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COSMOLOGIA E CIVILTÀ. "PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA

KARL MARX RISPONDE A SALVATORE VECA, PRENDE LE DISTANZE DA ENGELS E RENDE OMAGGIO A FULVIO PAPI. Alcune precisazioni sulla sua intervista impossibile - raccolte da Federico La Sala

Salvatore Veca “intervista” Karl Marx: «Uno spettro si aggira per il mondo: sono io».
giovedì 8 novembre 2018
[...] Il mio invito fraterno, da compagno, è: sveglia! E’ ora di smetterla con i vecchi divertimenti di intellettuali di molti (non quattro) soldi, asserviti all’industria culturale del padrone di turno. Basta! Che “il mio faccione” - come dici - sia “tornato in giro per il mondo”, certamente non è il mio: è il vostro! Io sono sempre stato sempre con voi, nel presente - anche nel vostro presente! Solo che voi, immersi nel “sonno dogmatico” della (...)

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> KARL MARX RENDE OMAGGIO A FULVIO PAPI. --- Severino continua la sua battaglia contro i prodotti della "filosofia marxista (che ha alle sue spalle la filosofia di Hegel, la quale a sua volta raccoglie in sé l’intera storia del pensiero filosofico della tradizione occidentale)".

martedì 7 agosto 2018

FrancoAngeli traduce il saggio sui confini del politologo tedesco che riflette sulla necessità di rendere umana l’economia

Perché ci salverà la filosofia

Julian Nida-Rümelin teorizza un’etica della migrazione. Ma cosa intende per pensiero?

di Emanuele Severino (Corriere della Sera, 07.08.2018)

Ci sono problemi che vanno risolti subito. Ad esempio se ci troviamo vicini a una persona che sta affogando. Ne sanno qualcosa le navi che tra Libia e Sicilia vedono centinaia di migranti in pericolo immediato di morte. Ma ancora più spaventosa è la sorte delle centinaia di milioni di esseri umani che rimangono nei Paesi poveri: sono i più deboli, ben lontani dal disporre dei duemila dollari per il viaggio verso l’Europa. E molti di loro sono vicini alla morte, ora, per fame e malattie, tanto quanto lo sono coloro che si trovano su un barcone che sta affondando.

L’opinione pubblica e i mass media prestano attenzione soprattutto alle vicende del primo di questi due gruppi, collegate come sono alle ripercussioni che hanno sulle società ricche e quindi sull’Europa.

Ma nella riflessione culturale sul fenomeno della migrazione i problemi relativi al secondo gruppo sono già da tempo discussi. Notevole impulso a questa discussione è stato dato dall’economista Paul Collier con la pubblicazione del suo saggio Exodus, tradotto in Italia nel 2015 da Laterza. Anche le sofferenze del secondo gruppo andrebbero affrontate subito. La potenza raggiunta dalla tecnica consentirebbe di eliminarle in gran parte (quasi cent’anni fa Keynes lo riteneva già fattibile), ma la gestione della tecnica da parte dei ricchi lo rende impossibile.

Sui problemi della migrazione - quindi anche su coloro che non possono andarsene dalle terre d’origine - si sofferma anche Julian Nida-Rümelin nel suo Pensare oltre i confini. Un’etica della migrazione, del 2017 e pubblicato quest’anno in Italia da FrancoAngeli (a cura di Giovanni Battista Demarta, che dello stesso autore ha curato, per FrancoAngeli, Per un’economia umana, 2017).

Ma, come appare dal titolo, diversa è l’impostazione. Collier parla da economista, Rümelin da filosofo (insegna Filosofia e teoria della politica all’Università di Monaco di Baviera). L’«etica» è infatti il modo in cui la filosofia si rivolge all’agire dell’uomo. Ma Rümelin è stato anche ministro della Cultura nel primo governo Schröder. Cooperazione di efficienza capitalistica e di tutela del lavoro, cioè un’«economia umana», è a suo avviso il progetto che ha determinato l’affermazione della Germania in Europa e che egli consiglia anche all’Italia. All’intento di indicare i fondamenti filosofici di un’«economia umana» appartiene anche questa sua importante etica della migrazione.

Mi sembra che essa si proponga di chiarire in che misura la filosofia possa contribuire anche alla soluzione dei problemi che, come quello della migrazione, richiedono una risposta immediata. Questo proposito coinvolge un modo di concepire la filosofia, che tuttavia, per quanto attraversato da spunti originali, è sostanzialmente allineato ai criteri con i quali la filosofia è oggi intesa nel mondo.

In un tempo in cui l’economia e la tecno-scienza stanno al centro della scena mondiale l’importanza attribuita alla filosofia da un intellettuale e politico come Rümelin è interessante. Come interessanti sono le sue tesi che la democrazia non possa prescindere dalla «verità» e che l’etica debba tener conto del modo in cui essa è stata elaborata da Platone e da Aristotele. Ma il suo modo di intendere la filosofia e la «verità» è quello che gli è consentito dallo spirito del nostro tempo.

Egli sostiene, insieme a filosofi come Ronald Dworkin e Thomas Nagel, un «realismo etico» per il quale «ci sono ragioni buone e ragioni cattive, e ciò che è una buona ragione o una cattiva ragione non si risolve in ciò che volta per volta pensiamo e preferiamo (...). Io tento piuttosto di scoprire che cosa dovremmo fare, non ciò che comunemente si ritiene che andrebbe fatto» (pagina 13). Le «ragioni buone» esistono; ma per lui, come per tutta la cultura dominante, la bontà delle ragioni non può essere la loro verità incontrovertibile; e ciò che dovremmo fare non discende da un principio indiscutibile.

Ma in che modo Rümelin stabilisce la preferibilità delle «ragioni buone»? Sembra a volte che per lui una «buona ragione» consista, contrariamente a quanto abbiamo sentito, in ciò che comunemente si ritiene di dover fare. Scrive ad esempio (pagina 49): «Abbiano delle buone ragioni per prenderci cura delle nostre amiche e dei nostri amici, per accudire i nostri figli come genitori, per percepire una responsabilità nei confronti dei nostri allievi come insegnanti, e così via. Se una teoria etica è inconciliabile con tutto questo, allora è la teoria etica a fallire, non questa prassi diffusa nel mondo della vita».

Ora, in questo passo, la «teoria etica» è la filosofia; ma «questa prassi» è, propriamente, l’insieme di regole a cui in vaste aree del globo l’uomo contemporaneo per lo più si è abituato ad adeguarsi (ma con eccezioni sempre più rilevanti); e il «mondo della vita» è quello che i Paesi ricchi sono riusciti a realizzare da due o tre secoli (se si va ancora più indietro, tale modo di vivere è sempre meno «diffuso»); e le «buone ragioni» che abbiamo per fare quel che facciamo sono l’insieme di preferenze che è stato adottato da questo tipo d’umanità prevalendo su altre forme di preferenza.

La filosofia deve avere quindi come fondamento, modello, pietra di paragone le convinzioni di questa umanità e si riduce a essere una sistemazione della «verità» costituita da tali convinzioni; così come, in campo epistemologico, oggi si ritiene per lo più che la «verità» sia il sapere scientifico, che la filosofia debba essere al massimo una riflessione su di esso e che con esso non possa mai essere inconciliabile. E come la filosofia non può essere qualcosa di inconciliabile con le convinzioni delle società ricche del Nord del Pianeta, così non può trovarsi a essere inconciliabile con esse nemmeno quell’aspetto della filosofia che è l’«etica della migrazione». Anche in questo campo sono il buon senso e le «buone ragioni» di quelle società a dettar legge alla filosofia.

Secondo il leitmotiv della cultura filosofica oggi dominante anche Rümelin prende congedo dal senso originario della filosofia, sviluppatosi lungo l’intera tradizione dell’Occidente: la filosofia come sapere incontrovertibile, e quindi come critica del mito, del senso comune, delle «buone ragioni», delle convinzioni che di volta in volta i popoli hanno avuto. (Un congedo, osservo, che è sì inevitabile ma è anche estremamente più complesso di quanto ritengano e riescano a rendersi conto quasi tutti coloro che affermano di congedarsi). Rispetto all’idea di un sapere incontrovertibile, infatti, per quanto argomentate e coerenti tali convinzioni sono pur sempre opinioni, abitudini, congetture, forme di fede. Certo, sono le opinioni che tutti noi, sembra, condividiamo, ma «tutti noi» apparteniamo a quel tipo d’umanità che è sì riuscita a prevalere sulle altre, ma non per questo le sue convinzioni hanno cessato di essere opinione e fede.

Rümelin afferma che il principio capitalistico dell’«ottimizzazione» (l’aumento indefinito del profitto) spinge il mondo verso l’eliminazione dei confini tra gli Stati nazionali, cioè verso la globalizzazione economica e quindi è promozione di un flusso migratorio senza limiti, che consente di ridurre sempre di più il costo del lavoro. Ed egli mostra la catastrofe che questo principio, lasciato a sé stesso, produrrebbe nei migranti, nel mondo ricco, nel capitalismo stesso. La politica avrebbe allora il compito di salvaguardare i confini, ma senza eliminare l’efficienza dell’economia di mercato. Il compito etico sarebbe appunto di rendere «umana» questa forma di economia, impedendo alle concezioni assolutistiche del filosofare di rendere inefficaci le «buone ragioni». Un capitalismo sano non è, per lui, un’utopia. E infatti, oggi, quasi nessuno crede più in una fuoriuscita dal capitalismo.

Uno dei motivi principali di questa convinzione è lo straordinario sviluppo tecnologico di cui soprattutto il capitalismo si avvale. Ma in questo modo si continua a confondere capitalismo e tecnica. Che invece (lo vado mostrando da tempo anche su queste colonne) hanno anime profondamente diverse. Il capitale (più o meno «umano») crede di poter continuare a servirsi della tecnica, ma ha nemici esterni e interni (la concorrenza) e quindi è costretto a potenziare sempre di più questo suo formidabile strumento. E allora non è forse inevitabile che tale potenziamento divenga esso, e non l’incremento del profitto, lo scopo dell’agire capitalistico - di un agire che pertanto non potrà più essere «capitalistico»? E non è quindi inevitabile che a gestire i problemi della migrazione non possa essere né il capitalismo né un’«etica della migrazione», ma abbia a essere la crescente potenza tecnica, divenuta, da mezzo delle forze che oggi si credono alla guida del mondo, lo scopo di ogni agire dell’uomo?

E, d’altra parte, i più grandi e duraturi cambiamenti dell’Occidente non sono forse determinati dalla filosofia, cioè dal pensiero che non si propone di risolvere immediatamente i problemi? Tutte le complessità concettuali e pratiche della storia occidentale non sono forse cresciute all’interno dei significati fondamentali portati alla luce dal pensiero filosofico («verità», «scienza», «errore», «opinione», «fede»,«fondamento», «dimostrazione», «essere», «non essere», «divenire», «nulla», «eternità», «etica», «politica», ecc.)?

La scienza moderna si distacca dalla filosofia, ma come chi nasce si distacca dalla madre: rimanendo tuttavia qualcosa che essa ha generato e che di essa è quindi il prolungamento. E la pratica capitalistica - stando a una tesi tuttora chiarificante di Max Weber - non deriva forse dall’etica protestante, cioè da un innesto del pensiero filosofico nel pensiero religioso?

L’Unione Sovietica e il comunismo mondiale non sono forse un prodotto della filosofia marxista (che ha alle sue spalle la filosofia di Hegel, la quale a sua volta raccoglie in sé l’intera storia del pensiero filosofico della tradizione occidentale)?


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