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ILLUMINISMO, CRISTIANESIMO, E PLATONISMO CATTOLICO. ALLA RADICE DEI SOGNI E DEI DELIRI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA

LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo” - di Federico La Sala

Kant, sapeva - come e più di Nietzsche - che bisogna perdere “la fede in Dio, nella libertà e nell’immortalità [...] come si perdono i primi denti”, scendere all’Averno (come scrive Kant) o, che è lo stesso, all’inferno (...) Molti filosofi sono andati all’inferno, ma non ne sono più usciti; qualcuno è riuscito a venirne fuori, ma non sa nemmeno come e perché, e si illude e sogna ancora, alla Swedenborg (...)
giovedì 31 dicembre 2015
[...] Alla base della ricerca e del discorso di Kant, c’è la chiara consapevolezza di come e quanto sia urgente e necessario andare - con Newton - oltre Newton: egli si è “arreso troppo presto di fronte a ciò che giudicava il limite delle cause meccaniche, e troppo alla lesta” e - cosa ancor più grave - formulando un’ipotesi (tutta interna al vecchio platonismo), “era ricorso all’intervento di un Padreterno creatore di stelle e pianeti”(cfr. Giacomo Scarpelli, (...)

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> LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE ---- Mente e cosmo. Contro Darwin (e Kant).L’eresia di Thomas Nagel: “Per spiegare il mondo non basta la natura” (di Maurizio Ferraris).

giovedì 31 gennaio 2013

Contro Darwin

L’eresia di Nagel: “Per spiegare il mondo non basta la natura”

Il filosofo americano attacca l’idea che la scienza deterministica possa comprendere la coscienza

di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 31.01.2013)

In Mente e cosmo. Perché la concezione materialista neo-darwiniana della natura è quasi certamente falsa (Oxford University Press 2012) Thomas Nagel (uno dei maggiori filosofi americani, nato a Belgrado nel 1937, professore di filosofia e diritto alla New York University) si propone di mettere in dubbio il senso comune della nostra epoca. La sua idea è che il dibattito tra darwiniani e fautori del “disegno intelligente” dell’universo non ha provato la bontà delle tesi di questi ultimi, ma ha rivelato delle fragilità nei primi. Insomma, pur dichiarandosi ateo, e dunque escludendo l’esistenza di una mente ordinatrice dell’universo, Nagel afferma che l’ipotesi darwiniana non riesce a spiegare fenomeni come la coscienza, il sapere e i valori.

In effetti, che vantaggio c’è ad avere una coscienza, che, come diceva Amleto, ci rende vigliacchi? E come si può spiegare l’emergere dell’intelligenza dalla materia? Un difensore di Darwin come Daniel Dennett sostiene che, proprio come il vivente è composto di elementi inorganici, a cui ritornerà (nella qual cosa non troviamo niente di miracoloso), così l’intelligenza può benissimo partire da elementi non intelligenti.

Nagel tuttavia vede in questa concezione un partito preso riduzionistico, che appare ancora più evidente quando la coscienza e l’intelligenza giungono a livelli più astratti, che sembrano escludere la stessa necessità di un genere umano che li pensi. Come scriveva nel 1974 in un articolo che lo rese celebre, Che cosa si prova a essere un pipistrello? (in questi giorni tradotto come volumetto da Teodoro Falchi per Castelvecchi) «i numeri transfiniti sarebbero esistiti anche se la peste nera avesse sterminato tutti gli uomini prima che Cantor li scoprisse».

Ora, quale sarebbe il vantaggio evolutivo dei numeri transfiniti? Un neo-darwiniano come Stephen Jay Gould avrebbe detto che si tratta di effetti collaterali di un sistema nervoso centrale più sviluppato (che è in sé un vantaggio evolutivo). Nagel invece asserisce che questo è uno dei tanti aspetti del mondo che il darwinismo non è in grado di spiegare.

Il vero obiettivo del libro di Nagel, tuttavia, non è criticare il darwinismo (anche se è facile immaginare che il suo libro sarà adoperato a quello scopo), bensì, in positivo, proporre un’idea giusta e ambiziosa di una scienza più ampia, quasi di un rinato sapere speculativo nello stile dell’idealismo tedesco.

Il tratto fondamentale di questa scienza allargata consiste nel far ricorso non soltanto a spiegazioni causali (A causa B) ma anche a spiegazioni finali, ricorrendo a quella che nel gergo filosofico si chiama “teleologia”: A causa B perché lo scopo di B era C. Ad esempio, l’uomo ha sviluppato una massa cerebrale superiore agli altri primati perché era parte di un processo orientato verso un fine, quello di avere una coscienza, perché, come diceva un grande partigiano della teleologia, Dante, «fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza».

In questo appello Nagel si richiama ad Aristotele. Ma il suo vero predecessore mi sembra il Leibniz del Discorso di metafisica (1686), critico dei “nouveaux philosophes” dei suoi tempi, che volevano bandire le cause finali dalla fisica. Secondo Leibniz, il fisico che volesse spiegare la natura solo con le cause efficienti non sarebbe meno limitato di uno storico che, per spiegare la presa di una piazzaforte, non tenesse conto degli obiettivi del generale che aveva ingaggiato la battaglia ma si limitasse a dire che la polvere da sparo era riuscita a spingere un corpo duro e pesante contro le mura della piazzaforte, facendole crollare.

Ora, la richiesta di una scienza più ampia è un vasto disegno. Ma per attuarsi non ha bisogno di rinunciare a Darwin, senza contare che per evitare l’egemonia della scienza ci si può attestare su posizioni più tradizionali ma perfettamente efficaci. Per esempio quella di Putnam, che in La filosofia nell’età della scienza (a cura di Mario De Caro e David Macarthur, recentemente uscito dal Mulino) ricorda che in tantissimi campi - a cominciare dall’etica - si può e si deve fare filosofia senza la scienza, ma non contro la scienza.

Quanto poi all’esigenza di una scienza teleologica, si potrebbe osservare che le scienze naturali (e non solo le scienze sociali, dove il ricorso alle cause finali è onnipresente) sono intrinsecamente teleologiche, senza che per questo lo sia la natura. Questo lo aveva visto benissimo il Kant della Critica del giudizio: quando, con lo sguardo dello scienziato, osserviamo la natura, la consideriamo come un tutto e ne ipotizziamo dei fini.

L’epistemologia, cioè quello che sappiamo o crediamo di sapere, è intrinsecamente teleologica: se ci mostrano la sezione di un occhio non riusciamo a raccapezzarci sino a che non ipotizziamo che l’occhio è fatto per vedere, e a quel punto diviene chiara la funzione della pupilla, del cristallino, della retina. Ma l’ontologia, quello che c’è, non è necessariamente teleologica. Lo è nel mondo sociale, non nel mondo naturale a cui si riferisce l’ipotesi di Darwin.

Dire che il fine dell’occhio è vedere ci aiuta a capirne il funzionamento proprio come dire che fare gol è l’obiettivo delle squadre di calcio ci permette di capire le partite. Ma questo non ci obbliga a sostenere che l’occhio è intrinsecamente creato per vedere più di quanto ci autorizzi a dire che il naso è stato creato per sorreggere gli occhiali. Può essere un caso evolutivo.

Disponendo di un tempo lungo come quello che ci separa dal Big Bang e di un materiale grande come l’universo, si può arrivare a tutto, coscienza e numeri transfiniti compresi, proprio come la biblioteca di Babele immaginata da Borges contiene tutto, compresi il giorno e l’ora esatta della nostra morte. Tranne che questa informazione, non si sa quanto evolutivamente utile, è seppellita tra miliardi di altre ore e giorni probabili o improbabili, e miliardi di miliardi di volumi senza alcun senso compiuto.


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