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ILLUMINISMO, CRISTIANESIMO, E PLATONISMO CATTOLICO. ALLA RADICE DEI SOGNI E DEI DELIRI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA

LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo” - di Federico La Sala

Kant, sapeva - come e più di Nietzsche - che bisogna perdere “la fede in Dio, nella libertà e nell’immortalità [...] come si perdono i primi denti”, scendere all’Averno (come scrive Kant) o, che è lo stesso, all’inferno (...) Molti filosofi sono andati all’inferno, ma non ne sono più usciti; qualcuno è riuscito a venirne fuori, ma non sa nemmeno come e perché, e si illude e sogna ancora, alla Swedenborg (...)
giovedì 31 dicembre 2015
[...] Alla base della ricerca e del discorso di Kant, c’è la chiara consapevolezza di come e quanto sia urgente e necessario andare - con Newton - oltre Newton: egli si è “arreso troppo presto di fronte a ciò che giudicava il limite delle cause meccaniche, e troppo alla lesta” e - cosa ancor più grave - formulando un’ipotesi (tutta interna al vecchio platonismo), “era ricorso all’intervento di un Padreterno creatore di stelle e pianeti”(cfr. Giacomo Scarpelli, (...)

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> LA VIA DI KANT. “Storia universale della natura e teoria del cielo” --- La fine dell’universo interroga la filosofia (di Guido Tonelli)

venerdì 23 settembre 2016

      • COSMOLOGIA E ANTROPOLOGIA. AL DI LA’ DI NEWTON, CON KANT - E ARTHUR S. EDDINGTON ...


La fine dell’universo interroga la filosofia

Da tempo sappiamo che il sistema solare non sopravviverà ai 4-5 miliardi di anni di vita residua della nostra stella. Ora abbiamo imparato che l’intero insieme delle galassie si regge su un equilibrio precario che si potrebbe rompere in qualunque momento. Per fare i conti con questa gigantesca vulnerabilità dobbiamo riprendere in mano la lezione dei presocratici, di Galileo e Newton. E di Einstein

di Guido Tonelli (Corriere della Sera, La Lettura, 18.09.2016)

In un recente articolo su questo giornale («Aristotele contro Hawking», 21 agosto), Carlo Rovelli ha sviluppato con argomenti convincenti il rapporto fra filosofia e scienza. Sono d’accordo su tutto quanto ha scritto. Vorrei solo aggiungere alcune considerazioni, a partire dalla frase di chiusura: «Una scienza che chiude le orecchie alla filosofia appassisce per superficialità; una filosofia che non presta attenzione al sapere scientifico del suo tempo è ottusa e sterile».

La filosofia nasce come cosmologia: da dove nasce il mondo, quale ordine segue e quale ruolo ha l’umanità in tutto questo. Ai nostri giorni invece, sembra che prevalga la spinta a concentrare le riflessioni filosofiche sull’analisi del linguaggio, o limitarle allo studio dei meccanismi epistemologici. Tutte cose importantissime beninteso ma, a mio modo di vedere, un poco riduttive e che eludono comunque la questione di fondo. Perché la filosofia moderna non può riprendere la grande eredità dei presocratici o quella di scienziati-filosofi come Galileo Galilei o Newton per non parlare di Einstein? Valutare cioè, e sottoporre a critica, l’immagine del mondo che scaturisce dalle ricerche scientifiche più avanzate e discuterne le conseguenze sul piano filosofico, etico, culturale.

Sappiamo che, con tutti i suoi limiti, che sono enormi, la scienza costituisce la visione del mondo più dettagliata e completa di cui disponiamo. Quando nel nostro campo avvengono grandi cambiamenti e nasce un nuovo modo di guardare alle cose, prima o poi cambia tutto, per tutti.

Abbiamo visto all’opera questo meccanismo più volte. L’esempio più eclatante si è avuto ai primi del Novecento, quando un gruppo di menti eccezionali ha prodotto, in pochi anni, rivoluzioni concettuali talmente profonde da modificare radicalmente il modo di pensare dell’umanità. Relatività e meccanica quantistica hanno fornito le basi per un modo nuovo di concepire la materia e l’Universo; un cambiamento di paradigma così radicale che ancora oggi, a distanza di un secolo, facciamo fatica a comprenderlo pienamente. Nel frattempo è cambiato tutto: la vita materiale delle persone, le relazioni sociali e quelle fra individui, la cultura in ogni suo aspetto, compresi coscienza di sé e percezione del mondo. Ed eccoci a Sigmund Freud e Paul Klee, Arnold Schoenberg e Luigi Pirandello e così via.

Ma il meccanismo è tuttora in azione, perché la scienza progredisce a ritmo incalzante e vorrei citare un paio di esempi. Cominciamo col fare un salto all’indietro di 13,8 miliardi di anni, un volo dell’immaginazione che ci riporta ai primissimi istanti di vita dell’Universo bambino. Le osservazioni più accurate finora effettuate ci indicano che tutto è nato da una microscopica, infinitesima fluttuazione quantistica del vuoto. Lo stato di vuoto non è il nulla. Anzi, può forse essere visto come un qualcosa che contiene già il tutto, un po’ come il silenzio non è, banalmente, assenza di suono, ma muto contenitore di tutti i suoni possibili, vibrazioni su tutte le frequenze, perfettamente accoppiate in opposizione di fase.

Come tutti gli stati anche il vuoto segue le leggi della meccanica quantistica. Non è immobile, statico, morto; al contrario, si agita, fluttua, seguendo una dinamica rigorosamente governata dal principio di indeterminazione. Le congetture più convincenti che siamo riusciti a produrre ci dicono che dovremmo immaginare il formarsi, al suo interno, di un brulichio di infinitesime fluttuazioni: microscopiche bollicine di dimensioni inferiori a quelle delle più minuscole particelle elementari. Quasi tutte si comportano in maniera educata e discreta. Ce n’è almeno una tuttavia, che ha fin da subito un comportamento assai bizzarro.

Anziché richiudersi e ritornare allo stato fondamentale si produce in una crescita parossistica. Sotto la spinta di una particella materiale che ha preso corpo al suo interno, tutto si gonfia a una velocità spaventosa. In un tempo ridicolmente piccolo la minuscola porzione di spazio-tempo diventa un qualcosa di dimensioni macroscopiche. Ci sono ancora molti lati oscuri sul meccanismo che chiamiamo inflazione cosmica , ma alcuni punti fermi sembrano raggiunti.

Trovo meraviglioso constatare che l’energia totale dell’Universo, abbia tuttora, dopo miliardi di anni, lo stesso valore zero che aveva all’inizio. Come se questo gigantesco, incredibile dettaglio ci dicesse, parafrasando la frase del poeta: «Ma non vedete che tutto è fatto della stessa sostanza dei sogni?» (William Shakespeare, The Tempest).

Abbiamo capito bene il meccanismo che ha portato la materia a formare corpi persistenti. Ancora una volta tutto è stato definito nei primissimi istanti di vita. È passato solo un attimo e la materia che compone il nostro Universo è già tutta lì, ma la forma in cui si presenta è completamente diversa da quella cui siamo abituati. Una specie di gas impazzito di particelle elementari, prive di massa e che si muovono alla velocità della luce riempie ogni angolo dello spazio-tempo appena nato. Ed ecco che succede qualcosa di molto strano. Non appena l’espansione furibonda degli istanti iniziali si placa e l’oggetto gigantesco che ne è nato si raffredda a sufficienza, una miriade di bosoni di Higgs condensa per sempre in un campo onnipresente. Il nuovo venuto cambia tutto. Le particelle elementari, che rimangono come invischiate nel campo dell’Higgs, si differenziano fra loro a seconda dell’intensità dell’interazione, e così facendo finiscono con l’acquistare masse irrimediabilmente diverse.

Alcuni quark, rimasti leggeri, si aggregheranno con gluoni a formare protoni stabili; intorno ad essi orbiteranno i leggerissimi elettroni e si potranno formare atomi e molecole. Così si sono prodotte le enormi nebulose gassose da cui sono nate le prime stelle e poi le galassie, e i pianeti e i sistemi solari fino ai primi organismi viventi, via via sempre più complessi, per arrivare, in ultima istanza, fino a noi.

Ed ecco che appare subito un’ipotesi che fa girare la testa. È bastato chiedersi che tipo di equilibrio reggesse questo vuoto elettrodebole che ha un ruolo così importante e si è fatta una scoperta strabiliante e inattesa. L’intero Universo sembra vivere in una condizione di equilibrio metastabile: tutto danza fragile e precario, vicino all’orlo del baratro.

Bastava poco a rendere tutto totalmente instabile: un bosone di Higgs appena più leggero e la microscopica lacerazione, che si era aperta pochi istanti prima, si sarebbe immediatamente richiusa e tutto sarebbe finito prima ancora di cominciare. Ma la sottile impalcatura potrebbe cedere di schianto anche ora, in un qualunque momento. Una delle spaventose catastrofi che interessano le galassie più lontane, potrebbe mettere in gioco energie talmente elevate da produrre un collasso locale del vuoto elettrodebole, e l’intero Universo svanirebbe in un’immane bolla di pura energia.

La ricerca scientifica più avanzata sembra stabilire una relazione fra la precarietà della condizione umana e quella dell’Universo nel suo complesso. Come se la nostra fragilità di essere umani fosse il riflesso, su scala microscopica, di una precarietà cosmica che interessa tutto: perfino le gigantesche strutture materiali che ci circondano e che, a prima vista, sembrerebbero immortali. «Non illuderti d’essere immortale - canta Orazio - t’ammoniscono gli anni e i giorni che passano in un attimo».

Dalla notte dei tempi l’umanità ha cercato di superare questa condizione. Da questo scacco sono nate le religioni, le filosofie e le grandi opere d’arte; produrre qualcosa che duri millenni, che sopravviva al breve ciclo della vita di ciascuno di noi: un cerchio di pietre megalitiche, una gigantesca piramide, un poema epico o una statua meravigliosa. Qualcosa che sfidi il tempo e avvicini le opere dell’uomo all’ immortalità della Terra, e degli astri celesti.

Da tempo sappiamo che il nostro sistema solare non sopravviverà ai 4-5 miliardi di vita residua della nostra cara stella. Ora abbiamo imparato che l’intero Universo si regge su un equilibrio precario che si potrebbe rompere in un qualunque momento. Ne vogliamo discutere le implicazioni? E chi meglio dei filosofi, degli umanisti, degli artisti lo potrebbe fare? Non è certamente lavoro per gli scienziati. Mancano loro le competenze adeguate e quello sguardo lungo che è necessario avere quando cambiano paradigmi che ci hanno accompagnato dagli albori della preistoria.

E quale nuova prospettiva potrebbe nascere da questa più profonda consapevolezza della intrinseca fragilità dell’intera struttura materiale che ci circonda? Cosa vorrebbe dire, sul piano etico, fare i conti con questa condizione di radicale, irriducibile vulnerabilità? Forse, anzitutto, prendere coscienza dei propri limiti e salvare la scienza stessa da quella specie di delirio di onnipotenza che ogni tanto sento serpeggiare qua e là. O magari ricavarne nuove e più profonde motivazioni a prendersi cura dei propri simili, avere rispetto dei viventi, riparare le ferite del pianeta e guardare con occhio diverso a quell’istinto predatorio che si nasconde ancora nel profondo dell’animo umano.


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