Le tesi deliranti di Faurisson, morto a 89 anni: dove osano i negazionisti
La Soluzione Finale? “Un pacifico trasferimento di ebrei”. Le camere a gas? “Mai esistite”
di Elena Loewenthal (La Stampa, 23.10.2018)
Se ricordare la storia della Shoah è diventato un imperativo morale lo si deve anche a Robert Faurisson, lo storico francese negazionista nato nel 1929 e morto ieri a Vichy. Per lui le camere a gas non erano mai esistite perché tecnicamente non potevano funzionare, sulla base di presunti studi dedicati alla forma delle porte, alle dimensioni dei pertugi da cui passava lo Zyklon B. Per lui Hitler non aveva mai neanche pensato di perseguitare chicchessia a causa della sua razza o della sua religione, per lui il diario di Anne Frank - sul quale si accanì con una attenzione degna di un manuale di psicanalisi più che di storiografia - era un falso. Per lui la conferenza di Wansee del 1942, in cui venne costruita la strategia operativa della Soluzione Finale, fu dedicata all’organizzazione di un pacifico trasferimento delle masse ebraiche verso Est.
Nato a Shepperton, Inghilterra, da padre francese e madre scozzese, Faurisson si era laureato alla Sorbona e aveva fatto l’insegnante di Lettere nei licei - venendo peraltro ripetutamente segnalato alle autorità scolastiche per le sue invettive razziste - prima di avviarsi nel 1969 alla carriera accademica. Dal 1973 al 1980 insegnò letteratura contemporanea presso la Seconda Università di Lione. Il 29 dicembre 1978 pubblica su Le Monde un testo intitolato «Il problema delle camere a gas», in cui si dichiara convinto che non siano mai esistite. Nelle settimane successive escono sul giornale francese molte obiezioni e testimonianze, a firma fra gli altri di Pierre Vidal-Naquet e di Léon Poliakov. A seguito di questo affaire, Faurisson viene sospeso dall’università e dal 1980 sino al suo pensionamento è trasferito su sua richiesta al Centre National de Télé-Enseignement (Cnte).
Se l’episodio del 1978 sta al centro della sua vicenda, la carriera «intellettuale» di Faurisson è costellata di tali esternazioni. La sua cifra culturale fu sempre la provocazione, la negazione della Shoah fu l’ossessione della sua vita. E di negazione si trattava, non di revisionismo critico. Faurisson scagliava le sue tesi, formulava le sue domande retoriche, osservava il panorama di repliche e il polverone che ne veniva fuori costituiva per lui l’evidenza del fatto che non esistesse prova alcuna per dimostrare che la Shoah fosse avvenuta.
Il primo «affaire Faurisson» innescò infatti una catena di «scandali» che il 1980 e il 1990 lo coinvolsero insieme con altri personaggi della galassia negazionista, di cui il più celebre adepto è il britannico David Irving: dalla difesa pubblica di militanti neonazisti al lancio di tesi sostenute da oscuri personaggi come Jean-Claude Pressac, al sostegno del negazionismo di Stato iraniano.
Forse era inevitabile che l’evento più assurdo della storia umana - lo sterminio di sei milioni di persone che, non va dimenticato, sarebbe stato l’anticamera per la costruzione di una «umanità» selezionata in cui solo gli ariani avrebbero avuto licenza di esistere - diventasse così presto l’oggetto di una stortura pseudo-storiografica. Come è stato possibile che, a poco più di trent’anni dai campi di sterminio, si negasse quella storia e ci si costruisse intorno un vero e proprio movimento d’opinione? Non erano bastate le testimonianze, le baracche di Auschwitz, il silenzio di milioni di persone sparite nel fumo dei forni crematori, a conferire alla Shoah la «dignità» della certezza.
Sarà proprio la sua natura di catastrofe inaudita ad aver dato in qualche storto modo manforte alla scuola negazionista di cui Faurisson è stato il capostipite e rimane ancor oggi il maître-à-penser. Una mente umana sana non può accettare quella storia. Eppure è stata, e non fu una mostruosa devianza: si deve accettare quello che è stato come parte innegabile del nostro passato. I negazionisti non lo accettano. Da Faurisson in poi, e con i suoi scritti non di rado deliranti come punto di riferimento, cercano di dimostrare che non è mai avvenuta, perché non era possibile che avvenisse. E dalla negazione alla nostalgia per quel tempo in cui la Shoah non sarebbe mai avvenuta, il passo è pericolosamente breve.
1 La prima delle sei installazioni che compongono il percorso multimediale della mostra, da oggi al 27 gennaio nel palazzo del Quirinale. 2. Il Presidente Sergio Mattarella (accompagnato dall’esperto di installazioni multimediali Paco Lanciano) tra i vagoni piombati ricostruiti in mostra. 3. La pagella che annunciava l’espulsione dalle scuole di tutti gli insegnanti e gli studenti ebrei per decisione del governo
Robert Faurisson, l’«inventore» della menzogna negazionista
Il personaggio. Scomparso a 89 anni a Vichy l’uomo che ha definito la strategia globale e il vocabolario dei nuovi antisemiti. Nel 1978 tentò di accreditare le sue tesi su «Le Monde». Poi, arrivò il sostegno dell’estrema destra internazionale e della Repubblica Islamica di Ahmadinejad
di Guido Caldiron (il manifesto, 23.10.2018)
Per una di quelle bizzarre casualità della storia nelle quali è lui stesso più volte inciampato nella sua lunga attività di propagandista della menzogna, se ne è andato proprio a Vichy, la cittadina il cui nome si è trasformato nel simbolo stesso del fascismo alla francese. Eppure sarebbe riduttivo considerare Robert Faurisson, scomparso domenica ad 89 anni, come una semplice figura dell’estrema destra, per quanto sia stato interprete della strategia più aggressiva e pervicace che da questi ambienti sia venuta negli ultimi decenni.
QUELLO CHE PER MOLTI VERSI può essere considerato come «l’inventore» del negazionismo riguardo l’Olocausto - non il primo ad esprimere tali posizioni, ma tra i primi a comprendere e sfruttare la pericolosa porosità del mondo dell’informazione e dei media a tali inquietanti suggestioni -, ha infatti cercato fino alla fine di affermare quella che oggi potrebbe essere forse definita coma la più terribile e oltraggiosa tra le «fake news».
Docente nei licei dell’Auvergne prima e poi all’Università di Lione II, operando sempre nel campo della critica letteraria, a metà degli anni Settanta Faurisson inizia ad indirizzare al quotidiano Le Monde una serie di missive che ruotano tutte intorno al medesimo tema, che costituirà l’autentica ossessione della sua vita. La negazione dello sterminio ebraico aveva caratterizzato neofascismo e neonazismo fin dall’immediato dopoguerra, proprio in Francia era stato uno scrittore fascista come Maurice Bardèche a cercare di riscrivere tra i primi la storia dell’Olocausto, seguito da un ex deportato passato tra le fila dei suoi carnefici come Paul Rassinier e da figure di primo piano del nascente Front National, come François Duprat, cui si deve lo slogan «prima i francesi», morto nel 1978.
MA CON LA PUBBLICAZIONE in quello stesso anno da parte di Le Monde di uno dei testi di Faurisson, intitolato «Le problème des chambres a gaz», cui seguirà un confronto sulle pagine del celebre quotidiano, l’opzione negazionista farà, seppure momentaneamente, la sua apparizione nel dibattito intellettuale, tentando di trovare spazio e legittimazione all’interno di una sedicente «battaglia delle idee». Dopo Faurisson, una lunga serie di storici dilettanti, privi di alcuna reale competenza in materia, come di documenti, materiali o testimonianze a sostegno delle loro posizioni, tenteranno di accreditare una tesi ripugnante in base alla quale la verità della Shoah corrisponderebbe invece alla «menzogna del XX secolo».
Prima che lo storico Henry Rousso attribuisca nel 1987 a questa autentica offensiva propagandistica il termine oggi consueto di «negazionismo» e che, in anni ancor più recenti, Valérie Igounet ricostruisca in Portrait d’un négationniste (Denoel), l’itinerario politico e culturale di Faurisson, nostalgico del collaborazionismo e che agli studenti dell’ateneo lionese chiedeva di riflettere sull’autenticità o meno del Diario di Anna Franck, in molti, anche a sinistra, riterranno di dover levare la propria voce a difesa della libertà di espressione di Faurisson, più volte condannato per le sue violente provocazioni nel segno della «negazione dei crimini contro l’umanità» e alla fine escluso dall’insegnamento.
MA PROPRIO mentre Faurisson e gli altri capofila del circuito europeo dei negatori della Shoah, dopo una prima apertura di credito intellettuale nei loro confronti, cominceranno a presentarsi come «vittime del sistema» e a denunciare la «repressione» nei loro confronti, l’intera strategia di cui sono portatori diverrà globale. Dopo aver incassato in un primo tempo il sostegno dell’estrema destra europea, già nel 1976 con la nascita dell’Istitute for historical review in California, finanziato dall’ideologo antisemita Willis Carto, Faurisson troverà una nuova platea internazionale, mentre i suoi scritti potranno circolare oltre i limiti delle legislazioni anti-razziste del Vecchio continente, prima di approdare alla rete. Non solo.
PER IL TRAMITE DI RADIO ISLAM, inizialmente basata a Stoccolma, i negazionisti, ancora una volta Faurisson in testa, incasseranno quindi il sostegno delle autorità iraniane che, in particolare durante l’amministrazione di Ahmadinejad, fino al 2013, organizzeranno più volte «convegni» di questo circuito a Teheran. Ed anche in Francia, il nuovo antisemitismo che specula sulle tragedie del Medioriente vedrà delle inedite convergenze intorno alla figura di Faurisson, come indica la presenza di quest’ultimo sul palco di Dieudonné una decina di anni fa.
Dalle pagine di Le Monde allo Zénith di Parigi non c’è dubbio che Robert Faurisson abbia interpretato fino in fondo la sua parte di «assassino della memoria», come scrisse Pierre Vidal-Naquet già molto tempo fa a proposito dell’offensiva del negazionismo
Faurisson, una vita dedicata alla menzogna
di Wlodek Goldkorn (la Repubblica, 23.10.2018)
Robert Faurisson, morto domenica a casa sua a Vichy, all’età di 89 anni, è stato l’uomo che ha dedicato la sua vita a demolire il più importante dei tabù su cui poggia la civiltà occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Quel tabù, recente, ma così forte da aver cambiato il nostro modo di vedere l’intera storia dell’umanità, ha un nome, che a sua volta porta il nome di un luogo maledetto e che non avrebbe dovuto esistere né essere immaginato, ma che è esistito e fu edificato da esseri umani. Umani che, a loro volta, per citare Hannah Arendt, pensavano di avere il diritto di eliminare dalla faccia della terra un’intera categoria di altri esseri umani e perfino la loro memoria. Stiamo parlando di Auschwitz. E di un tabù che esiste grazie alla forza della memoria di alcuni uomini e donne capaci di raccontare l’inenarrabile, ciascuno a modo suo; e tra questi un grande scrittore come Primo Levi e un’importante testimone come Liliana Segre.
La memoria può essere declinata in tanti modi quanti sono i testimoni, gli interpreti, gli esegeti. Essendo materia politica perché ci parla del futuro, la memoria è per definizione oggetto di contesa e di divisioni. Ma un conto è discutere sulla forma che si vuole dare al racconto della Shoah e perfino alle cause della catastrofe epistemologica, etica ed estetica della civiltà europea, altra storia è negare che la Shoah ci sia stata. Ecco, Faurisson era diventato celebre (per modo di dire) quando nel 1978 pubblicò un pamphlet in cui negava che sei milioni di ebrei fossero morti nelle camere a gas. Da allora, in Occidente, sono state fatte leggi per punire il negazionismo e lui stesso fu condannato dai tribunali, ma ancora prima dalla comunità degli storici: a partire da un gigante come Pierre Vidal-Naquet.
Finché ci sarà la memoria, ci saranno le polemiche intorno alla storiografia della Shoah. E anche il modo in cui vengono costruiti i musei per ricordare quel che è successo è stato e sarà oggetto di discussioni, spesso molto aspre. E ci fu perfino chi diceva che i campi di sterminio nazisti erano una specie di reazione al bolscevismo. Ma Faurisson è andato oltre. Ci spieghiamo: oggi, tranne qualche eccentrico, nessuno osa dichiararsi razzista, augurare l’estinzione di altri popoli; merito di una specie di super-io ormai interiorizzato, legato appunto al tabù di Auschwitz. Abolire quel tabù come voleva Faurisson avrebbe significato riaprire le porte dell’abisso.