Chi sacralizza la Shoah
di Valentina Pisanty (il Fatto, 20.01.2012)
L’8 febbraio 2011 Alberto Cavaglion pubblica una breve riflessione sulla newsletter dell’UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) in cui depreca l’appropriazione delle parole “Se non ora, quando? ” da parte del comitato promotore della giornata di mobilitazione nazionale delle donne programmata per il 13 febbraio. Ciò che lo infastidisce è il presunto oltraggio al titolo del romanzo di Primo Levi, ridotto a slogan femminista e messo al servizio di un progetto politico contingente - rovesciare Berlusconi e il berlusconismo - che secondo Cavaglion non può essere paragonato (pena la banalizzazione) alla resistenza ebraica sul fronte orientale raccontata da Levi.
[...] Da un punto di vista strettamente filologico, l’accusa non è infondata. Nel romanzo di Levi, “Se non ora, quando” è il verso della letteratura rabbinica. In rapporto alle vicende della guerra, la canzone inquadra la lotta partigiana in una storia al contempo più vasta e più particolare, e cioè la trama millenaria della diaspora, sino allo sterminio in corso e al soprassalto di rivalsa con cui si fa largo una nuova idea di autodeterminazione del popolo ebraico.
[... ] La canzone attinge a un archivio di storie - Davide e Golia, l’assedio di Masada, la ghettizzazione, la resistenza, la nascita del sionismo - che concorrono a definire un’identità ebraica stratificata e conflittuale, fondata su valori apparentemente inconciliabili quali l’orgoglio e l’umiltà, la forza e la dolcezza, l’intransigenza e la tolleranza; valori nei confronti dei quali il testo di Gedale sollecita una drastica presa di posizione: se non ora quando?, appunto. Pur non essendo di indole particolarmente vendicativa, i gedalisti scelgono la lotta armata perché sanno che l’alternativa è il camino. [... ]
INTERVISTATA da Repubblica (14 febbraio 2011) sulla scelta dello slogan, Francesca Izzo - una delle promotrici della manifestazione del 13 febbraio - ha risposto: “Mi è venuto così, stava nelle mie orecchie e corrispondeva esattamente a quel che volevamo dire. Ci è piaciuto e lo abbiamo usato”. In questa dichiarazione c’è tutto ciò che serve per inquadrare il tipo di operazione semiotica compiuta sul frammento dalle promotrici della manifestazione. Nulla a che vedere con una rilettura critica del romanzo di Levi, il quale resta sullo sfondo come dato enciclopedico condiviso. Il gioco linguistico è tutt’altro: si tratta - come sempre con gli slogan - di ideare un “grido di guerra” icastico e memorabile, dotato cioè delle caratteristiche necessarie per bucare lo schermo sovraffollato della comunicazione politica. [...] Generalmente, la citazione drammatizza le circostanze problematiche descritte dai discorsi in cui è di volta in volta trapiantata, iniettandovi un supplemento di pathos e adombrando un possibile (benché raramente esplicitato) parallelo con la guerra all’ultimo sangue combattuta dai partigiani ebrei contro i nazisti.
[... ] Per un conoscitore dei romanzi di Levi quale Alberto Cavaglion è, si capisce che la disinvoltura con cui i linguaggi del giornalismo e della politica si sono impossessati di “Se non ora, quando? ” possa risultare irritante. [...] A rileggere la nota dell’8 febbraio, è evidente che l’indignazione di Cavaglion non è tanto rivolta alla pratica banalizzante in sé, quanto all’infrazione di un tabù più specifico. La parola-chiave è “sacrilegio”: “Oggi vedo che nessuno protesta per quello che a me sembra un sacrilegio”.
MA “SACRILEGIO” significa “profanazione di oggetto, persona o luogo sacro”. In che senso il frammento di Levi può dirsi sacro e in che cosa consisterebbe la violazione della sua sacralità? La controversia sulla citazione di Levi è un sintomo apparentemente trascurabile di una tendenza culturale ben più macroscopica. Ne hanno già parlato diversi autori [...], tutti concordi nel riconoscere che negli ultimi decenni la Shoah (o meglio, l’insieme dei discorsi che confluiscono nella memoria pubblica di questo evento) è soggetta a un meccanismo di sacralizzazione per effetto del quale il genocidio ebraico viene estrapolato dalla serie dei fatti storici e ricollocato in una dimensione “altra” - la dimensione del sacro, per l’appunto - che lo sottrae all’uso comune, ossia ai procedimenti del discorso ordinario, banalizzazione inclusa. [... ] Resta da capire da dove Cavaglion - e altri come lui - tragga l’idea che la memoria dello sterminio ebraico, con tutta la costellazione di testi che a essa fa capo, appartenga per diritto alla sfera del sacro.
Abusi di memoria di Valentina Pisanty, Bruno Mondadori PAGG. 151 16 EURO