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COSMOLOGIA E CIVILTÀ. "PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA

KARL MARX RISPONDE A SALVATORE VECA, PRENDE LE DISTANZE DA ENGELS E RENDE OMAGGIO A FULVIO PAPI. Alcune precisazioni sulla sua intervista impossibile - raccolte da Federico La Sala

Salvatore Veca “intervista” Karl Marx: «Uno spettro si aggira per il mondo: sono io».
giovedì 8 novembre 2018
[...] Il mio invito fraterno, da compagno, è: sveglia! E’ ora di smetterla con i vecchi divertimenti di intellettuali di molti (non quattro) soldi, asserviti all’industria culturale del padrone di turno. Basta! Che “il mio faccione” - come dici - sia “tornato in giro per il mondo”, certamente non è il mio: è il vostro! Io sono sempre stato sempre con voi, nel presente - anche nel vostro presente! Solo che voi, immersi nel “sonno dogmatico” della (...)

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>IN RICORDO DI SALVATORE VECA: "IL FILOSOFO MILITANTE" (Giancarlo Bosetti), "UN MODELLO DI LAVORO INTELLETTUALE" (Gianfranco Pellegrino).

venerdì 8 ottobre 2021

La morte di Salvatore Veca, il filosofo militante

L’intellettuale è scomparso a Milano. Aveva 77 anni. Dagli studi negli anni Sessanta alle battaglia con il Pci dove venne più volte contestato. Una vita in prima linea

di Giancarlo Bosetti (la Repubblica, 07 Ottobre 2021)

Il posto di Salvatore Veca nel repertorio della filosofia contemporanea è stato fissato precocemente come quello del “neocontrattualista” che importava dagli Stati Uniti e adattava originalmente all’Europa la teoria della giustizia (Una teoria della giustizia, mi avrebbe certamente corretto) di John Rawls del 1971. Visto ora a distanza, quello era in realtà il suo lavoro giovanile, di straordinaria importanza anche per gli effetti che avrebbe avuto nell’influire sul corso delle idee in Italia e in particolare sulla sinistra, ma un’opera a cui molto sarebbe seguito nella prolifica e sostanziosa produzione, con la lunga stagione dei successivi lavori sui temi dell’incertezza, dell’incompletezza, e con loro del pluralismo, che caratterizza il sapere e la condizione degli esseri umani. Si tratta della stagione della maturità piena del Veca filosofo della politica e della conoscenza che, a 77 anni, molto avrebbe avuto ancora da dire.

Non solo Rawls dunque. È tornata in questa stagione la ricchezza della sua formazione negli anni Sessanta all’Università statale di Milano, dove l’ho conosciuto, da matricola io, lui di pochi anni più vecchio, ma già per me un “professore” come assistente di Enzo Paci. Una formazione in cui ha contato quella forte voce teoretica che insegnava, in modo suggestivo e visionario la fenomenologia di Husserl, e che spingeva ad affrontare con rigore analitico le filosofie del linguaggio, Quine, la logica. Milano era allora un incredibile serbatoio di risorse intellettuali: con Paci, c’erano Ludovico Geymonat a filosofia della scienza, Mario Dal Pra a storia della filosofia, Ettore Casari alla logica e Cesare Musatti (che era come trovarsi di fronte Freud in persona). E Musatti fu anche per lui studente, come per tanti, il primo degli esami, la prima passione accademica. Salvatore lo racconta, nell’ultimo suo libro, l’autobiografia scritta nei mesi del ritiro da Covid, insieme al figlio di sua moglie Nicoletta Mondadori, Sebastiano (Prove di autoritratto, Mimesis).

Forse anche per questo egli vedeva nel Sessantotto un momento di svolta significativo non per la politica ma per i mores, il mutamento di ordine sociale, la liberazione sessuale, l’innesco di una rivoluzione femminista. È stato costante nella vita di Veca l’impegno pubblico, nei confronti della politica, rispetto alla quale ha sempre difeso l’autonomia del pensare, in questo seguendo la lezione di Norberto Bobbio: impegno ma con distanza. Una distanza che non gli ha risparmiato polemiche anche molto dure da parte dei settori più conservatori del Pci. Quando presentò all’Istituto Gramsci di Bologna, nel 1982, il suo lavoro sulla società giusta, che tradotto in politica significava il riformismo per una società “migliore”, fu letteralmente assalito come “traditore” dei principi rivoluzionari e della classe operaia.

Ma questo non impedì al suo pensiero di attecchire e sulla distanza di conquistare consensi sempre più larghi e alla fine prevalenti. Fu anche con il suo aiuto personale che, nel mio lavoro all’Unità, potei prima far circolare i nomi e le idee, allora una novità non indolore nel contesto dei comunisti italiani, della cultura liberale di Walzer, Rawls, Amartya Sen e tanti altri. Si consolidava con la sua spinta personale, certo insieme a Bobbio, a Vittorio Foa e Giuliano Amato, con Michele Salvati, Alberto Martinelli, Giovanna Zincone, Guido Martinotti, Nadia Urbinati, Marina Calloni una larga corrente di pensiero di ispirazione liberalsocialista, che avrebbe dato vita con chi vi scrive alla rivista Reset. Non erano mancate le tensioni nei confronti del Pci fin da quando Salvatore, insieme a Salvati, ne aveva chiesto l’abbandono del nome. Ma le resistenze servirono soltanto a ritardare quel che comunque avrebbe dovuto avvenire. «Tentavamo di fare da ponte tra l’Avanti! e l’Unità», racconta nell’autobiografia. Ardua impresa negli anni Ottanta!

E a proposito di abbagli circa il Veca “traditore” è da rimarcare che le sue prese di posizione più recenti avrebbero stupito se mai per il loro ancoraggio a una visione radicata circa la funzione della sinistra, del sindacato, della giustizia sociale. È da ricordare il lascito enorme di Veca accademico, insegnante, guida dell’istituto superiore di Pavia, e poi anche editore con la casa editrice Feltrinelli, e organizzatore di cultura alla testa della Fondazione Feltrinelli, dei suoi Annali e dei suoi incontri. Ma dovremo a lungo rileggere i suoi lavori del ciclo dell’incertezza e dell’ incompletezza.

Insieme a molteplici influenze ritorna nelle pagine degli ultimi vent’anni con grande forza quella di Isaiah Berlin, non solo e non tanto il Berlin dei saggi sulla libertà (negativa), ma soprattutto quello del pluralismo dei valori: «Altre vallate altre pecore» diceva con una battuta alludendo alle varietà delle culture umane, ed echeggiando Pascal e Montaigne. Consapevole della impossibilità di stringere nelle nostre mani una compiuta ed esauriente conoscenza della verità, il filosofo aveva aperto una nuova fase della sua ricerca che voleva integrare la sua idea della giustizia con una prospettiva di realismo filosofico. Una visione della filosofia come permanente «lavoro in corso», aperta sempre e dovunque si percepisca l’esistenza di un problema, sempre alle prese con la difficoltà del fondamento, come i marinai sulla “barca di Neurathj” (Otto, il filosofo austriaco, ideatore dell’immagine) «sempre alle prese con uno scafo da rimodellare senza mai poterlo mettere in cantiere per ricostruirlo con materiali migliori». Opera da continuare per «coltivatori di memorie» (la storia e la storia delle idee) ed «esploratori di connessioni», le idee che ci servono per andare avanti.


Un modello di lavoro intellettuale: in ricordo di Salvatore Veca

di Gianfranco Pellegrino (Le parole e le cose, 8 ottobre 2021)

Nel 2006, ricordando il suo ‘dispatrio’ in Gran Bretagna, Luigi Meneghello diceva: «Nell’immediato dopoguerra, il partito che incarnava la mia idea di politica è andato a farsi benedire fin dal primo congresso. Il nuovo partito perfetto avrebbe dovuto essere il Partito d’Azione. Purtroppo, nessuno votava per noi, neanche le nostre fidanzate, mi sa, perché i voti che prendevamo erano uguali al numero degli iscritti (...). Dopo i primi due anni del dopoguerra, mi sono accorto che le cose andavano male, che il Paese aveva scelto diversamente, si era diviso in due campi, e ho pensato: in questo mondo non ho più niente di utile da fare»[1].

Per molto tempo, il nostro paese è rimasto diviso in due campi, in politica come nella cultura, e chi non si riconosceva in quei due campi era destinato alla marginalità. Uno dei meriti di Salvatore Veca (scomparso nella notte fra mercoledì 6 e giovedì 7 ottobre, era nato nel 1943) è stato di avere contribuito moltissimo a fare della cultura italiana - e soprattutto della cultura filosofica del nostro paese - un luogo più plurale, meno diviso, più aperto alla discussione internazionale.

Se molti studiosi italiani discutono con colleghi di tutto il mondo, sia in Italia sia all’estero, se certi temi sono ormai di casa nelle nostre università e molti nostri connazionali insegnano all’estero è anche grazie ad alcune operazioni culturali intraprese e portate a termine con successo da Veca. Il contributo di figure come la sua alla sprovincializzazione di una certa cultura italiana è stato enorme. Ma si badi: il fatto non è solo che Veca ha introdotto nella discussione certi metodi - i metodi della filosofia politica analitica di lingua inglese -, certi autori - Rawls, principalmente, ma anche Walzer, Nozick, Williams e Nagel -, certi temi - la teoria etica normativa -, né conta solo il lavoro culturale e intellettuale in senso più ampio da lui compiuto - in istituzioni culturali come la Casa della cultura e la Fondazione Feltrinelli di Milano, ma anche in case editrici e nell’università di Pavia e nella politica militante della sinistra italiana, dove Veca ha partecipato all’evoluzione riformista di parte del PCI. Ci sono aspetti della figura e del modello di lavoro intellettuale di Veca che sono forse meno evidenti di questi, ma su cui varrebbe la pena riflettere, ora che chi li incarnava ci ha lasciati. E su questi mi vorrei soffermare, per dare un ricordo da lontano, per così dire - il ricordo di chi proviene da una generazione diversa e posteriore e ha osservato da una certa distanza il lavoro di Veca, pur venendone in parte influenzato.

Figure come quella di Veca hanno costruito un modello di lavoro intellettuale preciso e inedito - inedito nel nostro paese, ma forse anche in altri contesti. Si tratta di un modello di lavoro intellettuale più sfuggente e meno estremo di quanto si potrebbe pensare a uno sguardo superficiale, e che ha messo a frutto il meglio di mondi diversi. Veca non è stato un filosofo analitico nel senso tradizionale (e talvolta caricaturale) del termine - concentrato esclusivamente su questioni tecniche, poco interessato alla storia del pensiero, esitante nella costruzione di grandi sintesi o affreschi.
-  Nonostante una grande abilità tecnica, egli ha sempre mirato a costruire un orizzonte complessivo, con l’obiettivo di incidere sulla realtà politica e sociale. In un certo senso, Veca ha abbandonato l’orizzonte teorico del marxismo italiano tradizionale, e soprattutto la filosofia della storia di Marx (o almeno una certa interpretazione di essa) senza per questo rinunciare a una certa idea di militanza tipica del marxismo e a un’ambizione di egemonia culturale. Veca non ha mai rinunciato all’aspirazione di cambiare il mondo, un’aspirazione che gli derivava anche e soprattutto da una tradizione illuminista che ereditava da autori come Norberto Bobbio e Uberto Scarpelli.

Ma allo stesso tempo Veca ha abbandonato, e reso piuttosto ridicoli, tutti gli stilemi tipici di certa filosofia tradizionale italiana del suo tempo (un modo di procedere sopravvissuto in alcuni casi anche adesso) - una filosofia tutta ortodossia e conformismo, tutta erudizione fine a se stessa, di andamento oracolare e con ambizioni spesso tiranniche di politica culturale. Al contrario di molti, Veca è riuscito nel raro tentativo di esercitare influenza, di prendere posizione, partendo però dall’idea che le società siano necessariamente pluraliste e il consenso sia da costruire, non da imporre.

Veca ha messo insieme il meglio di molte tradizioni e ha perseguito una via media tra modelli estremi in una maniera inimitabile. Ha prestato attenzione alle grandi figure della storia della filosofia politica e dell’etica, facendone spesso tesoro. Ma ha volto la sua attenzione a scopi militanti, per così dire.
-  Come amava dire, ha saccheggiato i templi del passato: tutte le sue letture servivano a edificare un paradigma complessivo e gli strumenti che usava derivavano dalle frontiere della ricerca filosofica contemporanea. Non ha mai rispettato steccati, spaziando dall’epistemologia alla teoria etica normativa, alla politica normativa, alle etiche applicate. Anche in questo caso, si tratta di un modo di procedere che trova paragoni in alcuni grandi figure della filosofia di lingua inglese - Nagel, Williams e Parfit, ma non Rawls, per esempio, che è stato molto meno ampio e più monomaniaco, per così dire.

Ma la cosa più rilevante, a mio parere, è il modello di filosofia pubblica che Veca ha tentato di realizzare. Come ho detto, Veca non ha mai esitato a intervenire nella discussione pubblica, a tutti i livelli. Anzi, per molto tempo, si è impegnato, come dicevo sopra, nella politica militante, facendo scelte molto controverse e subendone le conseguenze. Eppure, in tutto questo non ha mai fatto tre mosse che sono invece diventate tipiche del modello oggi preponderante di intellettuale pubblico.
-  In primo luogo, Veca non ha mai assunto, né cercato pose da divo: non ha evitato le apparizioni, ma non le ha mai cercate. Le ha sfruttate, non le ha subite. Veca non ha mai avuto una gestione social della sua figura: non ha cercato di alimentare continue esposizioni, non ha costruito un marchio, non ha inseguito nessun pubblico. Non ha costruito dal nulla un pubblico di clienti. Ha educato un pubblico di pari.
-  In secondo luogo, Veca ha creduto profondamente nella funzione dell’università: per lui la filosofia (anche la filosofia pubblica) è sempre stata la filosofia che si fa nelle università, con certi strumenti, e a partire da una certa expertise. L’impegno di Veca non si è mai trasformato in anti-accademismo. Anche in questo caso, Veca ha conservato la fiducia nelle istituzioni, anzi il gusto di vivere e costruire istituzioni, tipico della sinistra tradizionale del nostro paese.
-  Infine, l’estrema chiarezza del suo linguaggio, la ricerca, talvolta, anche di uno stile cordiale ed elegante non hanno mai significato per lui semplificazione, banalizzazione o corrività. Questa è forse l’eredità migliore della filosofia analitica che Veca ha trasmesso, insieme ad altri, a parte della cultura italiana: se si legge bene, se si parte dalle definizioni, se si seguono con pazienza tutti i passaggi, le pagine di Veca possono essere lette da chiunque. Non perché siano una semplificazione, non perché siano divulgazione condiscendente, o filosofia pop. Ma perché sono una forma democratica di scrittura, che non presuppone nulla, né si avvale di allusioni e vaghezze, ma si assume il carico di portare tutti allo stesso livello e di procedere insieme - autore e lettore.

Questo modello di lavoro intellettuale è il lascito più autentico e prezioso di figure come quella di Veca, che in questo riprendeva la tradizione neoilluminista di Bobbio. Eppure, è un lascito che ha attecchito pochissimo nella nostra cultura e ha avuto un successo molto minore rispetto ad altri aspetti della sua attività. Viviamo in tempi in cui la filosofia pubblica si divide fra presunti grandi maestri oracolari e vaticinanti, spesso intenti a distillare vaghezze allusive e al fondo banali, a terrorizzare i seguaci e a inseguire scandali quotidiani e presunti critici dell’accademia e araldi di una filosofia popolare, che le stesse banalità e vaghezze dei primi spacciano con linguaggio sciatto e intenti meramente autopromozionali. Entrambe le tipologie seguono in realtà le leggi del mercato: piazzano un prodotto, occupano una nicchia merceologica, coltivano un segmento dell’ampia platea dei consumatori. Nonostante non fosse per nulla un nemico del mercato, anche se ne teorizzava limiti stretti, Veca non si è mai piegato alle logiche del mercato culturale ed editoriale. Questa è la sua eredità migliore, e più rara.

[1] Mazzacurati C., Paolini M. (2006), Luigi Meneghello. Dialoghi, Fandango Libri, Roma.


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