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IL NEGAZIONISMO COME "INESISTENZIALISMO" E I VISIONARI DELLA METASTORIA COME I VISIONARI DELLA METAFISICA. Come distinguere il romanzo dalla storia? Come è possibile la conoscenza storica? Come distinguere l’illusione dall’apparenza?

VIDAL-NAQUET, KANT, E CARLO GINZBURG. TRACCE PER UNA STORIOGRAFIA CRITICA. Un invito a (rileggere Kant e) focalizzare meglio la questione. Alcune pagine da “Un Eichmann di carta” di Vidal-Naquet e una nota di Carlo Ginzburg (“La storia non si arrende alla fiction dei negazionisti") - a c. di Federico La Sala

La lezione di Vidal-Naquet sul confine tra realtà e narrazione. Carlo Ginzburg racconta come l’antichista, confutando le tesi di Faurisson sulla Shoah impresse una svolta alle ricerche sul passato
mercoledì 10 novembre 2010 di Federico La Sala
[...] Si può certo sostenere che ognuno abbia il diritto alla menzogna e al falso, e che la libertà individuale comporti questo diritto, riconosciuto, nella tradizione liberale francese, all’accusato per la su difesa. Ma il diritto che il falsario può rivedicare non gli deve essere concesso in nome della verità. [...] Né l’illusione, né l’impostura, né la menzogna sono estranee alla vita universitaria e scientifica [...]
Pierre Vidal-Naquet, Un Eichmann di carta. Anatomia di una (...)

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> VIDAL-NAQUET, KANT, E CARLO GINZBURG. TRACCE PER UNA STORIOGRAFIA CRITICA. ---- LA LEZIONE DI PRIMO LEVI. LA BUONA MEMORIA (di Stefano Bartezzaghi).

giovedì 28 aprile 2011

La buona memoria

Dagli scienziati agli storici così continua la lezione di Levi

di Stefano Bartezzaghi (la Repubblica, 27 aprile 2011)

Nel tardo pomeriggio dello scorso 11 novembre, a Torino, il professor Massimo Bucciantini prendeva la parola sul tema «Esperimento Auschwitz». La sua era la «Lezione Levi» per il 2011: la seconda di un ciclo organizzato dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi e inaugurato nel 2010 da un italianista di Cambridge, Robert Gordon.

Come già Gordon, anche Bucciantini teneva la sua lezione nell’aula magna (intitolata a sua volta a Primo Levi) della facoltà di Scienze dell’Università di Torino: una sala vasta e austera, sormontata da una riproduzione della tavola mendeleviana degli elementi, nota a tutti i chimici e a tutti i lettori leviani sotto il nome di «sistema periodico». Gli scranni dell’aula erano fittamente popolati da alcune classi del liceo scientifico Galileo Ferraris, docenti e studenti universitari, giornalisti, membri della Comunità ebraica, funzionari della casa editrice Einaudi, lettori (chissà quanto «semplici»).

Un’altra Italia, meno nota a giornali e tv; un’Italia, come Levi diceva di sé, «normale, di buona memoria». Alligna una vasta e sospetta retorica che fa apparire la memoria, secondo i casi, necessaria, doverosa, faticosa, rituale, vana: ma come possa essere «buona» è diventato difficile ricordarselo.

Un esempio - non nella teoria ma nei fatti - viene proprio dal Centro Primo Levi, che è stato fondato tre anni fa da diversi enti pubblici e privati (dalla Regione Piemonte alla famiglia Levi, passando per la Compagnia di San Paolo e la Comunità Ebraica); è presieduto da Amos Luzzatto e diretto dallo storico Fabio Levi (non un parente).

Robert Gordon, che a Primo Levi e alle Virtù dell’uomo normale aveva già dedicato un importante libro (pubblicato in Italia da Carocci), ha fatto notare come nel linguaggio leviano ricorresse l’aggettivo «utile». Le anime belle considerano l’«utilità» come una qualità disdicevole perché non disinteressata. Ma rivestire interesse non è forse un’ottima cosa, nel mondo per nulla diafano delle idee?

Per la memoria, proprio l’utilità è una sorta di condizione di senso: notarlo ha grande importanza, nei tempi in cui per memoria si può intendere anche una macchina che comprime in pochi millimetri quadri intere biblioteche (di cui non sempre sappiamo cosa farci).

Il Centro conserva una buona memoria dello scrittore a cui è intitolato, perché produce cose utili: un sito (www.primolevi.it), una biblioteca, un archivio, l’annuale «Lezione Levi», una collana editoriale con Einaudi (è appena uscito il libro che raccoglie, ampliata e in versione sia italiana sia inglese, la lezione di Bucciantini: sarà presentato al Salone del Libro di Torino). Ecco a disposizione tutte le opere di Levi, traduzioni, saggi, recensioni, audiovisivi... Si tratta di conservare tali materiali o di renderli utili?

La bibliografia su Primo Levi, che riceve cure strenue e minuziose dall’italianista Domenico Scarpa, raccoglie ogni testo, anche minimo, dedicato a Primo Levi: lo censisce, lo indicizza con parole-chiave e lo mette a disposizione degli studiosi, tramite un catalogo che si consulta liberamente nel sito.

Negli anni Sessanta e Settanta, per studiare Primo Levi bastava andare nel centro (urbano) di Torino e fare qualche telefonata e qualche passeggiata tra librerie, biblioteche e archivio Rai ed Einaudi.

Passano gli anni, si accumulano testimonianze sempre più frammentate e disperse per il mondo: oggi, per renderle utili occorrono strumenti telematici e informatici, la memoria e il lavoro di una persona sola non basterebbero.

Proprio la nozione informatica di «memoria» ci aiuta a comprendere che la memoria non è solo conservazione, ma è anche energia, velocità, selezione, possibilità estesa di confronto e collegamento. Né l’utilità va immaginata come una sorta di imbuto che porta energia e risorse dalla collettività a un gruppo ristretto di studiosi.

È in realtà una clessidra, o un prisma in cui la luce converge per venirne ritrasmessa e irradiata. Come sono stati impiegati i mezzi del Centro Studi, da Massimo Bucciantini? Storico della scienza all’università di Siena-Arezzo, Bucciantini si era già cimentato sulla letteratura italiana del Novecento con un libro su Italo Calvino e la scienza (edito da Donzelli).

Ora, oltre a ricordare i rapporti che tra Calvino e Levi intercorsero proprio sui temi scientifici, ha descritto Levi come lo scrittore che ha saputo adoperare gli strumenti sperimentali del «separare, pesare e distinguere» e ha così raccontato Auschwitz non solo come inferno angoscioso, anus mundi, orrore storico, ma come sede di un esperimento scientifico estremo sull’uomo.

Riproducendo nella sua mente e nella sua scrittura tale esperimento nazista e impegnando per i quarant’anni che separano Se questo è un uomo da I sommersi e i salvati la propria intelligenza analitica per coglierne gli aspetti essenziali, Primo Levi ha scoperto l’esistenza della «zona grigia», isolata come un nuovo elemento chimico da posizionare nel Sistema Periodico delle costanti antropologiche: il male non si circoscrive, non si separa dal suo opposto, non è macroscopico ma microscopico.

Questo non serve (solo) agli italianisti per capire Levi. Ai suoi tempi leggere Se questo è un uomo è servito all’anti-psichiatra Franco Basaglia per il suo impegno nella lotta contro la segregazione manicomiale, vinta con la legge che porta il suo nome. Oggi leggere Levi serve per capire, come conclude Bucciantini, che «Quel mondo laggiù e il nostro sono uniti da un vasto e imprevisto camminamento».

Colpiti da un’epidemia di amnesia gli abitanti di Macondo consultano etichette per ricordarsi il nome degli oggetti. Ah, quanto minore scrittore e anche meno fine semiologo di Levi è Gabriel García Márquez! Se la memoria funzionasse così, davvero terremmo solo nomina nuda.

Se Levi e Auschwitz fossero etichette e se dovessimo rileggere Levi al fine di ricordarci di Auschwitz staremmo freschi. Neppure capiremmo alcuna delle sue parole: perché come non c’è etichetta fuori da un sistema di memoria, non c’è memoria fuori dal desiderio di comprendere ciò che non abbiamo mai conosciuto, o fuori dalla necessità di esprimerlo.


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