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IL NEGAZIONISMO COME "INESISTENZIALISMO" E I VISIONARI DELLA METASTORIA COME I VISIONARI DELLA METAFISICA. Come distinguere il romanzo dalla storia? Come è possibile la conoscenza storica? Come distinguere l’illusione dall’apparenza?

VIDAL-NAQUET, KANT, E CARLO GINZBURG. TRACCE PER UNA STORIOGRAFIA CRITICA. Un invito a (rileggere Kant e) focalizzare meglio la questione. Alcune pagine da “Un Eichmann di carta” di Vidal-Naquet e una nota di Carlo Ginzburg (“La storia non si arrende alla fiction dei negazionisti") - a c. di Federico La Sala

La lezione di Vidal-Naquet sul confine tra realtà e narrazione. Carlo Ginzburg racconta come l’antichista, confutando le tesi di Faurisson sulla Shoah impresse una svolta alle ricerche sul passato
mercoledì 10 novembre 2010 di Federico La Sala
[...] Si può certo sostenere che ognuno abbia il diritto alla menzogna e al falso, e che la libertà individuale comporti questo diritto, riconosciuto, nella tradizione liberale francese, all’accusato per la su difesa. Ma il diritto che il falsario può rivedicare non gli deve essere concesso in nome della verità. [...] Né l’illusione, né l’impostura, né la menzogna sono estranee alla vita universitaria e scientifica [...]
Pierre Vidal-Naquet, Un Eichmann di carta. Anatomia di una (...)

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> VIDAL-NAQUET, KANT, E CARLO GINZBURG. TRACCE PER UNA STORIOGRAFIA CRITICA. --- IL PRECEDENTE DEGLI ARMENI. Intervista a Pierre Vidal-Naquet (di Marco Bellini)

martedì 14 aprile 2015

IL PRECEDENTE DEGLI ARMENI

Intervista a Pierre Vidal-Naquet

realizzata da Marco Bellini [1996]*

      • Pensare all’unicità assoluta della Shoah non ha senso. Lo sterminio degli armeni, seppur non industriale, ha costituito il grande precedente. L’intento genocida si propone l’eliminazione di qualcuno per il solo fatto che è nato. Il caso di Srebrenica dove le donne sono state risparmiate. La confusione fra Dachau e Treblinka. Intervista a Pierre Vidal-Naquet.

      • Pier­re Vi­dal-Na­quet è uno dei mag­gio­ri sto­ri­ci del­la Gre­cia an­ti­ca. Di­ri­ge il cen­tro Louis Ger­net a Pa­ri­gi. Sul te­ma del­lo ster­mi­nio de­gli ebrei ha pub­bli­ca­to re­cen­te­men­te Ré­fle­xions sur le gé­no­ci­de (Ed. La Dé­cou­ver­te 1995).

Si può par­la­re di uni­ci­tà del­la Shoah?

Non ho mai cre­du­to a una uni­ci­tà as­so­lu­ta del­la Shoah. In par­ti­co­la­re, ho sem­pre pen­sa­to che il mas­sa­cro de­gli ar­me­ni nel 1915 ab­bia co­sti­tui­to un pre­ce­den­te ter­ri­bi­le. Be­nin­te­so, per mas­sa­cra­re gli ar­me­ni non si so­no im­pie­ga­ti dei mez­zi in­du­stria­li, è sta­to un la­vo­ro "ar­ti­gia­na­le", se co­sì pos­so di­re, per com­pie­re il qua­le i di­ri­gen­ti tur­chi han­no fat­to af­fi­da­men­to su un po­po­lo che era il ri­va­le di sem­pre de­gli ar­me­ni, cioè il po­po­lo cur­do. In­fat­ti, una gran par­te del mas­sa­cro de­gli ar­me­ni è sta­ta ope­ra dei cur­di. Ma le te­ste pen­san­ti a Istan­bul e Co­stan­ti­no­po­li era­no te­ste fred­de e mo­der­ne: En­ver Pa­scià era un uo­mo dal com­por­ta­men­to del tut­to ra­zio­na­le e quan­do si leg­go­no le sue in­ter­vi­ste con il pa­sto­re Lep­tius, (pa­sto­re pro­te­stan­te te­de­sco, pre­si­den­te del­l’As­so­cia­zio­ne per l’a­mi­ci­zia te­de­sco-ar­me­na, che per pri­mo in Eu­ro­pa, nel 1916-17, die­de te­sti­mo­nian­za del mas­sa­cro de­gli ar­me­ni av­ve­nu­to nel­l’Im­pe­ro Ot­to­ma­no, ndr) o te­sti si­mi­li, non vi so­no dub­bi al ri­guar­do.
-  D’al­tron­de, qual­cu­no ave­va pre­det­to in mo­do straor­di­na­rio quel­lo che sa­reb­be suc­ces­so agli ebrei, pro­prio ope­ran­do una com­pa­ra­zio­ne an­ti­ci­pa­ta con il ge­no­ci­dio ar­me­no del 1915. Par­lo di Franz Wer­fel, scrit­to­re ebreo au­stria­co, che nel 1932, po­co pri­ma del­l’av­ven­to di Hi­tler al po­te­re, scris­se un li­bro in­ti­to­la­to I qua­ran­ta gior­ni di Mus­sa Da­gh, che co­sti­tui­sce un’a­na­li­si ma­gi­stra­le del ge­no­ci­dio de­gli ar­me­ni. E’ un li­bro as­so­lu­ta­men­te straor­di­na­rio, che ri­leg­go di tan­to in tan­to, e che ha un va­lo­re di an­ti­ci­pa­zio­ne: in es­so, em­ble­ma­ti­ca­men­te, un ebreo, par­lan­do di una mon­ta­gna chia­ma­ta sim­bo­li­ca­men­te "La mon­ta­gna di Mo­sè", per­ché Mus­sa vuol di­re Mo­sè, de­scri­ve mol­to net­ta­men­te la vo­lon­tà ster­mi­na­tri­ce dei tur­chi, a pro­po­si­to del­la qua­le noi og­gi ab­bia­mo a di­spo­si­zio­ne nu­me­ro­si do­cu­men­ti. -E’ usci­to ora in Fran­cia un pic­co­lo li­bro il cui au­to­re è Le­slie Da­vis e il ti­to­lo del­la tra­du­zio­ne fran­ce­se è La pro­vin­ce de la mort. In es­so so­no rac­col­ti i rap­por­ti in­via­ti da un con­so­le ame­ri­ca­no, che si tro­va­va in mez­zo al­l’A­na­to­lia, al suo go­ver­no. Non si trat­ta di do­cu­men­ti ri­vi­sti in se­gui­to dal­l’au­to­re, co­me for­se po­treb­be­ro es­se­re le me­mo­rie del­l’am­ba­scia­to­re ame­ri­ca­no a Co­stan­ti­no­po­li Mor­gen­thau: so­no do­cu­men­ti pre­si dal vi­vo, scrit­ti sul mo­men­to da qual­cu­no che, per di più, non ama­va af­fat­to gli ar­me­ni. Di con­se­guen­za, per quel­lo che ri­guar­da il ge­no­ci­dio de­gli ar­me­ni, non nu­tro al­cun dub­bio. E nean­che le obie­zio­ni mi sem­bra­no va­li­de.
-  Per esem­pio, si di­ce che gli ar­me­ni che si con­ver­ti­ro­no al­l’I­slam, sfug­gi­ro­no, al­me­no in li­nea di prin­ci­pio, al mas­sa­cro, que­sto, pe­rò, non di­mi­nui­sce il fat­to che si so­no uc­ci­si gli ar­me­ni per­ché era­no ar­me­ni. Ascol­to spes­so spie­ga­zio­ni del ti­po: "Sì, ma è sta­to un at­to mi­li­ta­re, per­ché gli ar­me­ni era­no ne­mi­ci dei tur­chi, era­no fi­lo-rus­si". Che gli ar­me­ni non aves­se­ro il go­ver­no tur­co nel cuo­re non è del tut­to fal­so, ma non si può spie­ga­re con ciò il fat­to che nel cen­tro del­l’A­na­to­lia si rac­co­glies­se­ro gli ar­me­ni per uc­ci­der­li. Si può com­pren­de­re un fe­no­me­no di fron­tie­ra nel­la re­gio­ne del Cau­ca­so, ma non si può com­pren­de­re il fat­to che tut­to ciò sia av­ve­nu­to nel cuo­re del­l’A­na­to­lia.
-  In­som­ma, per­so­nal­men­te tro­vo che il raf­fron­to con la Shoah sia mol­to evi­den­te, con al­cu­ne dif­fe­ren­ze. In pri­mo luo­go, lo ster­mi­nio de­gli ar­me­ni non ha as­sun­to quel ca­rat­te­re in­du­stria­le che in­ve­ce ha avu­to lo ster­mi­nio de­gli ebrei du­ran­te la se­con­da guer­ra mon­dia­le. In se­con­do luo­go, men­tre gli ar­me­ni era­no ri­co­no­sci­bi­li co­me ar­me­ni sot­to ogni aspet­to, l’e­breo te­de­sco, per l’es­sen­zia­le, in nul­la po­te­va es­se­re di­stin­gui­bi­le da un te­de­sco or­di­na­rio. Gli ar­me­ni era­no per­ce­pi­ti co­me una po­po­la­zio­ne stra­nie­ra. Quel che è ab­ba­stan­za stra­no nel ca­so de­gli ar­me­ni è che ave­va­no avu­to un ruo­lo im­por­tan­te nel mo­vi­men­to dei Gio­va­ni Tur­chi che nel 1908 ave­va pre­so il po­te­re. Il ge­no­ci­dio è sta­to un fe­no­me­no evi­den­te­men­te le­ga­to al­la guer­ra, ma an­che il ge­no­ci­dio de­gli ebrei è le­ga­to al­la guer­ra, in par­ti­co­lar mo­do al­la guer­ra al­l’e­st. Co­me giu­sta­men­te ha mes­so in lu­ce Ar­no Mayer, il giu­deo-bol­sce­vi­smo era uno dei fan­ta­smi di Hi­tler.

Quan­do si può par­la­re di ge­no­ci­dio?

Il ca­rat­te­re di ge­no­ci­dio è da­to dal fat­to che si uc­ci­do­no le per­so­ne non per­ché han­no fat­to que­sto e que­st’al­tro, ma sem­pli­ce­men­te per­ché so­no na­te. A mio av­vi­so, per esem­pio, si può par­la­re di ge­no­ci­dio in Ruan­da. Un’a­mi­ca mol­to ca­ra mi ha det­to che non si era in pre­sen­za di un ge­no­ci­dio per­ché il 30% di mor­ti era co­sti­tui­to da hu­tu, i co­sid­det­ti "hu­tu mo­de­ra­ti". Sen­za dub­bio, ma il 70% era co­sti­tui­to da tu­tsi, che pu­re non era­no pic­co­li agnel­li in­no­cen­ti, ma spes­so, a lo­ro vol­ta, au­to­ri di mas­sa­cri; tut­ta­via, non c’è dub­bio che ci sia sta­ta la vo­lon­tà di ster­mi­na­re i tu­tsi. Sem­pli­ce­men­te, tut­to ciò è av­ve­nu­to in Afri­ca e di con­se­guen­za que­sto ca­rat­te­re ge­no­ci­da lo si è vi­sto me­no. C’è sta­to un ge­no­ci­dio, sot­to mol­ti aspet­ti, nel­la Cam­bo­gia di Pol Pot, do­ve so­no sta­ti uc­ci­si i com­po­nen­ti di quel­lo che era chia­ma­to "il po­po­lo nuo­vo", sem­pli­ce­men­te per­ché non era­no sta­ti al­la mac­chia in­sie­me ai Kh­mer ros­si, per­ché era­no abi­tan­ti del­le cit­tà.

E’ pos­si­bi­le par­la­re di un ge­no­ci­dio in Bo­snia?

Di­rei che ci so­no de­gli ele­men­ti di ge­no­ci­dio, ma non c’è sta­to un ge­no­ci­dio ge­ne­ra­liz­za­to. Quan­do, do­po la pre­sa di Sre­bre­ni­ca, si so­no uc­ci­si quan­ti più uo­mi­ni pos­si­bi­le per­ché mu­sul­ma­ni o per­ché avreb­be­ro po­tu­to ser­vi­re nel­l’e­ser­ci­to bo­snia­co, è evi­den­te che que­sta è un’a­zio­ne che pre­sen­ta aspet­ti di ge­no­ci­dio. E cer­ta­men­te i croa­ti non si so­no com­por­ta­ti a Mo­star me­glio di quan­to si sia­no com­por­ta­ti i ser­bi a Sre­bre­ni­ca. Non so­no d’al­tra par­te as­so­lu­ta­men­te cer­to che i mu­sul­ma­ni sia­no com­ple­ta­men­te pu­ri, ma, al­la fi­ne, non han­no avu­to la pos­si­bi­li­tà, e for­se nem­me­no la vo­lon­tà, di ster­mi­na­re gli al­tri. Det­to ciò, è as­so­lu­ta­men­te cri­mi­na­le quel che han­no fat­to i ser­bi! E’ cri­mi­na­le e fa pen­sa­re a un fe­no­me­no pre­sen­te nel­la sto­ria del­l’Im­pe­ro Ot­to­ma­no: si ta­glia­no le te­ste dei ne­mi­ci e se ne fan­no del­le mon­ta­gne. E’ una vec­chia im­ma­gi­ne, che si ri­tro­va già nel­l’O­rien­te as­si­ro: il re vin­ci­to­re che con­tem­pla mon­ta­gne di te­ste. Que­sto fat­to ci di­ce che il rap­por­to del sim­bo­li­co con la real­tà è una co­sa po­co co­no­sciu­ta. Pur non aven­do al­cu­na in­dul­gen­za nei con­fron­ti dei ser­bi, esi­to, tut­ta­via, a im­pie­ga­re la pa­ro­la "ge­no­ci­dio". Si uc­ci­do­no, è ve­ro, dei mu­sul­ma­ni per­ché so­no cir­con­ci­si, li si ri­co­no­sce dal­la cir­con­ci­sio­ne: a un mu­sul­ma­no ven­go­no ca­la­te le mu­tan­de, si ve­de se è cir­con­ci­so, lo si uc­ci­de; mol­ti so­no gli esem­pi di que­sto ge­ne­re. Non c’è sta­to, pe­rò, il pro­get­to di ster­mi­na­re tut­ti i mu­sul­ma­ni.
-  Che a Sre­bre­ni­ca non sia­no sta­te uc­ci­se le don­ne bo­snia­che è un ele­men­to di dif­fe­ren­za ve­ra­men­te im­pres­sio­nan­te: se si ri­spar­mia­no, pur vio­len­tan­do­le, le don­ne, non si ha a che fa­re con qual­co­sa del­la stes­sa na­tu­ra del­la Shoah.
-  Le fa­rò un al­tro esem­pio: nel 1982, quan­do l’e­ser­ci­to israe­lia­no in­va­se il Li­ba­no, ho vi­sto la gen­te sfi­la­re sot­to uno stri­scio­ne: "Ab­bas­so il ge­no­ci­dio del po­po­lo li­ba­no-pa­le­sti­ne­se". Ora, al di là del fat­to che non esi­ste al­cun po­po­lo li­ba­no-pa­le­sti­ne­se, lo sco­po de­gli israe­lia­ni non era cer­to quel­lo di ster­mi­na­re tut­ti gli ara­bi, ma sem­mai quel­lo di re­spin­ger­li. E’ sta­to sen­z’al­tro cri­mi­na­le, è sta­to con­dan­na­to al­l’e­po­ca mol­to du­ra­men­te, ma an­che in que­sto ca­so, an­co­ra, si può par­la­re di pul­sio­ni ge­no­ci­de in un af­fai­re co­me Sa­bra e Cha­ty­la, sen­za al­cun dub­bio, ma tut­to ciò non fa par­te di un si­ste­ma ge­no­ci­da.

Dun­que il con­cet­to di uni­ci­tà del­la Shoah non è cor­ret­to...

No. Du­ran­te la se­con­da guer­ra mon­dia­le c’è sta­to, ol­tre al ge­no­ci­dio de­gli ebrei, quel­lo de­gli zin­ga­ri, me­no com­ple­to e me­no si­ste­ma­ti­co di quel­lo de­gli ebrei, cio­non­di­me­no an­che gli zin­ga­ri ve­ni­va­no uc­ci­si in quan­to zin­ga­ri. C’è sta­ta an­che la vo­lon­tà di di­strug­ge­re i qua­dri del­la Po­lo­nia: i pre­ti, i pro­fes­so­ri uni­ver­si­ta­ri, ecc., co­sì co­me i com­mis­sa­ri po­li­ti­ci del­l’U­nio­ne So­vie­ti­ca. Le Ein­sa­tz­trup­pen, che di fat­to so­no al­la ba­se del­la ma­ni­fe­sta­zio­ne pri­ma­ria del ge­no­ci­dio de­gli ebrei, era­no in­ca­ri­ca­te di uc­ci­de­re an­che i com­mis­sa­ri po­li­ti­ci bol­sce­vi­chi, que­sto è as­so­lu­ta­men­te cer­to. Det­to que­sto, pe­rò, bi­so­gna ri­co­no­sce­re che non si è vo­lu­to ster­mi­na­re i po­lac­chi sem­pli­ce­men­te per­ché era­no po­lac­chi e i rus­si per­ché rus­si. In que­sto sen­so, du­ran­te la se­con­da guer­ra mon­dia­le il ca­rat­te­re uni­co del­la Shoah è im­pres­sio­nan­te.

Per­ché al­lo­ra que­sto con­cet­to di uni­ci­tà, al­me­no in Ita­lia, è an­co­ra co­sì ra­di­ca­to?

In Ita­lia ave­te una leg­ge­ra ten­den­za a uti­liz­za­re for­mu­la­zio­ni un po’ esa­ge­ra­te. Mi ri­cor­do di aver let­to dei li­bri ita­lia­ni su que­sto o quel "cam­po di ster­mi­nio", e que­sti "cam­pi di ster­mi­nio" era­no tal­vol­ta dei cam­pi di pri­gio­nie­ri di guer­ra, tal­vol­ta dei cam­pi di de­por­ta­zio­ne co­me Bu­che­n­wald o Da­chau che non era­no af­fat­to dei cam­pi di ster­mi­nio. Di con­se­guen­za, pen­so che pur ri­cor­dan­do che il si­ste­ma di ster­mi­nio era con­te­nu­to nel si­ste­ma di con­cen­tra­men­to, - que­sto è un fat­to in­con­te­sta­bi­le-, bi­so­gna quan­to me­no ri­cor­da­re che a Bu­che­n­wald e a Da­chau quan­do si scen­de­va dal tre­no non si era im­me­dia­ta­men­te ga­sa­ti. Que­sta è una gran­de dif­fe­ren­za, e si è im­pie­ga­to mol­to tem­po per ac­cor­ger­si di que­sta dif­fe­ren­za. Se lei pren­de i li­bri de­gli an­ni im­me­dia­ta­men­te suc­ces­si­vi al­la guer­ra, ve­drà che il sim­bo­lo del­l’im­pre­sa na­zi­sta del­lo ster­mi­nio non è Au­sch­wi­tz, ma Bu­che­n­wald. Que­sto per­ché era lì che era sta­to ri­tro­va­to il mag­gior nu­me­ro di su­per­sti­ti.
-  E Au­sch­wi­tz ha pre­val­so, qua­le sim­bo­lo del­la Shoah, su Tre­blin­ka, che era un cen­tro di pu­ro ster­mi­nio, per­ché ad Au­sch­wi­tz è sta­to ri­tro­va­to un nu­me­ro mag­gio­re di su­per­sti­ti, di te­sti­mo­ni: i te­sti­mo­ni di Tre­blin­ka pos­so­no con­tar­si let­te­ral­men­te sul­le di­ta di una ma­no. Tre­blin­ka era un cam­po do­ve una vol­ta ar­ri­va­ti si era im­me­dia­ta­men­te ga­sa­ti. Non re­sta­va in vi­ta che un pic­co­lis­si­mo nu­me­ro di per­so­ne ne­ces­sa­rio per far fun­zio­na­re la mac­chi­na.

Dun­que, fra lo ster­mi­nio e la stes­sa lo­gi­ca con­cen­tra­zio­na­ria c’è un sal­to?

C’è un sal­to, ma si iscri­vo­no in un in­sie­me, quel­lo hi­tle­ria­no, nel qua­le la de­ten­zio­ne con­cen­tra­zio­na­ria del ne­mi­co, del ne­mi­co rea­le o pre­sun­to, de­ri­va, co­me Han­nah Arendt ha pro­fon­da­men­te sen­ti­to, dal­la vo­lon­tà na­zi­sta di sop­pri­me­re il Po­li­ti­co. A par­ti­re dal mo­men­to in cui si sop­pri­me il Po­li­ti­co, ci si ar­ro­ga il di­rit­to non di di­scu­te­re con il pro­prio ne­mi­co, ma di met­ter­lo da par­te e, nel ca­so estre­mo, di eli­mi­nar­lo.

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FONTE: UNA CITTÀ n. 51 / 1996 Giugno-Luglio


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