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PSICOANALISI E RELIGIONE (SAPERE E ILLUSIONE). IL PROBLEMA DEL POTERE DELL’ANIMA (E DELL’ANIMA DEL POTERE), DELLA CREATIVITA’ (E LEGALITA’ E ILLEGALITA’).

FANTASIA, ATTENZIONE, IMMAGINAZIONE: L’ANIMA E LA RICERCA INTERIORE (E NON SOLO). Alcune pagine dall’ultimo saggio di James Hillman - a cura di Federico La Sala

Solo un’attenzione devota e fedele può trasformare la fantasia in immaginazione.
giovedì 7 ottobre 2010 di Federico La Sala
[...] Questa attenzione fedele al mondo immaginale, questo amore che trasforma le pure immagini in presenze, fa di esse degli esseri viventi o, per meglio dire, rivela che l’essere vivente che naturalmente contengono non è nient’altro che la «ri-mitologizzazione». I contenuti psichici diventano «poteri», «spiriti», «dèi». Sentiamo la loro presenza, come la sentivano in passato tutte le persone che avevano ancora anima. Queste presenze, questi poteri, sono i nostri equivalenti (...)

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>ADDIO A HILLMAN. Il grande psicanalista americano si è spento a 85 anni. Articoli di Silvia Ronchey, Umberto Galimberti e un’intervista a Roberto Calasso.

venerdì 28 ottobre 2011


-  Addio a Hillman
-  così si muore da filosofo antico

-  Il grande psicanalista americano si è spento a 85 anni
-  Malato di cancro, ha rinunciato alla morfina per ragionare fino all’ultimo con i discepoli sulla sua esperienza estrema

UN NUOVO MODO DI PENSARE "Ci dava non solo le risposte ma le domande. Le correggeva, le guariva dalla loro inerzia"

UN TACCUINO VICINO AL LETTO La moglie trascriveva le parole che pronunciava nel sonno per poi analizzarle insieme

di Silvia Ronchey (La Stampa, 28.10.2011)

THOMPSON (CONNECTICUT) «James è morto questa mattina a casa, a Thompson. È rimasto fedele a se stesso fino alla fine». Così, dal Connecticut, in un messaggio email indirizzato ai famigliari e agli amici più stretti, Margot McLean ha annunciato ieri la scomparsa di suo marito, James Hillman. Il grande psicanalista americano, nato a Atlantic City 85 anni fa, era da tempo malato di cancro. In un altro messaggio di pochi giorni fa la moglie aveva informato che «James ci sta lasciando con magnifica grazia», e in un altro ancora aveva scritto che «parla in molte lingue, a volte per tutta la notte. Sorride e continua a essere incredibilmente spiritoso».

Lo psicanalista e filosofo americano James Hillman era nato nel 1926. Allievo di Carl Gustav Jung, è stato il fondatore della psicologia archetipica. È autore di oltre venti libri tradotti in 25 lingue I 10 libri fondamentali Il suicidio e l’anima (Suicide and the Soul, 1964), Astrolabio-Ubaldini 19992; Adelphi 2010 Saggio su Pan (An Essay on Pan, Adelphi 19822 1972), Il mito dell’analisi (The Myth Adelphi 19913 of Analysis, 1972), Re-visione della psicologia (Re-visioning Psychology, 1975), Adelphi 19922 Il sogno e il mondo infero (The Dream and the Underworld, 1979), a cura di Bianca Garufi, Ed. di Comunità, Milano 1984; Il Saggiatore, Milano 19962; Adelphi 2003 Il codice dell’anima: carattere, vocazione, destino (The Soul’s Code, 1996), Adelphi 1997 L’anima del mondo (con Silvia Ronchey), Rizzoli 1999; Bur 20042 La forza del carattere: la vita che dura (The Force of Character and the Lasting Life, 1999), Adelphi 2000 Il piacere di pensare (con Silvia Ronchey), Rizzoli 2001; Bur 2004 Un terribile amore per la guerra (A Terrible Love of War, 2004), Adelphi 2005

“Socrate, sei come una torpedine marina. Quando parli dai la scossa», è scritto in un dialogo di Platone. James Hillman, fra i massimi pensatori dei nostri tempi, aveva una personalità socratica. Ci insegnava a conoscere noi stessi, secondo il motto inciso sul marmo di Delfi. Si metteva sempre in contrasto con l’opinione corrente. E aveva una grande esperienza nel dialogo. Ogni volta che si dialogava con Hillman ci si trovava in contatto con quell’ironia socratica, quella capacità di rovesciare ed elettrizzare ogni discorso, che è propria di chi ha inventato un nuovo pensiero e un nuovo modo di far pensare gli altri, sovvertendo completamente le loro abitudini logiche e psicologiche. Hillman ci dava non solo e non tanto le risposte, Hillman ci dava le domande.

Correggeva le nostre domande, le guariva dalla loro inerzia e dalla loro patologia. Da anni aveva scelto di psicanalizzare non più singoli pazienti, ma tutti noi. Era un terapeuta della psiche collettiva, aveva preso in cura l’Anima del Mondo. Meraviglioso scrittore, ispirato oratore nelle prodigiose conferenze tenute per tutta la vita in tutto il mondo, Hillman era un cosmopolita. Aveva studiato alla Sorbona e a Dublino, era stato allievo di Jung a Zurigo, alla sua morte aveva diretto lo Jung Institut.

Conosceva non solo molte lingue - incluse quelle morte, come il greco antico degli dèi pagani che amava e frequentava - ma anche il linguaggio dell’inconscio, la lingua dei sogni, il dialetto dei simboli e delle immagini. Non era solo «cittadino del kosmos », del mondo ordinato del visibile, ma anche e forse soprattutto un cittadino del sottomondo , di quell’universo di fantasie, archetipi e miti, di quell’universo sotterraneo, fatto a strati come le rovine dell’antica Troia scavata da Schliemann, che sta dentro ognuno di noi, e che sta anche intorno a noi, sebbene pochi sappiano vederlo.

A questo secondo kosmos di cui era cittadino Hillman aveva dedicato i suoi molti libri, pubblicati in tutte le lingue, che hanno fatto dell’autore stesso un mito. Sono veri capisaldi del Novecento libri come Il suicidio e l’anima o il Saggio su Pan oIl mito dell’analisi o la Re-visione della psicologia oIl sogno e il mondo infero , per non parlare degli ultimi grandi bestseller internazionali, dal Codice dell’anima a La forza del carattere aUn terribile amore per la guerra . Chi ha letto i libri di Hillman sa che chi li aveva pensati e scritti non era solo uno scrittore e un pensatore, ma era, come lo aveva definito un celebre critico americano, «uno dei più veri e profondi guaritori spirituali del nostro tempo».

Era questo che faceva, con i suoi libri, le sue conferenze, le verità aggressive, le idee sempre corrosive e eversive che ci offriva: vivificare le nostre menti e le nostre anime, rimetterle in contatto con le loro origini. Quando parlava o scriveva, rovesciando luoghi comuni e abitudini mentali, ci istigava a praticare una conoscenza che andasse anche al di là e al di qua del pensiero razionale.

Lo ha fatto fino all’ultimo istante della sua vita. Nella sua casa di Thompson, nel Connecticut, ha continuato a dialogare con una piccola cerchia di seguaci, amici e discepoli dalle estrazioni più varie, accomunati dalla pluriennale venerazione per lui e da quello che gli antichi greci avrebbero chiamato l’amore per la sophia , ossia, appunto, la filosofia. La sua è stata non solo una morte filosofica, ma da filosofo antico, l’ ars moriendi - anche se non voleva la si chiamasse così - di un laico, pagano maestro di intelletto e soprattutto di anima. Perché alla scommessa, pacata e implicita, di restare pensante, lucidamente pensante e dialogante, di spingere la ricerca razionale fino all’estrema soglia della biologia, si sommava un’incessante attività di ricerca interiore, di introspezione psicologica: un esercizio estremo di quella «visione in trasparenza» di cui aveva parlato nei suoi scritti, e che lo ha portato all’ultima frontiera dell’io in uno stato di continuo ascolto dei messaggi della psiche, e non solo di quella conscia. Uno stato infero, ma sublime, nel senso etimologico latino del termine, sub limine , alla soglia, sul confine.

L’inesauribile curiosità per quello stato, che lo animava e di cui continuamente parlava come di una condizione nuova e sorprendente, era mantenuta a prezzo di un ridotto dosaggio di morfina e dunque di una sofferenza fisica affrontata con assoluto coraggio ma senza ostentazione né retorica, per non rischiare, come diceva, di peccare di hybris . Del resto, con la concentrazione e la lucidità che perseguiva in modo tanto accanito quanto stupefacente, anche il dolore era analizzato in termini sia filosofici sia psicologici, e molto spesso - in sintonia con un altro dei suoi grandi interessi di studio - in termini alchemici.

Le immagini del processo di dissolutio e coagulatio e la descrizione in quel linguaggio di altre condizioni psichiche che via via si affacciavano - la rubefactio immaginativa, che precede la sublimazione nell’estrinsecazione della bellezza, la figura della rotatio , nel cui ciclo non si può mai dire cosa è superiore e cosa inferiore - dominavano spesso la parte più strettamente introspettiva e psicologica della sua analisi del morire.

Uno dei grandi blocchi americani di carta rigata gialla era sempre accanto al suo letto, perché chi si avvicendava a vegliare il suo sonno - Margot, la stoica, coraggiosa moglie, ma anche gli allievi e amici - potessero raccogliere e trascrivere le parole che pronunciava in sogno, per poi leggergliele al risveglio e analizzarle insieme a lui.

Anche in questo esercizio adottava il sistema maieutico del dialogo, e l’ispezione del profondo portava a un’estroflessione e quasi condivisione dell’anima, a dimostrazione di un’altra delle grandi verità che aveva elaborato nella sua opera, prendendo spunto dai pensatori antichi, platonici e neoplatonici: che noi siamo dentro l’anima, e non l’anima in noi, che l’anima è uno spazio fluido che si può condividere. Se l’anima individuale si fa nel mondo (il concetto del «fare anima», tratto dalla definizione che Keats aveva dato del mondo come «la valle del fare anima»), noi tutti partecipiamo dell’Anima del Mondo.

Diceva che le parole gli alleviavano i dolori delle ossa come i cuscini che gli venivano continuamente sistemati nel letto da cui, come sapeva, non si sarebbe più rialzato, e che era stato portato in salotto, al centro della casa, di fronte alla grande vetrata aperta sull’abbagliante autunno del New England. Su un tavolino, a disposizione di chiunque volesse leggerle, una raccolta di poesie giapponesi sulla morte scritte da monaci zen o da autori di haiku. «Una radiosa gradevole / giornata d’autunno per viaggiare / incontro alla morte».


Dall’analisi di Jung ai miti greci addio al poeta dell’anima

Il celebre studioso è scomparso all’età di 85 anni. Aveva allargato l’orizzonte della psicoanalisi convinto che oggi il malessere individuale affondi nella società Individua l’origine della sofferenza nell’incapacità di pensare agli altri con il cuore Ha superato l’insegnamento dei maestri, puntando uno sguardo lucido e critico sul mondo

di Umberto Galimberti (la Repubblica, 28.10.2011)

Chi era James Hillman? Lo psicoanalista che ha allargato l’orizzonte della psicoanalisi al di là della condizione e della sorte dell’anima individuale, partendo dalla persuasione, che quella che oggi va curata è, come lui la chiamava: l’"anima mundi" che ha perso il mondo immaginale, per raccogliersi nel chiuso di una ragione solo concettuale, dove non è più possibile rintracciare quella capacità immaginativa del cuore che sa che cos’è l’amore, la bellezza, la giustizia, e quella verità interiore di cui abbiamo perso sia l’origine, sia la traccia.

Esiste certo un malessere dell’individuo, ma le sue radici oggi non vanno cercate tanto nella sua infanzia, che induce spesso una condizione solipsistica e impotente di sé, ma nel modo con cui l’individuo interiorizza la società in cui vive, le sue forme di potere, la conflittualità che la percorre, l’habitat che lo circonda perché, scrive Hillman. «Io non sono, se non in un campo psichico con gli altri, con la gente, gli edifici, gli animali, le piante».

E allora cos’è quel Terribile amore per la guerra (Adelphi) che aveva reso così inquietante la corrispondenza tra Freud e Einstein? Cosa sono quelle Forme del potere (Garzanti) che fanno smarrire a ciascuno di noi la nozione di "cittadino", che sempre più maschera la nostra condizione di impotenza? Che ne è de La forza del carattere (Adelphi) che rischiamo di conoscere solo nella vecchiaia, quando più nessuno si occupa di noi e, riflettendo, ci accorgiamo che di noi ci si occupava solo a partire dalla nostra efficienza e produttività: puri funzionari d’apparato senz’anima.

E l’Anima (Adelphi), questa parola intorno a cui ruota tutta la riflessione hillmaniana, nulla ha a che fare con sfondi religiosi e neppure con il dualismo platonico e il suo bimillenario conflitto col corpo. L’"anima" di Hillman non è neppure solo la controparte sessuale di ciascun di noi come il suo maestro Jung aveva insegnato, ma è, come lui scrive, quella «fede nelle immagini e nel pensiero del cuore che porta a un’animazione nel mondo. Anima crea attaccamenti e legami. [...] Guardandomi indietro, mi sembra che Anima sia stata alla base di tutto il mio lavoro».

Se la società, nel modo con cui è strutturata e nelle modalità con cui fa vivere gli individui è, più dell’infanzia, la responsabile della sofferenza di cui si occupa Il mito dell’analisi (Adelphi) è perché la nostra società non ha più anima, più non conosce le relazioni tra gli uomini, se non come relazioni di interessi e di profitto, più non si commuove per il dolore del mondo, più non sa immaginare tutto ciò che non rientra nella concettualità, nella funzionalità e nel calcolo delle utilità, in cui ciascun individuo è costretto a vivere, smarrendo quel pensiero del cuore, come scrive Hillman ne L’anima del mondo e il pensiero del cuore (Adelphi), di cui erano capaci i Greci che pensavano col cuore.

Di qui il recupero hillmaniano della mitologia greca non per un intento filologico o erudito, ma per mostrare come "si pensa col cuore", quindi non per concetti, ma per immagini. Apprendiamo così dal suo Saggio su Pan (Adelphi) cos’è il panico, la masturbazione, l’incubo, la seduzione delle ninfe, così come da La giustizia di Afrodite (Edizioni La Conchiglia) apprendiamo come inscindibile sia la bellezza dalla bontà e dalla verità. Concetti che la cultura cristiana ha separato, mentre il mito e la filosofia greca tenevano ben saldi nella parola kalokagathon, bello e buono insieme.

Perché la "vera" bellezza è nella bontà che trasfigura il volto e rende lo sguardo sereno. In gioco qui non c’è la verità concettuale della scienza o della filosofia e ancor meno quella dogmatica delle religioni, ma quell’essere pervenuti alla conoscenza di sé, a cui invitava l’oracolo di Delphi, perché in ciascuno si creasse quell’armonia interiore in cui si radica bellezza. Ma siccome per il Greco antico la bellezza individuale non è raggiungibile senza una Politica della bellezza (Edizioni Moretti & Vitali), di nuovo ritorna il motivo che solo una società ben governata può ridurre la sofferenza di tanti individui.

Ma perché questo ritorno alla Grecità, già percorso da Hölderlin, Nietzsche, Heidegger? Non per motivi poetici o filosofici, ma per resuscitare quel politeismo della mitologia greca che, a differenza del modello monocentrico della cultura giudaico-cristiana che tanto ha influenzato la psicoanalisi di Freud, consente di recuperare quella dimensione policentrica, così essenziale oggi, dove la confluenza delle culture chiede una disposizione dell’anima che consenta quella tolleranza e quell’accoglienza che solo il relativismo, di cui le religioni sono incapaci, sa concedere.

«Gli dèi morirono dal gran ridere quando udirono che un Dio voleva essere il solo» scrive Nietzsche. Hillman non raccoglie sarcasticamente e neppure polemicamente questo riso, ma ci propone tutti gli dèi, celesti e inferi, non come semplici espressioni delle passioni umane e quindi iscritte nella "patologia" («Gli dèi sono diventati malattie» ebbe a scrivere Jung), ma per restituirli alla "mitologia", dove nessun dio vuol essere il solo, perché, nonostante La vana fuga dagli déi (Adelphi) propria dell’Occidente cristiano, indispensabili sono le figure mitologiche in cui l’anima può rispecchiarsi e, rispecchiandosi, avere un’immagine di sé, per non vivere alla cieca, a propria insaputa.

Non si legga Hillman solo per la potente seduttività della sua scrittura. A percorrerla per intero c’è una radicale revisione dello scenario psicoanalitico, a partire dalla persuasione che, se l’uomo è un animale sociale, non c’è sofferenza individuale disgiunta dal mondo in cui si vive. Ed è su questo mondo e sulla sua anima che Hillman ha puntato il suo sguardo lucido e critico.


Il suo editore italiano lo racconta: "Per energia e slancio era un puer"

Calasso: "Un pensatore originale e solitario"

"Certamente non era un uomo da scuole. Ma è impossibile liquidarlo come un brillante bricoleur"

di Luciana Sica (la Repubblica, 28.10.2011)

Roberto Calasso è a Barcellona, in una libreria. Controlla la data del primo libro che ha pubblicato di James Hillman, Saggio su Pan, era il ’77. «Ma poi sono usciti i suoi due saggi fondamentali: Il mito dell’analisi nel ’79 e Revisione della psicologia nell’83...».

Ma quando l’ha conosciuto?

«All’inizio degli anni Settanta, ad Ascona, durante i colloqui di Eranos. Lì c’era gente come Scholem, Corbin, Portmann, Eliade e ricordo come mi è apparso lui: l’unico americano e però perfettamente addentro a tutto il tessuto della cultura europea, era anche il più giovane, ma con una grande intensità e una grande autorità naturale».

Interloquiva con il fior fiore degli intellettuali...

«Ah sì, certamente. Non era affatto in soggezione».

Aveva tutta l’aria di un puer, qualcosa di fanciullesco...

«Fanciullesco forse è troppo dire... Ma sì, era un puer, con un suo slancio molto evidente, di energia e anche di giovinezza».

Il vostro rapporto ha avuto anche una natura affettiva?

«Fin dall’inizio è stato così, e ho seguito le varie fasi della sua vita. Èstato un rapporto molto buono, con le vicissitudini editoriali che si possono immaginare: un libro che ritarda o che si deve rifare, ma è andato sempre tutto bene. L’ultima volta l’ho visto un paio di anni fa, a Milano - veniva spesso in Italia, dov’era più conosciuto che nel suo Paese».

È stato uno psicoanalista o piuttosto un grande umanista?

«È stato il primo e forse l’ultimo di quelli che sono partiti da Jung facendo poi un percorso unico, originale, mentre gli altri sono rimasti più o meno prigionieri di quella che era la loro origine».

Allievo diretto di Jung, Hillman muore esattamente cinquant’anni dopo il maestro zurighese. Che ha "tradito", o no?

«Beh, è una storia complicata. Perché Hillman ha anche diretto l’Istituto Jung fino a quando non l’hanno cacciato via... ».

Ma è stato lui stesso a dire di aver avuto "una crisi di fede", inventando poi la "psicologia archetipica", ribattezzata a dispetto del ridicolo "una terapia degli dei". Lei come la vede?

«Io vedo lui molto solitario, sia in America che in Europa, non un uomo da scuole... La cosa importante è stata il suo modo di rovesciare il rapporto con il mito in genere: non pretendere da psicoanalista di spiegare il mito, che sarebbe stata un’operazione ingenua. E’ il mito che spiega noi, e Hillman ha seguito questa idea con la stessa analisi, dove ad agire - lui dice - è il mito apollineo...».

Contro la parola, il Logos, il cuore della psicoanalisi e della cultura occidentale... Ma non era un po’ troppo quando voleva "stendere l’anima del mondo sul lettino e rimanere in ascolto delle sue sofferenze"?

«"Anima" è la parola chiave per capire Hillman, un’anima che insieme è interna ed esterna, appartiene anche al mondo proprio della natura, non della società e neppure del collettivo».

Qualcuno l’ha liquidato come "un brillante bricoleur".

«Lévi-Strauss diceva che i miti stessi sono un’operazione di bricolage, ma poi ha passato l’intera vita a tentare di capire com’era fatto quel bricolage... Mi spiace non fargli omaggio del libro per gli amici che facciamo a fine anno, una specie di bibliografia ragionata di opere neoplatoniche a partire dal Quattrocento fatta da un grande libraio antiquario che è Paolo Pampaloni e Marco Ariani, uno dei curatori della nostra Hypnerotomachia Poliphili. E’ ancora in bozze, purtroppo non abbiamo fatto in tempo».


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