Inviare un messaggio

In risposta a:
SHOAH, NEGAZIONISMO, E VERITA’ DI STATO: LA LOGICA DEL "MENTITORE" ISTITUZIONALIZZATA!!! UNA TRAPPOLA MORTALE PER LA LIBERTA’ E LA COSTITUZIONE ...

IL NEGAZIONISMO, LA SHOAH, E LA VERITA’ DI STATO: UNA VITTORIA POSTUMA DI HITLER. Sul tema, interventi di Sergio Luzzatto, Marco Politi, e un’intervista a Carlo Ginzburg - a c. di Federico La Sala

“L’unica cosa che non ci serve è riempire le galere di mentitori e far pensare al mondo che per farci credere abbiamo bisogno della scorta della polizia” (Anna Foa).
venerdì 22 ottobre 2010 di Federico La Sala
[...] Una legge che difende penalmente la verità storica “sarebbe la vittoria postuma dei regimi totalitari sconfitti al prezzo di un immane conflitto mondiale”. Sergio Romano ha ricordato l’appello di Blois, redatto nel 2008 quando si pensava che gli stati membri dell’Unione dovessero punire chi avesse “grossolanamente minimizzato” genocidi, crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Gli storici francesi risposero che “in uno Stato libero non spetta ad (...)

In risposta a:

> IL NEGAZIONISMO, LA SHOAH, E LA VERITA’ DI STATO: UNA VITTORIA POSTUMA DI HITLER. -- Il revisionismo stotico polacco. Se il potere vuole scrivere la Storia.

venerdì 2 febbraio 2018

Se il potere vuole scrivere la Storia

di Giovanni Sabbatucci (La Stampa, 02.02.2018)

La memoria storica di un popolo è di per sé un’entità impalpabile e difficile da maneggiare, fatta com’è della somma di infinite memorie individuali non sempre riducibili a un’unica sintesi. Diventa materia pesante e scivolosa quando il potere politico pretende di ricostruirla ex novo, di depurarla d’autorità dalle pagine oscure o addirittura di imporne una versione ufficiale. È quanto purtroppo rischia di accadere, anzi sta già accadendo, nella Polonia di oggi: dove il Senato ha approvato a larga maggioranza una legge che, se definitivamente approvata, vieterebbe a chiunque, pena la reclusione fino a tre anni, di stabilire qualsiasi collegamento tra la nazione polacca e la tragedia della Shoah che si consumò, in parte rilevante, nel suo attuale territorio.

Ora è vero che la Polonia ha combattuto dall’inizio alla fine la guerra dalla parte giusta, e in quella guerra ha subito, in rapporto alla popolazione, più perdite di qualsiasi altro Paese (sei milioni circa, di cui la metà ebrei); che fra il ’39 e il ’45 è stata cancellata come Stato e soggetta a una doppia e crudelissima occupazione (tedesca e sovietica); che visse queste tragedie dopo quasi due secoli di eroismi e di tragedie, di spartizioni, aggressioni e oppressioni di ogni genere (che sarebbero state il preludio a un altro e mezzo secolo di servitù). E hanno ragione coloro che si offendono quando sentono parlare di Auschwitz come di «un campo di sterminio polacco».

Ma l’orrore di queste vicende non può giustificare la cancellazione di una parte della storia: una storia che pure esiste e pesa e che riguarda proprio le colpe dei polacchi. Non mi riferisco solo all’antisemitismo diffuso e radicato, ma anche e soprattutto all’attiva partecipazione a pogrom e massacri avvenuti nel corso dell’occupazione tedesca (a Jedwabne, nel luglio del 1941, a invasione dell’Urss appena iniziata, furono centinaia gli ebrei massacrati da «volonterosi carnefici» polacchi) e, quel che è più grave, anche dopo: era il luglio del 1946, la guerra era finita da più di un anno quando, a Kielce, circa quaranta ebrei furono uccisi con armi rudimentali dai loro vicini e conoscenti sulla base della falsa notizia di un infanticidio. Né si può dimenticare che, fra i regimi comunisti dell’Europa dell’Est, quello polacco fu, negli Anni 60, l’unico ad annoverare nei suoi vertici una corrente organizzata - i «partigiani» del generale Moczar - in cui l’antisemitismo aveva libero corso.

Certo, queste e altre analoghe sono vicende «minori», per quanto orribili, rispetto al contesto generale entro cui si consumarono. Ma anch’esse contribuiscono a formare quel quadro: occultandole o censurandole non si rende un buon servizio alla conoscenza storica e si fa ancora una volta torto alle vittime della Shoah, sottraendo arbitrariamente a un metaforico banco degli imputati una parte, seppur minoritaria, dei loro carnefici: in questo senso, parlare di negazionismo dall’alto non è per nulla fuori luogo.

Qualcuno potrebbe poi obiettare che un certo grado di manipolazione, o di reinvenzione della memoria, è tipico di tutti i processi di costruzione nazionale. Ovunque le autorità politiche e gli apparati pedagogici tendono a valorizzare i momenti alti della storia della loro nazione, a coltivarne le glorie e a custodirne i miti fondativi. Vero, ma c’è una differenza sostanziale.

Nei Paesi liberi questi temi sono oggetto di continuo, e spesso aspro, dibattito. Anzi, la messa in discussione dei miti e la rivisitazione delle pagine buie costituiscono, quali che siano i loro esiti, una premessa e un passaggio necessario della riflessione storiografica e poi della costruzione di una memoria condivisa (che non significa imposta da una legge).

Per fare solo qualche esempio, gli storici francesi hanno studiato i massacri in Vandea e, sia pur con ritardo, il regime di Vichy, gli americani gli orrori della guerra di secessione; i tedeschi hanno avviato negli Anni 80 la discussione sui crimini nazisti e sul «passato che non passa», gli inglesi hanno affrontato senza reticenze la storia del colonialismo; gli italiani non hanno mai smesso di discutere sulla «conquista regia» e sui limiti e le colpe del movimento risorgimentale nemmeno quando celebravano il 150° anniversario dell’unità; e infine - è storia di questi giorni - hanno fatto solennemente ammenda, per bocca del capo dello Stato, del contributo fornito dal regime fascista alla persecuzione degli ebrei fra il 1938 e il 1945. Viene allora da pensare che anche la capacità di accettare il proprio passato, e di discuterne in libertà senza eludere i temi scabrosi, rappresenti un discrimine significativo per misurare la qualità di una democrazia.


È di Stato il revisionismo storico polacco

di Moni Ovadia (il manifesto, 02.02.2018

Il senato della Polonia ha approvato con larga maggioranza la legge 104 che, qualora firmata dal presidente della repubblica, Andrzej Duda, punirebbe penalmente, fino a tre anni di carcere chiunque sostenga complicità polacche nello sterminio nazista o neghi i crimini dei nazionalisti ucraini di Bandera contro i polacchi.

Il senato della repubblica polacca è dominato dal partito ultraconservatore Diritto e Giustizia (Pis) del leader Jaroslaw Kaczynski. La legge è evidentemente improntata ad una sorta di delirio revisionista storico. Che da sempre, ma in particolare dall’89, dal crollo del «socialismo reale» in avanti si è sviluppato con crescente virulenza nei paesi dell’ex blocco sovietico orientale, ma non solo.

Ora, al di là della fattispecie della legge approvata in Polonia sarebbe interessante capire cosa il fenomeno culturale e politico rappresenti, quali ne siano le caratteristiche e cosa esso significhi nel contesto di un’Europa unita.

Questo revisionismo appartiene chiaramente alla sottocultura delle destre estreme, ultra nazionaliste e fascistoidi e, non di rado conseguentemente antisemite ma non necessariamente anti-israeliane. Si origina nel concetto fondamentale di ontologica innocenza della propria gente. I colpevoli sono sempre gli altri (in questo caso gli ucraini, che vengono accusati di essere stati collaborazionisti dei nazisti. E i polacchi invece no?).

Ne consegue l’ assunto che i nostri morti sono santi, quelli degli altri no. In Italia, per esempio, questo sentiment ha preso la nota e frusta forma del «italiani brava gente».

Il revisionismo revanscista si caratterizza per un furioso anticomunismo viscerale per il quale chiunque sia di sinistra o supposto tale è come se fosse Lenin in persona.

Il fascismo, in forma di nostalgia per i bei tempi andati o per vocazione mai estinta è sempre presente almeno sottotraccia. Ma appaiono sotto forme e maschere «nuove», come ha denunciato l’Appello presentato ieri al Museo della Liberazione di Roma.

I «mai morti» della passione nera riemergono in questa temperie sia per la crisi sociale profonda che rischia di non trovare risposte a sinistra, sia perché il processo di defascistizzazione dell’Europa non è mai stato realmente e autenticamente voluto. In primis anche per volontà dei governi degli Stati uniti di cui l’Europa occidentale è sempre stata fedele e servile alleata.

E dopo il crollo del muro di Berlino anche quella orientale si è più che allineata e ben prima di entrare nell’Ue, è passata con entusiasmo da neofita sotto l’ombrello della Nato che irresponsabilmente si allarga sempre più ad Est.

Questa alleanza militare - si illudeva qualcuno - avrebbe via via perso funzione con la fine della Guerra fredda, invece si è rinforzata e attizza nuovi conflitti (Georgia, Ucraina ecc...) perché la guerra fredda è stata sempre più un pretesto per affermare l’egemonia assoluta di un unica superpotenza occidental-atlantica.

I paesi dell’Est-Europa del blocco di Vysegrad, i più entusiasti e partecipi di questo assetto geopolitico, rappresentano ormai una nuova frattura, tra le tante, dell’Unione europea, erigendo muri e srotolando nuove matasse di fili spinati contro la disperazione dei migranti, ma anche contro lo stato di diritto, sul controllo delle libertà interne, della stampa e perfino della magistratura.

E l’Unione europea che fa?

Nano politico, privo di un orizzonte unico nel campo della politica estera, incapace di difendere i propri principi è stato a guardare mentre morso a morso, proprio gli ultimi arrivati nell’Unione, sbranavano l’idea democratica e inclusiva fondativa, e insieme il senso stesso di Europa Unita: la ripulsa di ogni nazionalismo, che per sua natura cerca nemici da dare in pasto ai propri sostenitori e così si alimenta dell’odio per l’altro e per le minoranze interne sempre sospettate di essere quinta colonna dello straniero.

Ovviamente per dare autorevolezza alla propria chiamata alle armi la destra nazional-revisionista deve attaccare anche i propri omologhi ultranazionalisti di altri paesi e questo spiega l’altro articolo di legge, punitivo dei nostalgici di Bandera, il filo-nazista ucraino durante la Seconda guerra mondiale.

In tutto ciò la posizione più ambigua e debole mi pare purtroppo quella che viene da Israele. Basta ascoltare il premier israeliano Netanyahu, il quale essendo ultranazionalista, revisionista - è arrivato ad incolpare i palestinesi per la Shoah - reazionario, razzista e segregazionista (vedi il suo governo in carica), accusa ora di negazionismo la Polonia, che in realtà è stata finora ed è la sua migliore alleata, come il suo interlocutore Kaczynski e come del resto il fraterno sodale ungherese Viktor Orbán.


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: