jorge Mario Bergoglio. E posso immaginare che esso sia destinato a essere ristampato, un giorno, con un apparato di note cinque volte più ampio dell’attuale.


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