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ILLUMINISMO, CRISTIANESIMO, E PLATONISMO CATTOLICO. ALLA RADICE DEI SOGNI E DEI DELIRI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA

LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo” - di Federico La Sala

Kant, sapeva - come e più di Nietzsche - che bisogna perdere “la fede in Dio, nella libertà e nell’immortalità [...] come si perdono i primi denti”, scendere all’Averno (come scrive Kant) o, che è lo stesso, all’inferno (...) Molti filosofi sono andati all’inferno, ma non ne sono più usciti; qualcuno è riuscito a venirne fuori, ma non sa nemmeno come e perché, e si illude e sogna ancora, alla Swedenborg (...)
giovedì 31 dicembre 2015
[...] Alla base della ricerca e del discorso di Kant, c’è la chiara consapevolezza di come e quanto sia urgente e necessario andare - con Newton - oltre Newton: egli si è “arreso troppo presto di fronte a ciò che giudicava il limite delle cause meccaniche, e troppo alla lesta” e - cosa ancor più grave - formulando un’ipotesi (tutta interna al vecchio platonismo), “era ricorso all’intervento di un Padreterno creatore di stelle e pianeti”(cfr. Giacomo Scarpelli, (...)

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> LA VIA DI KANT --- un’altra concezione di Dio è possibile, e che nel suo nome si possono compiere scelte libere, al riparo dagli effetti spesso nefasti del monoteismo (di Antonio Gnoli - La potenza del nome di Dio e quella dello Stato)

venerdì 3 giugno 2011

Un saggio di Galli e Stefani spiega come è stato declinato il comandamento

La potenza del nome di Dio e quella dello Stato

I totalitarismi del Novecento hanno provato a sostituirsi alla divinità promettendo la realizzazione del paradiso in terra e la creazione dell’uomo nuovo liberato dal male

di Antonio Gnoli (la Repubblica 3.6.11

Le nostre società, cosiddette secolarizzate, non hanno mai smesso realmente di interrogarsi sul ruolo etico, normativo, religioso e perfino politico dei Dieci Comandamenti. E non sorprende perciò che una casa editrice laica come il Mulino abbia deciso di pubblicare una serie di autorevoli interventi sui comandamenti del Decalogo. Quello dedicato a Non nominare il nome di Dio invano si avvale dei contributi del biblista Piero Stefani e dello storico della politica Carlo Galli. Si tratta di un comandamento più vicino all’avvertimento che all’imposizione. Tiene conto dell’impronunciabilità e insieme della forza evocativa che si cela dietro la parola Dio. Etimologia e teologia sono i due campi nei quali più spesso risuona il suo Nome. Ma è nella storia (o nell’alter ego della politica) che ha trovato la propria intima realizzazione.

Nel nome di Dio si scatenano guerre, si incoronano sovrani, si fanno rivoluzioni, si fondano nazioni. Ma quanto è invano o appropriato pronunciarne il Nome? Il comando - ci suggerisce Galli - è generico. Non precisa le circostanze in cui è lecito o degno dire il nome di Dio. Certo nelle preghiere, nelle invocazioni lo si esterna. Ma per il resto c’è indeterminatezza. Non sappiamo se e come invocare Dio, come farne il nostro scudo, o come sollevarlo alla nostra parola impura. Perché quel comando è senza norma. Nel senso, ci pare di intendere, che è superiore alla norma e alle leggi umane: quel Nome, infatti, proviene da Dio e non dall’uomo. È un Dio che, attraverso l’azione e la potenza, si rivela al mondo ma non coincide con esso, operando uno scarto, una distanza che la politica si incaricherà di colmare. La nascita del potere religioso risiede nel rapporto asimmetrico tra Dio e l’uomo. Quest’ultimo può solo invocare l’intervento divino e profetizzarne gli effetti, ma non può sottrarsi alla potenza del suo Nome.

È stato Thomas Hobbes tra i primi a constatare che dietro Dio c’è comunque l’uomo. La sua ardita costruzione statuale lo spinge a sostituire Dio con il Leviatano (ossia con lo Stato, con il Dio mortale). Ai suoi occhi i profeti hanno smesso di parlare per bocca di Dio; la parola non scende più direttamente fra gli uomini. Ormai Dio comunica solo attraverso l’efficacia dello Stato. Con Hobbes una nuova teologia politica punta al ristabilimento dell’ordine e della pace. E tuttavia la storia successiva mostra che «la neutralizzazione del nome di Dio è sempre incompleta». La sentenza "Dio è morto" va rivista alla luce di quelle religioni politiche che fanno della sacralizzazione del potere la loro forza simbolica. I totalitarismi del Novecento hanno cercato di sostituirsi a Dio, introducendo nei rispettivi programmi ideologici la realizzazione del paradiso in terra, e la creazione dell’uomo nuovo liberato dal male. La politica, insomma, non è più scelta razionale tra due o più opzioni, ma destino di un popolo, di una nazione, di una terra riconsacrata. Un ruolo di primo piano svolgono la violenza (sempre purificatrice) e l’arbitrio. Al vecchio emblema delle crociate - Dio lo vuole! - si sostituisce il Partito, lo Stato o il Popolo lo vuole!

Tramontata la visione mitologica della politica, superata con Kelsen e le successive liberaldemocrazie la separazione di questa dalla religione, sembra oggi riprendere forza l’uso estremizzato del rapporto tra politica e religione. Così è nella pratica terroristica del fondamentalismo islamico, come pure nelle guerre culturali dei polemisti cattolici e degli atei devoti che nel nome di Dio dichiarano la loro avversità al relativismo, in tutte le sue forme.

È possibile una diversa strada che rinunci al sigillo dell’assoluto? Galli evoca una politica laica e in difesa dei diritti umani che faccia a meno del Dio-sostanza onnipresente e onnipervasivo. Mentre Stefani ricorre a un Dio i cui precetti coincidano con i dettami della coscienza e superino la soggezione all’autorità che si macchia di un comando sbagliato. Il rifiuto del giuramento di fedeltà a Hitler di Josef Mayr-Nusser (un oscuro impiegato morto nei pressi di Dachau) o la coerenza di Dietrich Bonhoeffer, rinchiuso per resistenza in un carcere nazista e poi impiccato, mostrano che un’altra concezione di Dio è possibile, e che nel suo nome si possono compiere scelte libere, al riparo dagli effetti spesso nefasti del monoteismo.


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