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COSMOLOGIA E CIVILTÀ. "PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA

KARL MARX RISPONDE A SALVATORE VECA, PRENDE LE DISTANZE DA ENGELS E RENDE OMAGGIO A FULVIO PAPI. Alcune precisazioni sulla sua intervista impossibile - raccolte da Federico La Sala

Salvatore Veca “intervista” Karl Marx: «Uno spettro si aggira per il mondo: sono io».
giovedì 8 novembre 2018
[...] Il mio invito fraterno, da compagno, è: sveglia! E’ ora di smetterla con i vecchi divertimenti di intellettuali di molti (non quattro) soldi, asserviti all’industria culturale del padrone di turno. Basta! Che “il mio faccione” - come dici - sia “tornato in giro per il mondo”, certamente non è il mio: è il vostro! Io sono sempre stato sempre con voi, nel presente - anche nel vostro presente! Solo che voi, immersi nel “sonno dogmatico” della (...)

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> KARL MARX RISPONDE --- "Intervista immaginaria" di Donald Sassoon e la "Storia del marxismo" coordinata da Stefano Petrucciani. Una nota di Luciano Canfora.

giovedì 10 dicembre 2015


Illusioni e intuizioni di Marx

Sbagliò come profeta rivoluzionario ma capì che il capitalismo è un apprendista stregone

di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 9.12.2015)

Castelvecchi ha pubblicato la Intervista immaginaria con Karl Marx di Donald Sassoon, aggiornata dall’autore dopo la recessione globale. Il focus è lo scambio di battute in cui Marx vanta le sue parole d’ordine («“Lavoratori di tutti i Paesi unitevi, non avete altro da perdere che le vostre catene” è meglio di tutto quello che gli strapagati e decerebrati spin doctors di Downing Street sono in grado di inventarsi») e Sassoon gli risponde: «Ma l’idea che oggi i lavoratori non abbiano niente da perdere è assurda»; e Marx ammette: «Ha ragione. I vostri lavoratori europei e nordamericani ora hanno un sacco da perdere. Ai miei tempi erano ancora trattati in modo abominevole. La lotta socialista presenta una contraddizione inevitabile. Dobbiamo lottare per le riforme, ma ogni conquista indebolisce la volontà rivoluzionaria dei lavoratori».

Nei primi anni Venti del Novecento, Lenin prende di mira, di fronte al fallimento della rivoluzione a Occidente, l’«aristocrazia operaia». Parla di «corruzione», di «elemosina»: «Tutto si riduce alla corruzione. Si corrompe per mille vie diverse: elevando la cultura dei centri più importanti, fondando istituti di istruzione. I militanti del movimento operaio appartenenti alla corrente opportunistica difendono la borghesia meglio degli stessi borghesi». La speranza di una vittoria viene dunque dai popoli coloniali, che «la guerra imperialistica ha coinvolto nella storia mondiale». La controffensiva «verrà da questo miliardo e duecentocinquanta milioni di uomini» (1920, II Congresso dell’Internazionale comunista).

Nell’ultimo suo scritto pubblicato (Meglio meno ma meglio, marzo 1923) il tono è meno fiducioso: «Saremo noi in grado di resistere nelle nostre condizioni disastrose fino a che i Paesi capitalistici dell’Europa occidentale avranno compiuto il loro sviluppo verso il socialismo? Nel frattempo la Russia dovrà sforzarsi di costruire uno Stato in cui gli operai mantengono la direzione, (...) sviluppare l’industria meccanizzata, sviluppare l’elettrificazione etc. Solo questa è la nostra speranza». Come si vede, il «socialismo in un Paese solo» è già qui.

Cosa ha a che fare questo sviluppo storico - di cui, dopo un secolo, sappiamo anche come è andato a finire - con il pensiero e i programmi politici di Marx? Si potrebbe rispondere: quasi nulla. Fu un’altra storia. Essa fu determinata da fattori ineludibili: per un verso dallo sviluppo in senso Welfare State dei conflitti sociali nell’Occidente ricco e, per altro verso, dalla lotta di potenza. Questa fu segnata dapprima dal fenomeno fascista, sconfitto a Stalingrado, e, nella seconda metà del Novecento, dal fallimento della «decolonizzazione» (che era stata la grande speranza degli anni Sessanta e Settanta) fino all’epilogo più sorprendente tra tutti: il ripristino dell’ipercapitalismo nella Cina «comunista».

L’orizzonte di Marx era europeo-occidentale. Già la Russia era remota e poco nota. È ben conosciuta la «sentenza» di Friedrich Engels («si parlerà di socialismo in Cina quando sulla Grande Muraglia sarà scritto Liberté Egalité Fraternité»); ed è altrettanto nota la opzione conclusiva della lunga «militanza da lontano» di Engels rispetto al Partito socialdemocratico tedesco. Essa è racchiusa nel suo ultimo scritto: nella prefazione del 1895 alla riedizione delle Lotte di classe in Francia di Marx; prefazione variamente ritoccata, ma il cui succo è la centralità della lotta elettorale-parlamentare per la conquista socialista del potere.

Ha dunque senso, alla luce di questo sviluppo storico (1848-2015) parlare di una Storia del marxismo che parte da Marx e giunge fino al nostro presente? È l’impresa che Stefano Petrucciani, con una équipe di specialisti, ha ritentato per l’editore Carocci: tre volumetti, di cui il più innovativo è il terzo, che indaga sulla presenza di Marx nella cultura non solo politica del tempo attuale. Diciamo che ha «ritentato» perché alcune storie del marxismo (anch’esse corali, diversamente dalla mirabile Storia del pensiero socialista di Cole) erano sorte quarant’anni fa, quando il «socialismo reale» e l’«eurocomunismo» sembravano avere il vento in poppa: quella curata da Aldo Zanardo per l’Istituto Feltrinelli («Annali», 1973) e quella monumentale einaudiana diretta da Eric Hobsbawm (1978-1982).

Oggi la prospettiva non può che essere fredda e storiografica. Nell’opera diretta da Petrucciani, essa consiste non solo nello scandaglio delle forme che il «marxismo» (Marx detestava questo neologismo) assunse mescolandosi alle concrete e specifiche realtà e correnti di pensiero delle varie epoche e dei vari continenti (nel che fu la sua temporanea grandezza), ma soprattutto nel chiedersi quanto dell’analisi che Marx tentò del funzionamento del capitalismo ci aiuti a capire il presente che si srotola sotto i nostri occhi.

Azzardiamo una risposta. Non sono più attuali le prospettive operative che Marx propugnò - tutte alla fine contraddette dalla realtà -; resta in piedi invece la sua geniale intuizione: che il capitalismo è quel titanico stregone il quale, unificando il pianeta nel nome e nel segno del profitto, ha suscitato e scatenato forze che non sa e non può più dominare. Ma queste forze non sono le ribellioni delle classi oppresse, le quali sono ormai abbagliate soprattutto da follie palingenetiche a base religiosa, sono le ferite irreparabili inflitte al pianeta, avviato al disastro bioambientale perché lo «stregone» non intende arretrare rispetto alle sue scelte miopi e devastanti.

Non ha torto Sassoon quando fa dire a Marx nell’intervista immaginaria che, in ultima analisi, «il capitalismo non può essere globale». (E con paradosso solo apparente sbotta in un esempio sarcastico, ma a suo modo emblematico: «Quattro miliardi e seicento milioni di ascelle che ricorrono allo spray deodorante» produrrebbero «il suono assordante dello strato di ozono che si spacca»!). Questa macchina infernale non può autocorreggersi se non negando il primum movens che ha posto sopra ogni altro valore: il profitto a qualsiasi prezzo, facendo affari anche vendendo armi a chi le adopera per colpire all’impazzata nel cuore del mondo ricco.


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