Quando Marx criticava i «censori» dell’arricchimento
Il filosofo di Treviri spiegava che era futile prendersela con l’avidità dei banchieri e l’egoismo degli speculatori e invitava a non confondere l’economia con la morale
di Massimo Adinolfi (l’Unità, 19.01.2012)
E se, dopo aver capito che la ricetta reaganiana non funziona, e che non è vero che lo Stato sia sempre il problema piuttosto che la soluzione - se non altro perché allo Stato si è chiesto di salvare con migliaia di miliardi il sistema bancario americano - se ora che la crisi ha investito i debiti degli Stati europei dovessimo chiederci se non occorra essere più radicali? E domandare, a proposito del capitalismo, se anch’esso non sia il problema, invece che la soluzione?
Troppi «se», si dirà. Ma davvero sarebbe un bel guaio, perché di risorse intellettuali per misurarsi con un simile problema non ce ne sono molte, in circolazione. Non si vorrà mica tirare in ballo un’altra volta Marx? Certo lui qualche parolina l’ha detta, provando per esempio a sostenere che le crisi non sono eventi più o meno accidentali, ma fasi strutturali del funzionamento dell’economia capitalistica. Come si fa però a riprendere un’analisi del genere, se persino il termine, «capitalismo», è scomparso dal dibattito? In verità, la parola sta di nuovo facendo capolino, e il solo fatto che la si torni a usare indica perlomeno che il problema c’è: la fede nelle virtù taumaturgiche del mercato si è indebolita; indebolita è pure la convinzione che il mercato rappresenti sempre il miglior sistema di allocazione delle risorse; fragilissima è ormai la presunzione che alla politica spetti solo il compito di correggere le distorsioni del mercato.
Certo, non possiamo farne solo un affare di parole. Forse, però, tornare a usare la parola «capitalismo» aiuta a individuare nodi strutturali, quelli che non vengono meno solo per il fatto che non li si nomina più. Marx era ad esempio con- vinto che la crisi si manifesta sì sui mercati finanziari, e anzi le bolle speculative la ingigantiscono oltre misura, ma comincia da un’altra parte, nella sfera della produzione: è lì che bisogna guardare. Siccome però il fenomeno della sovrapproduzione, che lui poneva all’origine della crisi, raccoglie le abbondanti ironie degli economisti mainstream, figuriamoci se proponiamo di tornare alle sue descrizioni del ciclo economico (con tanto di inevitabile crollo finale). Però, quando Marx spiega che è futile oltre che irresponsabile prendersela con l’avidità dei banchieri e l’egoismo degli speculatori, quando avvisa che non è buttandola sul piano della morale che si individuano le cause e si indicano le vie d’uscita, non sarà il caso di rimpiangere un pensiero critico altrettanto robusto? Così, se il presidente del Consiglio vola a Londra per riconquistare la fiducia dei mercati, ci si può chiedere se è di economia che stiamo parlando, o non piuttosto di psicologia?
Sentite allora Marx, quando ad esempio se la prende con la stampa: «Ora non ci chiederemo se i giornalisti inglesi, che per un decennio hanno diffuso la dottrina secondo cui l’epoca della crisi commerciali si era definitivamente chiusa con l’introduzione del libero commercio, abbiano ora il diritto di trasformarsi improvvisamente da servili panegiristi a censori romani dell’arricchimento moderno».
Che dire? A parte il fatto che oggi il problema non ce l’abbiamo solo con i giornalisti inglesi, e che di decenni di panegirici ne abbiamo vissuti più d’uno, ma non avremmo bisogno di penne altrettanto sfrontate? Perché di questo anzitutto si tratta: se il capitalismo crollerà, non ce lo manderà certo a dire, ma intanto si può auspicare un po’ più di libertà intellettuale, di intelligenza critica, di anticonformismo nel dibattito delle idee?