Intervista a Colm Tòibin
«La famiglia? Un fardello da cui liberarsi»
Il popolare scrittore irlandese parla del suo nuovo libro: racconti ambientati a Dublino in cui l’istituzione familiare viene presentata nei suoi aspetti più critici. «Oggi crea alle persone più problemi che altro»
di Roberto Carnero (l’Unità, 17.01.2012)
È un titolo perfetto quello dell’ultimo libro di Colm Tòibin, La famiglia vuota (traduzione di Andrea Silvestri, Bompiani, pagine 290, euro 18,00). Si tratta di una raccolta di racconti di quello che è ormai riconosciuto da critica e pubblico come uno dei maggiori scrittori irlandesi contemporanei. Cinquantasette anni, giornalista, saggista e romanziere, tra i suoi libri tradotti in italiano ricordiamo Sud, Il faro di Blackwater, The Master, Madri e figli e Fuochi in lontananza, pubblicati da Fazi Editore, mentre da Bompiani era uscito nel 2009 il romanzo Brooklyn.
Un titolo perfetto, La famiglia vuota, perché il lettore intuisce ciò che l’autore stesso ci spiega: «Ho voluto proporre per questa silloge di storie brevi un titolo insieme referenziale ed evocativo. Nel primo significato la famiglia è vuota quando non c’è, quando è assente, quando cioè si è soli. Nella seconda accezione la famiglia è vuota nel senso che è in crisi, che non è più in grado di assolvere la propria funzione sociale, che quest’istituzione la quale un tempo offriva sostegno materiale ma anche psicologico agli individui oggi forse crea alle persone più che altro dei problemi».
I racconti affrontano temi e presentano personaggi e situazioni molto diversi tra loro. Una scenografa di successo torna a Dublino per incontrare la seconda moglie del suo grande amore, ora scomparso. Un professore di letteratura si reca per l’ultima volta da sua madre, prima che la donna muoia, per chiederle perdono della propria assenza. Un giovane immigrato pachistano cerca di affermarsi in una città che non conosce. Un attivista politico torna in Spagna dall’esilio londinese per trovare tutto cambiato.
Tòibin, c’è un elemento che unifica le diverse storie?
«Tutti i miei personaggi sono in esilio. Anche quelli irlandesi che vivono in Irlanda. Può essere un esilio fisico, ma anche psicologico, esistenziale, di cui l’essere lontani da casa, eventualmente, è soltanto una metafora».
Un esilio che potremmo definire alienazione?
«Sì, anche se toglierei a questo termine il significato che la teoria marxista gli ha attribuito. In questi racconti non mi interessava tanto affrontare una problematica storico-sociale, ma appuntare la mia attenzione sull’individualità delle storie raccontate. Questi personaggi si trovano tutti, in qualche modo, come poco adatti alla vita perché il loro passato è troppo ingombrante».
Possono essere ingombranti la propria famiglia d’origine, i propri gentori oppure la famiglia che si è andati a formare da adulti. La famiglia, dunque, come un fardello da cui liberarsi?
«Da piccoli ovviamente abbiamo bisogno dei nostri genitori: senza di loro non potremmo cavarcela. Quindi cresciamo con l’idea che la loro presenza sia essenziale. Poi, quando maturiamo, e magari a nostra volta mettiamo al mondo dei figli, si pone il problema di come relazionarci ai nostri genitori. La famiglia, come ci insegna la grande letteratura oltre che la psicanalisi, può essere un luogo felice, ma molto più spesso è un carcere da cui ci sforziamo di evadere».
Oggi in Occidente la famiglia è in crisi. Eppure una frangia avanzata e progressista come il movimento gay chiede che venga approvato il matrimonio anche tra due persone dello stesso sesso. Un paradosso?
«Apparentemente lo è, ma si comprendono facilmente le ragioni. La maggior parte delle persone desiderano vivere in modo normale, nel senso di ciò che è comunemente accettato. Se la normalità sociale è la coppia, la famiglia, la parità dei diritti per gli omosessuali passa necessariamente attraverso la conquista della possibilità di formare una coppia riconosciuta sul piano legislativo, insomma una famiglia. Penso che la politica dovrebbe affrettarsi a rispondere a questa esigenza, soprattutto nei Paesi dove la discriminazione è ancora forte».
La Chiesa che difende la famiglia tradizionale è stata travolta in Irlanda dallo scandalo della pedofilia del clero. Qual è oggi la sua credibilità nel suo Paese?
«Per troppo tempo non si è fatto nulla, perché preti e suore godevano di un rispetto sociale totale, quindi eccessivo. Il Vaticano per decenni ha insabbiato gli scandali e ciò che è accaduto è molto grave. Oggi la gente è molto critica e molto più attenta. Il prestigio della Chiesa in Irlanda è ai minimi storici. Alla messa domenicale ci va soltanto il 14% della popolazione. Il nostro governo ha criticato apertamente il Papa e ha ritirato l’ambasciatore in Vaticano. Ma la Chiesa è comunque ancora forte: ad esempio controlla gran parte delle scuole e degli ospedali. Speriamo però che tutto ciò serva a renderla meno arrogante nell’intervenire, come prima avveniva con una continua situazione di ingerenza, sui temi civili e politici».