I “PARADISI ARTIFICIALI” E IL “RIDUZIONISMO” CRITICO DELL’INDAGINE DI ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (KANT) REALIZZATA DAL “VISIONARIO” THOMAS DE QUINCEY DA PARTE DI CHARLES BAUDELAIRE.
Un “invito” alla ri-lettura delle opere dell’uno e dell’altro...
Alcuni “appunti” dai “Paradisi artificiali”:
A) “UN FALSO EPILOGO”. Nella seconda parte dei “Paradisi artificiali”, dedicato a “Un mangiatore d’oppio”, in un capitoletto intitolato “un falso epilogo”, Baudelaire così scrive: “De Quincey ha stranamente abbreviato la fine del suo libro, così come, almeno, apparve nell’edizione primitiva. Ricordo che la prima volta che lo lessi, molti anni fa (e non conoscevo la seconda parte, Suspiria de profundis, che non era stata d’altronde pubblicata), mi chiedevo di tanto in tanto: Quale può essere la conclusione di un libro simile? [...] mi dicevo: Robinson alla fine può lasciare la sua isola; una nave può approdare a una riva, per quanto ignota, e riportarne il solitario eremita; ma quale uomo può uscire dall’impero dell’oppio? Così, continuavo a pensare tra me e me, questo libro singolare, confessione veritiera o puro parto della fantasia (quest’ultima ipotesi era del tutto improbabile per quell’aura di verità che aleggia su tutto l’insieme e per l’inimitabile accento di sincerità che accompagna ogni dettaglio), è un libro senza conclusione. + -[...] mi ricordavo che il mangiatore d’oppio aveva annunciato da qualche parte, all’inizio, che era finalmente riuscito a sciogliere, anello per anello, la catena maledetta che vincolava tutto il suo essere. Dunque, la conclusione mi era del tutto inattesa, e confesserò con franchezza, che, quando la conobbi, malgrado tutto l’apparato di minuziosa verisimiglianza, istintivamente ne diffidai. Non so se il lettore condividerà la mia impressione a questo proposito; ma dirò che l’espediente sottile, ingegnoso, attraverso cui l’infelice esce dal labirinto stregato dove per sua colpa s’era perduto, mi parve un’invenzione in favore di un certo cant britannico, un sacrificio in cui la verità era immolata per onorare il pudore e i pubblici pregiudizi. Ricordate quante precauzioni ha preso prima di cominciare il racconto della sua Iliade di mali, e con quale attenzione ha rivendicato il diritto di procedere in confessioni addirittura salutari. Un popolo vuole epiloghi morali, un altro epiloghi consolanti. [...]
De Quincey ha forse pensato allo stesso modo e vi si è adeguato.[...] Sia come si voglia, ecco l’epilogo. Dopo parecchio tempo, l’oppio non faceva più sentire il suo potere con incantesimi, ma con tormenti, e tali tormenti (il che è perfettamente credibile e in accordo con tutte le esperienze relative alla difficoltà di rompere con le vecchie abitudini, a qualunque genere appartengano), erano cominciati con i primi sforzi per liberarsi di questo quotidiano tiranno. Tra due agonie, l’una dovuta all’uso continuo, l’altra al regime interrotto, l’autore, ci narra, preferì quella che comportava una possibile liberazione [...].
[...] La morale del racconto si rivolge solo ai mangiatori d’oppio. Che imparino a tremare, e che sappiano, con questo straordinario esempio, che è possibile rinunciare a questa sostanza, dopo diciassette anni di uso e otto di abuso dell’oppio. Possano, egli aggiunge, riporre una maggiore energia nei loro sforzi, e raggiungere alla fine il medesimo successo! + «Jeremy Taylor suppone che forse ugual dolore è nel nascere come nel morire. Credo che sia molto probabile; e durante il lungo periodo dedicato alla diminuzione dell’oppio, provai tutti i tormenti di chi passa da una regola di vita a un’altra. Il risultato non fu la morte, ma una specie di rinascita fisica... Mi resta ancora come un ricordo della mia prima condizione; i miei sogni non sono perfettamente calmi; il temibile turgore e l’agitazione della tempesta non si sono perfettamente placati; le legioni di cui erano popolati i miei sogni indietreggiano, ma non tutte sono partite; il mio sonno è tumultuoso, e, simile alle soglie del Paradiso quando i nostri primigeni genitori si rivolsero a contemplarle, è sempre, come dice il verso terrificante di Milton:
Gremito di facce minacciose e di braccia fiammeggianti».
L’appendice (che data dal 1822) è destinata ad avvalorare più minuziosamente la verisimiglianza di questo epilogo, a offrirle per così dire una rigorosa fisionomia medica. [...]”. B) “IL GENIO BAMBINO”. Le Confessions portano la data del 1822, e i Suspiria, che le seguono e le completano, sono stati composti nel 1845. Anche il tono, di conseguenza, è, se non completamente diverso, almeno più serio, più triste, più rassegnato. Scorrendo più e più volte queste singolari pagine non potevo impedirmi di fantasticare sulle diverse metafore di cui si servono i poeti per raffigurare l’uomo che è ritornato dalle battaglie della vita, è il vecchio marinaio dalle spalle curve, dal volto solcato da un viluppo inestricabile di rughe, che riscalda davanti al suo focolare un’eroica carcassa scampata a mille avventure [...]
L’Introduction dei Suspiria ci insegna che per il mangiatore d’oppio vi è stata una seconda e una terza ricaduta, malgrado tutto l’eroismo dimostrato nella sua paziente guarigione. È ciò che egli chiama a third prostration before the dark idol. [...].
Le Confessions ci hanno narrato gli eventi giovanili che avevano potuto render legittimo l’uso dell’oppio. Ma ci sono ancora due importanti lacune, l’una che include le fantasie generate dall’oppio durante il soggiorno dell’autore presso l’Università (è ciò che chiama le sue Visioni d’Oxford); l’altra, il racconto delle sue impressioni d’infanzia. Così, nella seconda parte come nella prima, la biografia servirà a piegare e a verificare, per così dire, le misteriose avventure del cervello. Ed è negli appunti che si riferiscono all’infanzia che troveremo la causa delle strane fantasie dell’uomo adulto, e per meglio dire, del suo genio. [...]” + C) “L’opera (Confessions of an english opium-eater, being an extract from the life of a scholar) è divisa in due parti: l’una, Confessions, l’altra, che la completa, Suspiria de profundis. Ognuna è ulteriormente suddivisa in differenti parti [...] Il mangiatore d’oppio aveva da tempo interrotto i suoi studi [...] la sua vera vocazione, la filosofia, era del tutto trascurata. [...] È nel 1804 che per la prima volta ha conosciuto l’oppio. Otto anni sono passati, felici e nobilitati dallo studio. Siamo adesso nel 1812. Lontano, molto lontano da Oxford, a una distanza di duecentocinquanta miglia, confinato in un eremo alle falde dei monti, cosa fa, ora, il nostro eroe (certo, merita proprio questo titolo)? Prende oppio, ovviamente! E che altro? Studia la metafisica tedesca; legge Kant, Fichte, Schelling [...] Il mangiatore d’oppio aveva da tempo interrotto i suoi studi.
[...] La filosofia e la matematica richiedono un’applicazione costante e continua, e adesso la sua mente indietreggiava di fronte a questo compito giornaliero con un’intima e desolante coscienza della sua debolezza. Una grande opera, a cui aveva giurato di sacrificare tutte le sue forze, e il cui titolo gli era stato suggerito dalla reliquiae di Spinoza: De emendatione humani intellectus, non veniva portata a termine, abbozzata e sospesa, con l’aspetto desolato di quei grandi edifici intrapresi da governi prodighi o da architetti imprudenti. + -[...] Tuttavia un amico di Edimburgo, nel 1819, gli inviò un libro di Ricardo, e prima d’aver terminato il primo capitolo, ricordandosi che egli stesso aveva profetizzato la venuta di un legislatore di quella scienza, esclamò: «È lui!». Lo stupore e la curiosità erano resuscitate [...]
- Il nostro sognatore, pieno di entusiasmo, ringiovanito, riconciliato con la riflessione e il lavoro, si mette a scrivere, o meglio detta alla sua compagna. Gli sembrava che l’occhio scrutatore di Ricardo avesse lasciato sfuggire qualche importante verità, la cui analisi, ridotta dai procedimenti algebrici, poteva diventare argomento di un interessante volumetto. Il risultato di questo sforzo di malato furono i Prolegomeni a tutti i futuri sistemi di economia politica. Aveva preso accordi con un tipografo di provincia, che abitava a diciotto miglia dalla sua casa; al fine di stampare più in fretta l’opera, aveva assunto, addirittura, un tipografo supplementare; il libro era già stato annunciato due volte; ma, ahimè! restava da scrivere una prefazione (la fatica di una prefazione!) e una magnifica dedica a Ricardo; che fatica per un cervello debilitato dai piaceri di un’orgia permanente! O umiliazione di un autore nervoso, tiranneggiato dall’interiorità! L’impotenza si levò, terribile, invalicabile, come i ghiacci del polo; tutti gli accordi furono disdetti, il tipografo licenziato, e i Prolegomeni, vergognosi, si adagiarono a lungo, vicino al loro fratello maggiore, il famoso libro suggerito da Spinoza. [...] (cfr. Charles Baudelaire, “Paradisi artificiali”).