ISLAM A TESTA BASSA. La vita delle ragazze musulmane...
La catena di solidarietà
In un contesto così difficile, gli “angeli custodi”, le figure incontrate lungo il percorso che offrono sostegno e aiuto alle ragazze, hanno un ruolo fondamentale. Naima Daoudagh è una di loro: in 17 anni di lavoro non ricorda neanche quante donne ha aiutato. «A un certo punto ho smesso di contare » , dice di fronte a un caffè nella sua Brescia. « Alcune neanche le conosco di persona. Ricevo telefonate dalla Calabria, dal Veneto, dal Piemonte. Io faccio quello che posso: ma il passo più grande, dire basta, spetta a loro».
Nata in Marocco, Naima è arrivata in Italia quasi 30 anni fa, quando ne aveva 16. «Eravamo i primi marocchini a stabilirsi in Sardegna - ride - ci guardavano come qualcosa di raro. Ma furono tutti molto gentili » . Qui si è trasferita nel 1995, per seguire il marito, bresciano doc. Dopo poco ha iniziato a lavorare come mediatrice transculturale, poi si è specializzata nell’ambito sanitario e ha cominciato a lavorare in ospedale. «Ho aiutato a partorire donne con mutilazioni genitali. Assistito signore che hanno abortito a causa delle botte ricevute dai mariti. E tenuto per mano adolescenti con il naso e le costole spaccate da padri-padroni che le picchiavano per punirle di uno stile di vita “troppo occidentale”. Quando dico che siamo di fronte a un problema in aumento parlo per esperienza. C’è una questione aperta nella comunità musulmana in Italia oggi. Nei Paesi di origine delle migrazioni si discute sull’interpretazione storica del Corano, di come sposare le regole della religione e quelle della vita contemporanea: qui non si parla, e chi solleva questi temi viene accusato di offrire il fianco agli islamofobi».
Più si passa del tempo con Naima più diventa chiaro che quello di cui discute non è solo il suo lavoro, ma la sua vita: l’amore per un uomo italiano e cristiano che ha rifiutato l’ipocrisia di una conversione finta per sposarla. La difficoltà di crescere la figlia in una famiglia con due culture e due religioni, l’inflessibile volontà di parlare a nome di un Islam che, rivendica con forza, «non è fatto solo di donne con il velo. Non ha una visione unica » . « Non mi si può tacciare di ignoranza perché non mi sono mai coperta la testa: sono musulmana anche io. Prego anche io. E conosco il Corano», spiega.
«Se dico che c’è un problema - insiste - è perché lo vedo. Queste ragazze sono straniere per legge ma italiane nei fatti: nate e cresciute qui, nelle nostre scuole, accanto ai nostri figli. Molte di loro conducono un’esistenza tranquilla, in armonia con il mondo esterno e con la famiglia. Ma per altre la storia è diversa. I genitori vogliono che mantengano l’identità delle origini, ma le loro origini sono qui: non hanno ricordi dei Paesi di origine delle famiglie, ma di Brescia. Siamo nella città di Hina, la ragazza uccisa nel 2006. Noi abbiamo ben presente dove può portare la tensione».
Parole profetiche: qualche settimana dopo questa conversazione, c’è stata la morte in Pakistan, presumibilmente per mano di padre e fratello, di Sana Cheema, che a Brescia era cresciuta e viveva, apparentemente felice. La notizia ha devastato Naima: «Siamo sotto choc: dodici anni dopo ci ritroviamo allo stesso punto. È il segno di un fenomeno che è stato sottovalutato. Non sto dicendo che va tutto male: ci sono giovani realizzate e famiglie felici. Ma c’è anche altro: e non bisogna vergognarsi a dirlo, non bisogna essere buonisti. C’è una zona grigia e va affrontata: perché se non lo facciamo crescerà».
In teoria Naima e Amina Alzeer stanno dalla stessa parte: entrambe combattono contro la violenza, entrambe si spendono anima e corpo nel loro lavoro, entrambe sono diventate un punto di riferimento nazionale. Eppure rappresentano due mondi che si guardano da lontano, a tratti con diffidenza. «Nei confronti di noi donne con il velo c’è un certo pregiudizio » , sospira Amina. « Le femministe e le laiche spesso non ci apprezzano perché proponiamo un approccio anche religioso alla questione della violenza. Allo stesso tempo alcuni esponenti della comunità musulmana ci danno addosso perché dicono incoraggiamo le donne a ribellarsi. Ma se tutti ci criticano, vuol dire che stiamo facendo bene».
Quarantadue anni, italopalestinese, madre di sei figli, Amina è la vicepresidente di Aisha, un progetto che prende il nome dalla moglie preferita del Profeta Maometto il cui scopo è contrastare la violenza e la discriminazione contro le donne. Aisha è un’iniziativa unica in Italia, nata a Milano due anni fa: le donne che vivono una violenza possono rivolgersi al gruppo e avere consulenza legale, terapia di coppia e individuale e, se richiesta, assistenza religiosa. La sua peculiarità è quella di operare all’interno delle comunità, coinvolgendo Imam e moschee. «Tutto nasce da una constatazione semplice: noi musulmane non siamo esenti dal problema della violenza » , dice Amina. Che rifiuta con forza di etichettare la questione come un problema religioso. «È una questione trasversale. Certo da noi c’è da fare uno sforzo in più, quello della consapevolezza: parliamo spesso con donne che non conosco i propri diritti, giuridici, personali e anche sessuali. E per questo sono passive di fronte alla violenza. Ma la religione non c’entra nulla: al massimo, viene usata come scusa».
Il progetto Aisha non è il mio primo impegno pubblico di Amina: da tempo nel Caim - il coordinamento delle associazioni islamiche di Milano e Monza - è abituata a dover difendere le sue scelte. «Sono stanca di ripetere sempre le stesse cose: che velo non vuol dire sottomissione, che chi dice che l’Islam autorizza la violenza sulle donne mente, che siamo parte della società come gli uomini. Uno si aspetterebbe che dopo tanti anni il dibattito in Italia si fosse un po’ evoluto. Ma così non è». Dopo un lancio un po’ faticoso, finora Aisha ha aiutato una ventina di donne: «Parlando anche con i mariti quando abbiamo potuto. Accompagnandole ai centri anti-violenza pubblici quando necessario. E facendole parlare con un imam, quando ce lo chiedono».
La religione
« Non discuteremo di velo, vero? » . Mohammed Ben Mohammed accompagna la frase con un sorriso bonario. Nato in Tunisia, dopo più di venti anni in Italia e alla testa di una comunità, come quella di Centocelle a Roma, che ha attraversato diverse tempeste, l’Imam vorrebbe davvero parlare di qualcosa che non fosse polemico. Se accetta di discutere della questione della violenza di genere è perché la considera «un problema vero». Ma prima di rispondere alle domande ci tiene a chiarire un punto. « L’Islam sta attraversando una fase delicata. La gente fatica a capire come vanno applicate le regole del Corano. Continuo a ripetere che conservare la visione del Profeta non significa vivere come ai suoi tempi, ma nel tempo le diverse interpretazioni della parola sacra hanno creato tradizioni che non rispettano i veri valori. Questo è valido in particolare per la situazione della donna. Con Maometto, le donne avevano un ruolo di primo piano nella società, a cominciare dalle sue mogli. Avevano anche massima libertà nella scelta dello sposo. Adesso siamo lontani anni luce da tutto questo, molto spesso le ragazze non possono dire “no”. Sono tradizioni difficili da cambiare. Ma non è la religione a prescrivere tutto questo».
L’Imam di Centocelle sa per esperienza che quella di cui parliamo è una sfida centrale per il futuro: sua figlia, Takoua Ben Mohammed, 26 anni, vignettista, è uno dei volti emergenti della comunità. Intraprendente, articolata, spiritosa. Una delle poche in grado di raccontare, con la leggerezza del suo tocco di matita e la profondità di chi ha respirato religione e politica sin da bambina, il complesso rapporto fra i giovani musulmani e la società italiana.
«Gestire i ragazzi e le ragazze al crocevia fra due mondi e due culture è difficile», sospira l’uomo. «Nascono, crescono, studiano qui ma i genitori spesso insegnano loro un’altra cultura. Bisogna capire e aiutare. Capita che le famiglie vengano a chiedere aiuto: cerco di spiegare che non si possono imporre cose ai figli. Spesso i genitori restano in silenzio: non sanno affrontare tutto questo. C’è chi non capisce che si possono conservare i nostri valori e vivere nell’Europa di oggi. È la nostra sfida».
Davanti alle storie di Alison e Zoya, di Jessica e a ai racconti delle tante altre donne con cui abbiamo parlato, Ben Mohammed stringe gli occhi e per la prima volta sembra perdere la serenità: «Non si può imporre la religione. E neanche il velo. Sono scelte. Chi sarà costretto a subirle non sarà coerente né sereno. Non è questo che ci ha chiesto il Profeta».
Dalla moschea di Centocelle al quartiere di Torpignattara ci vogliono circa 20 minuti: quattro fermate del tram che attraversa via Casilina, zona popolare della città, portano nei pressi della Pisacane, la scuola che è uno dei cuori pulsanti del quartiere. Qui gli insegnanti si trovano di fronte a problemi simili a quelli che affronta l’imam Ben Mohammed. Torpignattara è una delle zone con il tasso di immigrati più alti di Roma: da anni fra i banchi del suo istituto ci sono allievi di origine bengalese, egiziana, marocchina, ma anche dell’Europa dell’Est.
* la Repubblica, "Le storie al rallentatore" (inserto), 25.05.2018, pp. 1-8 (ripresa parziale, pp. 1-6, senza immagini).