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LA VITA, LA MORTE, E L’INALIENABILE LIBERTA’ DELLA COSCIENZA ....

MARIO MONICELLI E LA VOCE SOTTILE DEL SILENZIO. Una nota di Marco Politi - a c. di Federico La Sala

Nell’estrema sobrietà del suo gesto Mario Monicelli ci ha consegnato un interrogativo doppio sulla vita e sulla morte. (...)
giovedì 2 dicembre 2010 di Federico La Sala
[...] non esiste neanche Parlamento, chiesa o tribunale che possa decidere sulla persona, quando
valuta della propria vita. Solo io posso decidere cosa è degno per me. Soltanto la coscienza del
singolo individuo può valutare il senso o il non senso di un accanimento terapeutico o il peso di una
spirale di trattamenti dolorosi e alla fine inutili. È ciò che Eluana aveva ben presente. Tenere in vita
con la spada della legge è altrettanto crudele che toglierla.
È insensato contrapporre (...)

In risposta a:

> MARIO MONICELLI --- Superare le contraddizioni della legge (interv. a Emanuele Severino) - La risposta la dà già Platone (interv. a Giovanni Reale).

venerdì 3 dicembre 2010

Intervista a Emanuele Severino

-  «Quando tutto sarà ormai inutile chiederò di morire»
-  «Superare le contraddizioni della legge»

di Daniela Monti (Corriere della Sera, 02.12.2010)

MILANO - «Fra due giorni sarà un anno e tre mesi che mia moglie è morta. Un tumore. Ero deciso a farla morire in casa, nella sua casa, anche se a Brescia siamo fortunati: esiste la "Domus Salutis" tenuta dalle Ancelle della Carità. Mi convinsero che era nell’interesse di Esterina tenerla ricoverata per qualche tempo. Poi, considerando il suo stato di salute, avrei deciso se portarla a casa. Dopo un mese costatai che per lei era un bene rimanere lì. Mia moglie si affidava alle mie decisioni, anche perché alla "Domus" si trovava bene. Credo che la competenza di questo istituto si sia mostrata soprattutto nella capacità di dosare in modo adeguato la somministrazione della morfina. Mia moglie andava addormentandosi un poco alla volta. Quando videro che ogni alimentazione per via endovenosa sarebbe stata inutile, la sospesero. Loro, io e i miei figli le davamo un po’ d’acqua, che beveva volentieri. Esterina è morta senza soffrire - per quanto noi possiamo saperne».

Il filosofo Emanuele Severino, 81 anni, parla al telefono dalla sua casa di Brescia. «Ho già detto a suor Giusy - che con il professore Zaninetta guida la Domus ed è a sua volta docente all’Università Cattolica - che quando toccherà a me, vorrò andare da loro per morire come è morta mia moglie. Si è detta d’accordo. Ma c’è chi non sopporta di morire in questo modo. Non c’è ovunque una Domus come quella di Brescia. C’è invece una legislazione in base alla quale è possibile incriminare i medici per omicidio quando si ritiene che essi abbiano sospeso un’assistenza che ancora non era accanimento terapeutico. Chi stabilisce quando esso incomincia? Che fare quando i medici hanno paura o si adeguano in coscienza alle direttive della Chiesa o mascherano con queste direttive la loro paura per altro legittima?».

Lei condanna il gesto di Mario Monicelli?

«Condannare non fa parte della logica del mio discorso filosofico. Mi sembra d’altra parte che abbia più della nobiltà che del suo contrario. Ho sempre trovato contraddittoria una legislazione che non punisce il suicidio non riuscito, tentato da chi aveva la capacità di compierlo; e invece punisce il medico che rispetto a uno che non abbia la capacità di farlo (è il caso Welby) lo aiuta ad uccidersi. Con la conseguenza che, quando il medico non intende essere incriminato, il suicidio di questo secondo candidato alla morte è reso impossibile. Questa legislazione impedisce che i cittadini siano uguali di fronte alla legge. Con una legge che invece li rendesse uguali, Monicelli non sarebbe morto in questo modo, doppiamente tragico».

Serviva un gesto così drammatico perché tornasse ad essere pronunciata nelle stanze della politica la parola eutanasia. Perché?

«Perché l’attuale legislazione è tollerata dalla Chiesa, e ci sono molti interessi a non infastidire la Chiesa. E chi, affetto da male irreversibile e ormai incosciente, ha lasciato scritto o comunicato a persone di sua fiducia che quando non fosse più in grado di alimentarsi da solo desidera che anche l’alimentazione artificiale venga sospesa e sia lasciato morire? (È quanto chiederò alla Domus). Si dice che a queste sue disposizioni non si può dar corso perché nulla assicura che nel frattempo l’interessato non abbia cambiato parere. Ma si dimentica che, d’altra parte, non c’è nemmeno nulla che assicuri che, invece, il parere l’ha cambiato. Chi lo assiste si trova quindi dinnanzi a due possibilità equivalenti, e, se non ci sono altri indizi, perché scartare e non far valere l’unico indizio che si ha a disposizione, cioè la volontà che costui ha a suo tempo espresso? Anche per questo il testamento biologico è indispensabile».

Si ha l’impressione che sia faziosa - quasi fanatica - la contrapposizione fra laici e credenti. Non può esistere un terreno che non sposi né la tesi dei primi, né quella dei secondi?

«Anch’io ho la sensazione che ci sia del fanatismo, ma quando uno si trova in mezzo a situazioni di questo tipo è difficile non lasciarsi prendere la mano. Il suicidio è immorale e, oltre che colpa, è reato? Se la maggioranza degli elettori ne fosse convinta dovrebbe però evitare la contraddizione che sopra ho indicato. Se una legge è contraddittoria è anche anticostituzionale - ammesso e non concesso che la nostra Costituzione non contenga contraddizioni».


Intervista a Giovanni Reale

-  «La risposta la dà già Platone, la vita non è proprietà nostra»
-  «Male dell’anima, ma non si condanna l’uomo»

di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 02.12.2010)

CITTÀ DEL VATICANO - «Vede, il male del nostro tempo l’aveva drammaticamente anticipato Jean-Paul Sartre più di sessant’anni fa: "L’inferno sono gli altri". L’incapacità di vedere l’altro, di capirlo, di accoglierlo. E di amarlo». Il filosofo Giovanni Reale, tra i massimi studiosi del pensiero antico, l’uomo al quale Wojtyla affidò i propri scritti filosofici e poetici, ha appena curato per Bompiani la pubblicazione del Commento al Vangelo di Giovanni di Sant’Agostino. E parte da qui, per riflettere sul suicidio di Mario Monicelli e le polemiche che lo hanno seguito: «Pensi all’episodio dell’adultera. Quelli che vogliono lapidarla l’hanno pensata bene, sono sicuri che la risposta di Gesù sarà sbagliata: se dice sì, ne esce distrutta la sua figura di uomo buono; se dice no, lo condannano per aver violato la legge. Ma lui dice: chi è senza peccato scagli la prima pietra. E quando tutti se ne sono andati si rivolge alla donna: va’, e non peccare più». Perché ne parla, professore? «Perché in troppi si avverte una trasformazione paradigmatica delle due posizioni, libertà di scelta e difesa a oltranza della vita. Una riduzione del problema in un senso o nell ’altro che fa cadere in errore entrambi. E crea l’impossibilità di una communicatio idiomatum, di ogni confronto».

Il presidente Napolitano ha parlato di «un estremo scatto di volontà che bisogna rispettare».

«Sì, questo è giusto: il rispetto. Che non significa né condanna né approvazione: ma capire l’altro, la sua sofferenza, anche se l’altro non ha la fede, la prospettiva di Cristo. Capire l’altro. Soffrire con lui. Senza mai condannare: non si giudica la persona, il Vangelo dice di amare anche il tuo nemico! Semmai, si giudica il comportamento».

E il suicidio?

«Lo ritengo un male dell’anima. Qui tocchiamo un problema dell’uomo contemporaneo: l’irreligiosità, la perdita del legame col divino ,del senso della sacralità della vita. La risposta più bella la offre Platone, nel Fedone: la vita non è di tua proprietà, ti è stata data, solo il dio può decidere quando togliertela».

Ma alla fine del «Fedone», Socrate beve il «pharmacon», la cicuta...

«Perché scappare sarebbe una violenza: o riesco a convincere i giudici oppure, per coerenza, accetto la condanna. Platone è il primo a parlare di sacralità della vita. Più tardi, nella Repubblica, dirà che chi è molto malato non deve pesare sullo Stato: ma si mette dal punto di vista della politica, e la politica non può avere il senso della sacralità, sta in una dimensione più bassa. Di qui le contraddizioni dei Parlamenti, quando vogliono legiferare su vita e morte».

Anche fuori dal Parlamento, in verità, la confusione è tanta. Ha seguito le polemiche per la presenza della vedova Welby e di Beppino Englaro a «Vieni via con me?»

«Parlavo di riduzionismo e di errori: la tecnica cresciuta a dismisura ha inglobato anche il sacro e il religioso. Prendiamo il caso Welby: non è stata eutanasia, è chiarissimo. Parlarne è un errore di ermeneutica. Lo dissi anche allora: diverso è darsi la morte o, invece, accettare la morte inevitabile. Guai a trasferire la "sacralità" dalla vita alla tecnica! Quell’uomo era rimasto ostaggio di un macchina. Ma Dio ha creato la natura, non la tecnica: quella è un prodotto dell’uomo. E nel caso di Welby, come per Eluana, era sacrosanto dare ragione alla natura». E quelli che vanno avanti? «Non è che io neghi il diritto di chi resiste. Però non lo si può imporre a nessuna persona. Anche se qualche prelato è caduto nell’errore, vittima del paradigma scientistico-tecnologico».

La Chiesa sbagliò a negare i funerali a Welby?

«Certo che sì: l’amore doveva prevalere. Ma non è stata la Chiesa, che ha un’esperienza grandiosa. Ha sbagliato chi lo decise, e non per cattiveria: è caduto vittima del paradigma scientistico».

Il cardinale Ravasi ha ricordato come sui «temi ultimi» si debba «riproporre ininterrottamente la questione». È possibile il dialogo?

«Sì, anche se molto difficile. Occorre che le parti riconoscano anzitutto la sacralità o almeno il rispetto della vita, sapendo che la sofferenza e la morte ne sono parte e ci riguardano tutti. Camus, che si diceva ateo, dava la risposta più profonda all’"uomo in rivolta" contro il dolore e la morte: non possiamo più prendercela con Dio, perché si è fatto uomo e ha preso su di sé i nostri mali».


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