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COSMOLOGIA E CIVILTÀ. "PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA

KARL MARX RISPONDE A SALVATORE VECA, PRENDE LE DISTANZE DA ENGELS E RENDE OMAGGIO A FULVIO PAPI. Alcune precisazioni sulla sua intervista impossibile - raccolte da Federico La Sala

Salvatore Veca “intervista” Karl Marx: «Uno spettro si aggira per il mondo: sono io».
giovedì 8 novembre 2018
[...] Il mio invito fraterno, da compagno, è: sveglia! E’ ora di smetterla con i vecchi divertimenti di intellettuali di molti (non quattro) soldi, asserviti all’industria culturale del padrone di turno. Basta! Che “il mio faccione” - come dici - sia “tornato in giro per il mondo”, certamente non è il mio: è il vostro! Io sono sempre stato sempre con voi, nel presente - anche nel vostro presente! Solo che voi, immersi nel “sonno dogmatico” della (...)

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> KARL MARX RISPONDE ---- I lavoratori, i robot e i signori della rapina (di Paul Krugman)

lunedì 17 dicembre 2012
Se il vasto mondo dei keynesiani (di destra, di sinistra, di sinistra sedicente rivoluzionaria) fosse consapevole della valenza delle affermazioni di Krugman, che è uno dei più prestigiosi esponenti di questo mondo, apporrebbe istantaneamente la firma all’atto formale della sua morte culturale. Infatti, quando Krugman afferma che “la tecnologia ha preso una piega che colloca in posizione di netto svantaggio la manodopera” spiegando attraverso questo fenomeno strutturale perché “gli utili si sono impennati come frazione del reddito nazionale, mentre i salari e le altre retribuzioni della manodopera sono in flessione”, egli stesso certifica come il meccanismo keynesiano di incentivo alla produzione attraverso la spesa pubblica sia definitivamente diventato un ferro vecchio inutilizzabile. Vediamo perché. L’immane sviluppo della produzione capitalistica sostenuto dai meccanismi produttivi del fordismo (le linee di montaggio semiautomatiche assistite dal lavoro operaio parcellizzato e serializzato) è risultato sostenibile perché quella produzione impattava con una ricettività del mercato alimentata da un monte salari di massa sufficientemente ampio (in Italia 481 mld nel 2010, pari a circa 1/3 del Pil) e da una spesa pubblica che trovava nelle tasse e contributi del lavoro dipendente la sua base fondamentale di sostegno (1/4 circa della spesa pubblica è stato alimentato in Italia nell’ultimo decennio da tasse del lavoro dipendente e contributi, senza considerare la tassazione delle pensioni comunque rapportabili al monte salari). In definitiva, quindi, è il monte salari che attraverso la sua tassazione e attraverso la spesa individuale della parte residua dopo la tassazione permette alla merci di trovare un compratore che, a seconda del tipo di consumo, può essere individuale o collettivo. Questo meccanismo, congegnato sulla creazione di merci contemporaneamente alla creazione del loro mercato, ha avuto una sua solida continuità a partire dal new-deal per attraversare poi tutto il dopo guerra fino al compimento della rivoluzione informatica del primo decennio di questo secolo. Durante l’evolversi di questo sistema di accumulazione (produzione di ricchezza finalizzato ad un suo preminente trasferimento verso i detentori di capitale) la spesa pubblica funzionava da motore del processo innescando nuovi processi produttivi, nuova occupazione e nuovo mercato per le merci prodotte . Il debito pubblico necessario alla funzionalità del sistema non destava preoccupazioni verso la sua sostenibilità sia perché la crescita reale era sempre superiore all’indebitamento reale necessario per sostenerla, sia perché questa crescita armoniosamente si sposava con un continuo allargamento della base occupazionale che garantiva un espansivo prelievo fiscale e contributivo assicurando così un volano al sistema che, dunque, pareva inattaccabile. Dal compimento della rivoluzione informatica, però, il meccanismo si è incrinato: come ha ben spiegato Krugman la produzione è risultata da quel momento possibile senza l’aumento delle forze lavoro ma, invece, attraverso una sempre crescente automazione e robotizzazione. Anche le attività collaterali alla produzione hanno risentito di questa spinta all’automazione indotta dall’evoluzione tecnico-scientifica dei sistemi contabili, di assistenza alla clientela, perfino della mera distribuzione delle merci (si pensi alle casse sempre più automatizzate delle grandi superfici commerciali). Il risultato di tutto questo è stato che la crescita della produzione e della distribuzione delle merci sono risultate possibili senza crescita dell’occupazione. Nessuna meraviglia, allora, che in questa situazione una quota crescente di ricchezza si sia spostata dai salari ai profitti: se l’aumento della quantità di merci è garantito senza aumento del monte salari è evidente che il differenziale di crescita va tutto nelle tasche dell’investitore. Tutta bene per il capitalismo, allora? Mica tanto. I profitti sono aumentati, ma quando essi hanno dovuto essere reimpiegati si sono posti il problema dei problemi per un capitale investito: l’investimento tornerà nelle mani dell’investitore accresciuto di una debita proporzione? Poiché il monte salari è nel frattempo sceso, la domanda individuale dei beni è proporzionalmente scesa e così anche la domanda collettiva incrinata dalla crisi fiscale dei moderni apparati statali colpiti dalla diminuzione del monte salari su cui stabilire la tassazione. Il mercato, la cosiddetta domanda aggregata, è risultato così non più ricettivo verso la crescita della ricchezza reale e il capitale ha così preso la strada della finanza cercando, per questa via, di realizzare i profitti che l’apparato produttivo ormai non assicura più a causa del mercato più ristretto a cui si rivolge. I keynesiani di ogni risma, a fronte di questa crisi di cui vedono gli effetti ma non le cause, lanciano alte e stridule grida perché i governi delle economie capitalistiche facciano ripartire il sistema con iniezioni si spesa pubblica come il new-deal ci ha insegnato. Non calcolano costoro che, anche iniettando ricchezza e liquidità nel sistema, i proventi di questo rilancio economico si ripartirebbero in maniera sperequata tra salari e profitti, approfondendo, invece di sanare, la crisi in corso. Chi potrebbe impedire ai costruttori di automobili a fronte di una ripresa delle vendite indotte da pubblici incentivi di organizzare la produzione verso nuovi sistemi automatici che abbisognino di meno manodopera? Nessuno, evidentemente; così approfondendo la crisi fiscale dello Stato ottimo sovvenzionatore ma pessimo beneficiario di questo new-deal fuori tempo massimo. La verità è che il capitalismo è arrivato ad uno di quei nodi di svolta della storia per cui o inventa qualcosa di nuovo o imbocca la strada del deperimento causa il restringimento del mercato a cui ha dato origine. E’ un nodo della storia non dissimile da quello che il capitalismo visse, in un’altra economia basata sul valore delle merci prodotto dal lavoro operaio, quando la caduta tendenziale del saggio di profitto costringeva al continuo allargamento della base territoriale di ogni sistema mercantilistico nazionale. La risposta dei vari capitalismi nazionali a quella crisi fu il tentativo di allargare la base territoriale dei vari mercati (Imperialismo fase suprema del capitalismo) da una parte, o quella praticata dal capitalismo fordista basato sull’intensità produttiva e la spesa pubblica di ispirazione keynesiana. Vinse, per fortuna, la seconda opzione, ma anche questa, come tutte le cose di questo mondo è arrivata ad un limite che non riesce a superare: la crisi di prospettiva di ulteriori guadagni cozza per il capitale con un mercato non più espansivo, nonostante i guadagni enormi degli ultimi 20 anni. Nessun dubbio che il capitale cercherà vie d’uscita da questa situazione, ma non è affatto detto che queste vie d’uscita coincidano con un allargamento della ricchezza di massa come il capitalismo fordista ha potuto assicurare negli ultimi 70 anni. Meglio sarebbe che la sinistra mondiale smettesse di invocare giustizia come se questa potesse scendere dalle stelle alla stalle e si adoprasse per condizionare la grande capacità produttiva dell’umanità (non del capitalismo) a forme meno legate al prelievo di plusvalore dovunque esso si formi. Poiché il capitalismo usa, gratuitamente, risorse sociali come il sapere, come la conoscenza scientifica, per organizzare la sua produzione è probabilmente dalla riappropriazione sociale di questo sapere che la sinistra dovrebbe partire. Un Marx meno ovvio e desueto di quello della caduta tendenziale del saggio di profitto potrebbe parlarci della fine del valore di scambio e di come “il furto di lavoro altrui... si presenta come una base miserabile in confronto a questa nuova base creata dalla grande industria stessa”*. Forse se questa riflessione cominciasse davvero potrebbe finire lo sconcio di operai comunisti mandati in piazza da “intellettuali” “comunisti” a chiedere nuove manovre keynesiane dimenticando che Keynes è stato lo strumento per arricchire i capitalisti del XX secolo attraverso lo sfruttamento serializzato del lavoro operaio deprofessionalizzato. * K. Marx; Grundrisse I; Giulio Einaudi Editore (1976), p.717

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