Una nuova legge elettorale per un nuovo bipolarismo
Un esecutivo nato in Parlamento potrebbe chiudere l’era berlusconiana del «presidenzialismo di fatto» e permettere il ritorno alla Costituzione
di Francesco Cundari (l’Unità, 11.11.2011)
La Seconda Repubblica è stata fondata sul principio secondo cui i governi non nascono in Parlamento, ma nelle urne. In molti, da ultimo in occasione della recente campagna per il referendum, hanno sostenuto il diritto degli elettori a scegliere direttamente il capo del governo e la sua maggioranza. Come è evidente, se il governo Monti nascerà, né il presidente del Consiglio né la sua maggioranza saranno il frutto di una scelta degli elettori.
Questo non significa, naturalmente, che si tratterebbe di un golpe. L’Italia è una Repubblica parlamentare. La nostra Costituzione prevede che i governi nascano in Parlamento e che la nomina del presidente del Consiglio spetti al Capo dello Stato. Semmai, come ha spiegato all’Unità Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Corte costituzionale, lo strappo al nostro impianto costituzionale è venuto dalla prassi di inserire il nome del candidato premier nel simbolo elettorale prima e poi dall’introduzione, con la legge Calderoli, della figura del capo della coalizione. Forzature tese a modificare in modo surrettizio la nostra forma di governo, regalandoci quel presidenzialismo di fatto (cioè senza i contrappesi e le garanzie che equilibrano tale sistema) che è stato non per caso l’ambiente ideale in cui il berlusconismo ha potuto svilupparsi.
Da questo punto di vista, Mario Monti ha mostrato nei suoi interventi di questi anni piena consapevolezza del problema, ad esempio quando sul Corriere della sera del 2 gennaio scorso si scagliava contro quei «corposi interessi privilegiati che, pur di non lasciar toccare le loro rendite, manovrano un polo contro l’altro: veri beneficiari del bipolarismo italiano!». Si tratta di un’analisi controcorrente, ma certo non liquidabile come frutto di nostalgie per la Prima Repubblica. Il fatto è che la divisione artificiale dell’intero spettro politico in due blocchi incomunicanti ha prodotto in questi vent’anni una stabilità più simile alla paralisi che al (dubbio) mito della «democrazia governante».
Abbiamo avuto certamente governi più stabili l’ultimo talmente stabile che c’è voluto il rischio della bancarotta per mandarlo via ma sempre esposti al ricatto di forze minori, in campagna elettorale come al governo. La necessità di tenere insieme tutto, indotta dal meccanismo del bipolarismo di coalizione, ha reso quindi entrambi i poli ostaggio non solo dei partiti minori, ma innanzi tutto, come notava Monti, dei referenti sociali minori, e persino minimi, cioè di tutte le lobby, corporazioni e gruppi di interesse detentori di una quota marginale di consenso decisiva per vincere.
L’emergenza che ha reso necessaio il governo Monti è figlia della paralisi indotta da questo genere di stabilità artificiale. Pertanto, la nuova maggioranza che in Parlamento prenderà forma per sostenerlo non potrà certo proporre al Paese un’altra legge elettorale fondata sul divieto a governi nati in Parlamento, a meno di non volersi autodelegittimare. Dovrà piuttosto rendere agli elettori il potere di scegliere i parlamentari attraverso collegi uninominali, come nella maggior parte dei sistemi elettorali d’Europa (inglese, francese, tedesco). E all’Italia un sistema in cui finalmente ciascuna forza politica possa presentarsi con il proprio simbolo davanti agli elettori, e dove di conseguenza il candidato premier sia naturalmente il leader del partito più votato, come in tutti i paesi democratici del mondo (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna...).
Non si tratta di un compito facile. D’altra parte, un governo appoggiato da tutti i principali partiti appare il solo che possa raggiungere un compromesso ragionevole sulle regole del gioco, superando le forzature e gli strappi di questi anni, prima di restituire la parola ai cittadini.