Una Repubblica turca costruita sulla negazione delle minoranze
Il genocidio armeno e i suoi sviluppi ulteriori
L’arresto e l’esecuzione delle élite intellettuali armene di Istanbul nella notte dal 24 al 25 aprile 1915 segnano l’inizio del genocidio. In qualche mese i due terzi degli armeni dell’Impero ottomano, ovvero circa un milione trecentomila persone, scompaiono. Da cent’anni in qua, tutte le minoranze della Turchia pagano il prezzo dell’impunità e delle denegazioni dello Stato.
Vicken Cheterian, giornalista, autore di War and Peace in the Caucasus: Russia’s Troubled Frontier, C. Hurst - Columbia University Press, New York, 2009
Le Monde Diplomatique, edizione online, aprile 2015
http://www.monde-diplomatique.fr/2015/04/CHETERIAN/52845
(Traduzione dal francese di José F. Padova)
Istanbul, novembre 2013. Una conferenza dedicata agli Armeni islamizzati riempie per la terza giornata di fila una sala di quattrocento posti all’Università del Bosforo. Una giovane donna si alza e prende la parola: «Su Internet ho seguito la conferenza per due giorni. E ho deciso di venire qui oggi per raccontarvi la storia di mio nonno, che è stato uno di loro». Se ha sentito la necessità di raccontare la conversione forzata del suo progenitore, parla anche di ciò che lei stessa ha vissuto - e della società nella quale vive.
Dopo il genocidio del 1915-1916 il destino degli armeni islamizzati e «turchizzati» a forza è restato un argomento tabù. Si è dovuto aspettare novant’anni perché un’avvocatessa turca e militante per i diritti umani, la signora Fethiye Cetin, osasse rompere il silenzio pubblicando le Memorie di sua nonna, una giovane armena la cui famiglia fu deportata e massacrata, mentre lei stessa era stata portata via e sistemata presso una famiglia turca (1). Le hanno allora scritto dozzine di persone asservite a quel medesimo destino. Quando ne ha raccolto le testimonianze in un nuovo libro (2), nessuno ha voluto veder reso pubblico il suo nome e neppure altre informazioni, come la sua data di nascita.
Resta difficile contare i discendenti delle due o trecentomila donne e bambini armeni che sono stati convertiti a forza. Il loro numero potrebbe raggiungere i due milioni. Durante lunghi anni hanno mantenuto il silenzio sulle loro origini e sul destino subito dai loro progenitori. Eppure, tutt’attorno a essi lo si sapeva. I loro vicini di casa consideravano con disprezzo questi convertiti, che non avevano aderito all’islam per fede ma per interesse, per sfuggire a morte certa. Indicati con l’espressione «gli avanzi della spada» (3), nella società turca contemporanea sono stati stigmatizzati. Per di più lo Stato conservava i documenti sulle loro origini e sbarrava loro l’accesso a determinati posti, per esempio nelle forze armate o nella scuola.
Spoliazione dei beni e della memoria
Commemorare il genocidio armeno, il centenario del quale cadrà il 24 aprile prossimo, non rientra soltanto nel campo del ricordo. Esso rivela cose che riguardano i vivi e getta una luce spietata sulla moderna civilizzazione e su alcuni dei suoi gravi fallimenti. Non soltanto essa non ha reso giustizia alle vittime, ma ha tollerato un secolo di diniego del crimine da parte della Turchia, come pure l’indifferenza di chi guardava. Lo Stato turco nega ancora che abbia avuto luogo un genocidio, pretendendo che gli eccidi fossero dovuti a conflitti fra comunità, che la deportazione dell’intera popolazione armena fosse una necessità militare in tempo di guerra, perfino che gli armeni fossero ribelli, colpevoli essi stessi degli assassini di massa o di essere al servizio degli interessi della Russia.
Che succede quando un genocidio avviene, quando un popolo è annientato all’ombra di un conflitto più grande e la classe politica internazionale si comporta in seguito come se nulla fosse successo? Che prezzo paghiamo per il fallimento della giustizia e quali sono le conseguenze sulla nostra cultura politica?
Un crimine che non è riconosciuto come tale può ripetersi. Gli armeni, che erano stati l’obiettivo principale del genocidio, non furono i soli: i greci ottomani, gli assiri e gli yazidi furono ugualmente vittime di massacri e di deportazioni miranti ad annientarli in quanto comunità (4). Alla fine della guerra, quando l’Impero ottomano, sconfitto, fu occupato dalle forze alleate, alcuni sopravvissuti armeni e assiri tornarono alle loro case. Ma dopo la guerra d’indipendenza, le vittoriose forze nazionaliste turche di Mustafa Kemal Atatürk si dedicarono a uno scambio di popolazioni con la Grecia e costrinsero coloro che erano ritornati a esiliarsi in Siria, sotto dominio francese, o in Iraq, controllato dai britannici. Così l’intera Anatolia fu svuotata dalle sue popolazioni cristiane.
Istanbul, la cui popolazione era in gran parte cristiana, fu il solo luogo in cui Greci e Armeni continuarono a vivere dopo il cataclisma. Una violenza di stato devastante si accanì in permanenza contro di essi, in duplice maniera: privandoli dei loro mezzi di sussistenza economica e mettendo in pericolo la loro incolumità fisica. Negli anni ’30 una grande quantità di beni appartenenti alla Chiesa e alle Opere armene fu confiscata, fra li altri il cimitero di Pangalti, vicino al parco Gezi, dove ormai svettano hotel di lusso. La comunità ebraica benestante della Turchia europea fu decimata a conclusione di massacri organizzati dallo Stato turco, nei «pogrom della Tracia del 1934 (5)». La Seconda guerra mondiale fornì una nuova occasione per aggredire le minoranze erodendo la loro posizione economica. Con il pretesto di lottare contro gli «speculatori», il governo introdusse un’imposta sulla ricchezza, pagabile unicamente in denaro contante, il cui ammontare era stimato in modo arbitrario dagli agenti fiscali comunali e variava secondo le comunità, poiché un armeno poteva essere assoggettato a un’imposta cinquanta volte maggior di quella di un «musulmano» (6). Questa «imposta» mirava a eliminare la borghesia delle minoranze, le cui proprietà erano vendute ai musulmani a un prezzo molto inferiore al loro valore. Quanto a coloro che non furono in grado di pagarla, non soltanto si confiscarono i loro beni, ma essi furono esiliati in campi di lavoro forzato vicino a Erzurum, all’est del Paese.
Il conflitto per Cipro decimò ancor più le minoranze. Nel settembre 1955 alcuni pogrom orchestrati dallo Stato scoppiarono a Istanbul in seguito a voci false di un attentato contro la casa di Atatürk a Salonicco, in Grecia. I servizi segreti fecero venire a Pera (l’attuale Beyoglu) interi autobus di individui che aggredirono le imprese, le scuole e le istituzioni religiose appartenenti a greci e ad altre minoranze, mentre la polizia si limitava a osservare, intervenendo soltanto quando i facinorosi se la prendevano per sbaglio con beni appartenenti a musulmani. Questi maltrattamenti costrinsero decine di migliaia di greci all’esilio.
In Anatolia la memoria delle popolazioni deportate fu cancellata. L’abbandono dell’alfabeto arabo per quello latino, imposto da Atatürk, è stato celebrato per decenni come una vittoria della «modernità». Ma diede anche la possibilità che decine di migliaia di nomi geografici con consonanza armena, assira, curda o araba fossero sostituiti da denominazioni con assonanza turca. Migliaia di chiese e monasteri furono fatti saltare con la dinamite (7). Due paragoni danno un’idea della misura di questa cancellazione. Nel 1914 la popolazione armena nell’Impero ottomano rappresentava, secondo il Patriarcato armeno, circa due milioni di abitanti su un totale stimato di sedici fino a venti milioni: oggi in Turchia non restano che circa sessantamila armeni, soltanto quaranta chiese sono ancora in piedi, delle quali trentaquattro a Istanbul.
Durante lunghi anni gli attivisti in cerca di giustizia hanno fatto valere che, se il genocidio non fosse stato riconosciuto, si sarebbero incoraggiati nuovi crimini. Durante la prima guerra mondiale l’esercito ottomano era sotto il controllo tedesco e migliaia di ufficiali tedeschi assistettero direttamente, o perfino parteciparono, all’eliminazione dei cristiani ottomani (8). La Germania del periodo fra le due Guerre, in preda a una grave crisi, non ne trasse alcuna lezione; i nazisti presero esempio anche dai nazionalisti turchi (9).
Ma è proprio in Turchia che si possono vedere le conseguenze peggiori di questa impunità. Nelle province orientali i curdi, che avevano svolto un ruolo essenziale nel genocidio degli armeni ottomani, furono ben presto stigmatizzati a loro volta. Essi erano rimasti fedeli di volta in volta agli Ottomani, ai Giovani Turchi e ad Atatürk. Ma quest’ultimo tradì la sua promessa di accordare loro l’autonomia e mise fine al califfato per instaurare uno Stato nazionale turco. Quando i curdi si rivoltarono le loro sollevazioni furono schiacciate e seguite da massacri e deportazioni. Fu loro persino rifiutata l’esistenza di un’identità curda. Semplicemente essi non esistevano e chiunque osasse dire il contrario era punito.
La chiave di volta dello «Stato profondo»
La Turchia non è riuscita a sbarazzarsi dell’eredità tragica del genocidio. La struttura [statale] responsabile del crimine costituì in seguito la spina dorsale della Repubblica kemalista, nata sulle rovine dell’Impero. L’Organizzazione speciale (OS o Teskilati Mahsusa) era una struttura segreta all’interno del Comitato Unione e Progresso (CUP), il partito al potere sotto l’Impero ottomano, creata allo scopo di fomentare l’agitazione nelle popolazioni ottomane degli imperi zarista e britannico. Se questa missione fallì sul fronte esterno, l’OS svolse invece un ruolo-chiave sul fronte interno, nell’organizzazione delle deportazioni e dei massacri. Gli ex ufficiali dell’OS intervennero in modo decisivo durante la guerra d’indipendenza (1920-1922) lanciata da Atatürk contro le forze greche, francesi e britanniche, prima di formare la chiave di volta dello «Stato profondo»: una rete di ufficiali all’interno della Repubblica turca, che godevano di potere illimitato e che sfuggivano a ogni inquadramento legale. Essi repressero sistematicamente i progressi democratici della società, commettendo assassinii politici e combattendo tanto la guerriglia curda quanto quella di sinistra. E si diedero anche, al riparo di uno Stato-schermo, a un enorme traffico di droga (10).
La violenza del passato nutre la violenza. Durante la guerra dell’Alto Karabakh, Ankara ha subito preso partito a favore dell’Azerbaijan. Dal 1993 in poi mantiene un blocco contro l’Armenia e contro l’antica repubblica autonoma che di fatto le è collegata (11). La frontiera turco-armena resta ermeticamente chiusa e pesantemente sorvegliata, come al culmine della Guerra fredda. Il viaggio del presidente Abdullah Gül a Erevan e la firma del Protocollo di Zurigo nell’ottobre 2009 hanno fatto pensare che la Turchia potrebbe intervenire in modo positivo e contribuire a una soluzione di pace (12). Ma i testi non sono mai stati ratificati. Il Presidente armeno Serge Sarkissian il 16 febbraio scorso ha annunciato che il suo Paese si ritirava dal Protocollo e denunciava «l’assenza di volontà politica del governo turco» e «l’alterazione costante che esso causa allo spirito e ai termini del Protocollo». Ankara sembra incoraggiare il governo dell’Azerbaijan alla conservazione di una posizione massimalista, mentre quest’ultimo minaccia sempre regolarmente di ricorrere alla forza per risolvere il conflitto.
Dopo un silenzio durato molti decenni la Turchia ha improvvisamente ritrovato la memoria degli Armeni, grazie al lavoro di un pugno di uomini e donne coraggiosi. Ragip Zarakolu, difensore dei diritti umani ed editore, ha tradotto in turco diversi libri sul genocidio armeno, ciò che è costato a lui e a sua moglie di essere perseguito e incarcerato a più riprese. Taner Akçam ha avviato ricerche sulla tortura in Turchia che lo hanno condotto a scoprire i massacri di Armeni alla fine del XIX secolo e, alla fine, il genocidio. La sua collaborazione con l’eminente storico armeno Vahakn Dadrian ha dato alla luce un certo numero di opere storiche e ha ristabilito legami e amicizia fra intellettuali armeni e turchi che il genocidio aveva interrotto (13).
Un piccolo gruppo di professori dell’Università del Michigan ha cominciato a studiare la storia turco-armena in una prospettiva di ricerca interdisciplinare. Le sette conferenze internazionali che hanno organizzato hanno permesso di fare uscire il genocidio armeno dai margini del mondo universitario per metterlo al centro degli studi ottomani e di quelli relativi al genocidio (14).
Ma spetta a Hrant Dink, giornalista turco-armeno e redattore del settimanale Agos, il merito di aver attirato, egli da solo, l’attenzione dell’opinione pubblica turca sulla questione armena. Egli si è rivolto alla coscienza dei turchi con parole semplici: c’era un popolo chiamato gli Armeni che viveva su queste terre, non c’è più, che cosa gli è successo? Dink è stato perseguitato dallo Stato, trascinato da un processo all’altro, finché fu assassinato in pieno giorno davanti alla sede del suo giornale, nel 2007. Questo assassinio ha suscitato una manifestazione di massa, in cui le centomila persone che seguivano il suo feretro cantavano: «Noi siamo tutti Hrant Dink! Noi siamo tutti Armeni». Dink ha detto un giorno che i due popoli sono malati: «Gli Armeni soffrono di traumatismo, i Turchi di paranoia». Si può sperare che la verità abbia il potere di guarire?
Columbia University Press, New York, 2009.
(1) Fethiye Cetin, Le Livre de ma grand-mère, L’Aube, La Tour-d’Aigues, 2006.
(2) Ayse Gül Altinay et Fethiye Cetin, Les Petits-Enfants, Actes Sud, Arles, 2011.
(3) Laurence Ritter et Max Sivaslian, Les Restes de l’épée. Les Arméniens cachés et islamisés de Turquie, Thaddée, Paris, 2012.
(4) Cf. par exemple Joseph Yacoub, Qui s’en souviendra ? 1915 : le génocide assyro-chaldéo-syriaque, Cerf, Paris, 2014.
(5) Cf. Rifat N. Bali, Model Citizens of the State : The Jews of Turkey During the Multi-Party Period, Fairleigh Dickinson, Madison, 2012.
(6) Cf. Stanford J. Shaw et Ezel Kural Shaw, History of the Ottoman Empire and Modern Turkey, vol. 2, Cambridge University Press, 1977.
(7) Pour plus de détails, cf. Raymond Kévorkian, Le Génocide des Arméniens, Odile Jacob, Paris, 2006, et Raymond Kévorkian et Yves Ternon, Mémorial du génocide des Arméniens, Seuil, Paris, 2014.
(8) Cf. Vahakn N. Dadrian, German Responsibility in the Armenian Genocide : A Review of the Historical Evidence of German Complicity, Blue Crane Books, Watertown, 1998.
(9) Cf. Stefan Ihrig, Atatürk in the Nazi Imagination, Harvard University Press, Cambridge, 2014.
(10) Lire Kendal Nezan, « La Turquie, plaque tournante du trafic de drogue », Le Monde diplomatique, juillet 1998. Cf. aussi Ryan Gingeras, Heroin, Organized Crime, and the Making of Modern Turkey, Oxford University Press, New York, 2014.
(11) Lire Philippe Descamps, « Des récits irréconciliables », Le Monde diplomatique,décembre 2012.
(12) Cf. le chapitre III de War and Peace in the Caucasus : Russia’s Troubled Frontier,Hurst & Company, 2009.
(13) Cf., par exemple, Vahakn N. Dadrian et Taner Akçam, Judgment at Istanbul : The Armenian Genocide Trials, Berghahn Books, New York, 2011.
(14) Certains de leurs travaux ont été publiés dans Ronald Grigor Suny, Fatma Müge Göçek et Norman M. Naimark (sous la dir. de), A Question of Genocide : Armenians and Turks at the End of the Ottoman Empire, Oxford University Press, 2011.