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ILLUMINISMO, CRISTIANESIMO, E PLATONISMO CATTOLICO. ALLA RADICE DEI SOGNI E DEI DELIRI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA

LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo” - di Federico La Sala

Kant, sapeva - come e più di Nietzsche - che bisogna perdere “la fede in Dio, nella libertà e nell’immortalità [...] come si perdono i primi denti”, scendere all’Averno (come scrive Kant) o, che è lo stesso, all’inferno (...) Molti filosofi sono andati all’inferno, ma non ne sono più usciti; qualcuno è riuscito a venirne fuori, ma non sa nemmeno come e perché, e si illude e sogna ancora, alla Swedenborg (...)
giovedì 31 dicembre 2015
[...] Alla base della ricerca e del discorso di Kant, c’è la chiara consapevolezza di come e quanto sia urgente e necessario andare - con Newton - oltre Newton: egli si è “arreso troppo presto di fronte a ciò che giudicava il limite delle cause meccaniche, e troppo alla lesta” e - cosa ancor più grave - formulando un’ipotesi (tutta interna al vecchio platonismo), “era ricorso all’intervento di un Padreterno creatore di stelle e pianeti”(cfr. Giacomo Scarpelli, (...)

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> LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA --- Galileo guardava lontano (di Sergio Luzzatto)

domenica 13 maggio 2012

Galileo guardava lontano

di Sergio Luzzatto (Il sole 24 Ore” - Domenica, 13 maggio 2012)

Noi tutti abbiamo toccato con mano, molto recentemente, gli splendori (e le miserie) della comunicazione di una sensazionale scoperta scientifica. Settembre 2011: il Cern di Ginevra annuncia urbi et orbi i risultati di un esperimento compiuto insieme ai Laboratori nazionali del Gran Sasso, che dimostrerebbe la capacità dei neutrini di viaggiare a una velocità superiore a quella della luce. Tutto il mondo ne parla, e il ministro italiano della Ricerca scientifica si vanta di avere contribuito a una scoperta di eccezionale importanza, tale da revocare in dubbio la teoria della relatività generale di Einstein. Marzo 2012: riconoscendo un errore di misurazione, il Cern smentisce che i neutrini siano più veloci della luce. Tutto il mondo ne ride, e il direttore italiano dell’esperimento annuncia le proprie dimissioni.

È tenendo a mente questa storia di poche settimane fa - gli onori, e gli oneri di scoperte scientifiche sbandierate come rivoluzionarie - che possiamo accostarci a una storia assai più remota, ma ben diversamente decisiva. Novembre 1609: un oscuro professore di matematica dello Studio di Padova, Galileo Galilei, impiega uno strano «occhiale» per scoprire nel cielo cose inaudite, tali da revocare in dubbio un’intera visione dell’universo. Marzo 1610: Galileo rende pubbliche in un libro, Sidereus Nuncius, le sue prime sensazionali scoperte, la presenza di montagne sulla Luna, l’esistenza di satelliti orbitanti intorno a Giove. L’edizione viene esaurita in pochi giorni, mentre Venezia tutta si interroga sull’accoglienza che al volumetto sarebbe stata riservata. «Qui se ne parla in ogni angolo della città», informa l’ambasciatore inglese, sir Henry Wotton, «e l’autore corre il rischio di diventare o estremamente famoso o estremamente ridicolo».

Oggi noi sappiamo che le scoperte di Galileo lo resero famosissimo piuttosto che ridicolissimo. Ma quando ci si occupa di storia (e tanto più di storia della scienza), bisogna guardarsi dalle insidie del senno di poi, dal demone dell’anacronismo. Se ricostruita in medias res, la vicenda del telescopio di Galileo si presenta come tutt’altro che una success story annunciata, quasi inevitabile. E non soltanto perché lo scienziato pisano sarebbe stato costretto, da ultimo, a rinnegare le sue scoperte davanti al tribunale del Sant’Uffizio: anche perché, da subito, vari ambienti della Repubblica delle Scienze reagirono con diffidenza al «messaggero sidereo» e, in generale, al telescopio come strumento di nuova conoscenza.

Già nell’agosto 1609, da Napoli, un personaggio rispettato qual era Giovan Battista Della Porta aveva scritto al principe romano Federico Cesi, il fondatore dell’Accademia dei Lincei: «del secreto dell’occhiale l’ho visto, et è una coglionaria».

La vicenda del cannocchiale va studiata nello spazio, come una rete di storie orizzontali, prima ancora che nel tempo, come una trama di storie possibili: è quanto hanno splendidamente fatto Massimo Bucciantini, Michele Camerota e Franco Giudice, autori per Einaudi di un libro intitolato Il telescopio di Galileo e sottotitolato Una storia europea. Storia cominciata nei Paesi Bassi del 1608 quando un ottico di provincia, Hans Lipperhey, accoppiando una lente concava e una lente convessa inventa un dispositivo «grazie al quale tutte le cose a grande distanza possono essere viste come se fossero vicine». Storia proseguita nella Repubblica Serenissima dell’anno dopo, quando il matematico di Padova muove da un «occhiale di canna» giunto d’oltralpe per metter sotto i migliori vetrai e occhialai di Venezia, per mettersi lui stesso a molare lenti, insomma per trasformare un rudimentale aggeggio da pochi ingrandimenti in uno strumento poderoso, l’«occhiale di Galileo».

Veneziana è la settimana cruciale di questa storia: dal 22 al 29 agosto 1609, Galileo riesce a costruire un telescopio capace (scrive orgogliosamente) di mostrare un oggetto «lontano 50 miglia, così grande e vicino come se fussi lontano 5 miglia». Veneziana è la puntata successiva: Galileo che sale sul campanile di San Marco con i maggiorenti della Repubblica, li invita a scrutare nel mirino del suo cannocchiale, fa loro «scoprire in mare vele e vasselli» invisibili a occhio nudo, e il campanile di Chioggia quasi fosse a portata di mano... Veneziana è anche la puntata seguente, quella con Galileo che rivolge lo strumento verso il cielo e che in rapida successione, dal novembre 1609 al gennaio 1620, scopre le montagne della Luna e i satelliti di Giove. Ancora, veneziana è l’uscita del Sidereus Nuncius, pubblicato in 550 copie il 13 marzo di quel fatidico 1610.

Ma continentali - davvero europee - sono le puntate ulteriori della storia. Europeo è il passaparola per cui tutta una folla di astronomi professionisti o dilettanti, di matematici, di fisici, di astrologi, di ambasciatori o dignitari di corte, di prelati di Santa Romana Chiesa, di re e di imperatori in persona, dapprima attende con impazienza la pubblicazione del Sidereus Nuncius, poi si contende le copie del libretto con un’energia pari alla foga con cui cerca di assicurarsi sul mercato un «occhiale di Galileo». Ed europea è la risonanza delle scoperte galileiane, la consapevolezza immediata e diffusa che queste, se riscontrate, avrebbero inaugurato non solo una nuova cosmologia, ma una nuova antropologia: non solo un altro mondo, ma un altro modo di stare al mondo.

Impossibile seguire qui passo passo gli autori onniscienti del Telescopio di Galileo, dall’Inghilterra in cui un amico dell’ambasciatore sir Wotton -il poeta John Donne - denuncia le nuove scoperte astronomiche come un segno dell’umana protervia, alla Francia da dove un re morituro, Enrico IV, corteggia Galileo per vedersi dedicato lui pure un qualche astro del firmamento (non voleva esser da meno dei Medici, cui lo scopritore aveva intestato i satelliti di Giove); dalla Milano del cardinal Federico Borromeo, così «invaghito» di cannocchiali da voler scriverne un trattato, alla Bologna pontificia dove i detrattori universitari di Galileo presentano come fallita la verifica delle sedicenti sue scoperte, e descrivono il Nuncius come un uomo a pezzi, annichilito dallo smacco: «gli cadono i capelli», «la testa è guasta, e il cervello in preda al delirio», «i nervi ottici sono troncati, perché con troppa curiosità e presunzione ha osservato le distanze in minuti e secondi attorno a Giove».

In realtà, Galileo sapeva che la vera partita si giocava altrove: non a Bologna ma a Praga, la Praga dell’imperatore Rodolfo II d’Asburgo e del matematico di corte Johannes Kepler, cioè l’astronomo più autorevole del suo tempo. Galileo sapeva che un endorsement di Keplero avrebbe spalancato un orizzonte di gloria così alle nuove come alle nuovissime sue scoperte (dopo le montuosità lunari e i pianeti medicei, il telescopio gli aveva rivelato anche qualcosa come gli anelli di Saturno, e poi le fasi di Venere); mentre un giudizio negativo avrebbe rinfocolato la polemica intorno sia ai limiti tecnici dell’osservazione telescopica, sia ai limiti teorici della cultura ottica di Galileo.

Con l’onestà intellettuale dello scienziato di razza, il tedesco Keplero finì effettivamente per rendere pubblica una sua adesione alla rivoluzionaria cosmologia suggerita, grazie al cannocchiale, da quel collega italiano tanto meno celebre di lui. E incominciò allora un’altra storia, ben nota, questa: la storia di Galileo trionfante, strapagato dai Medici per lasciare la Repubblica di Venezia e ritornare nel Granducato di Toscana quale matematico e addirittura filosofo di corte; la storia di Galileo caduto, sorvegliato dall’Inquisizione, processato come copernicano, sospinto all’abiura.

Nell’anno di grazia 1611, la caduta sembrava ancora di là da venire. Il 22 aprile il «messaggero sidereo» fu ufficialmente ricevuto, a Roma, dal papa Paolo V, che neppure «una parola» gli chiese di dire «in ginocchioni». Il fatto è che non in pubblico, ma in privato la Chiesa affilava le armi, per vendicare una fede che la scienza di Galileo - spostando l’uomo fuori dal centro del mondo - pareva drammaticamente minacciare.

Fin dall’estate del 1610, corrispondendo con un amico, il protonotario apostolico Bonifacio Vannozzi (futuro segretario di Paolo V) aveva dettato la linea: «Che la Luna sia terrea, con valli e colline, è tanto dire che vi son degli armenti che vi pascono e de’ bifolchi che la coltivano. Stiancene con la Chiesa, nemica delle novità da sfuggirsi, secondo l’ammaestramento di S. Paolo».


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