Se il “credere” diventa una banalità
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 01.05.2012)
Sono rimasto colpito da due grandi manifesti collocati a poche centinaia di metri l’uno dall’altro non lontano da casa mia. «Io credo nel fotovoltaico» è il loro messaggio. Un manifesto mostra una donna vestita di nero, evidentemente islamica, con le mani atteggiate a preghiera. L’altro rappresenta di spalle un sacerdote in abiti sacri che tiene in mano un crocifisso. Anche per lui vale la scritta «Io credo nel fotovoltaico».
E’ nata forse una nuova chiesa, targata www.heliosimpianti.it? No, evidentemente. E’ una spiritosa trovata dei pubblicitari «creativi» (si chiamano così...). Che cosa non fanno oggi per «bucare» il flusso della comunicazione! Chissà se hanno fatto anche una terza versione del manifesto: un operaio metalmeccanico che tiene le mani sul Capitale di Carlo Marx o forse più realisticamente oggi sull’art. 18. Anche lui potrebbe credere nel fotovoltaico.
Dobbiamo ridere? No. Proviamo a fare qualche riflessione.
Il mio primo impulso è stato quello vedere in quella pubblicità una mancanza di rispetto verso le religioni, evocate in par condicio - la cristiana e l’islamica. Ma poi ho pensato che l’ufficio legale della Helios si è già premunito in anticipo contro questa obiezione, dicendo che nella pubblicità sono rappresentati due esponenti o fedeli delle religioni che semplicemente dichiarano di credere anche nel voltaico. Anzi, in fondo «sono tecnologicamente avanzati» - aggiungerebbe l’astuto avvocato. L’offerta è super partes, è ecumenica, è universalistica,
In effetti il trucco è giocato tutto sulla parola e sul concetto di «credere», che ha perso ogni rigore e pregnanza ma ha guadagnato in estensione. Si crede o si ha fede nei dogmi religiosi, nella democrazia, in un partito o nella Padania, si crede nel proprio coniuge ecc. E’ una parola inflazionata ma tenace come quella di popolo (il popolo italiano, il popolo dell’Iva, il popolo della Juve ecc.). Perché non credere anche nel fotovoltaico?
Naturalmente la forza della parola «credere» dipende (in modo subliminale) dal riferimento religioso. Non a caso il «credere» e il «non credere» si riferiscono innanzitutto ai contenuti di fede. E’ l’utilizzo più nobile ma più equivoco. Suggerisce infatti che qualcuno che «crede» ha qualcosa in più (sottovoce si intendono «i valori») di qualcun altro che «non crede». Naturalmente è una colossale sciocchezza, ma funziona. Tant’è vero che persino per promuovere il «fotovoltaico» è più semplice e tentante far ricorso al credere che all’argomentare.
Ma non voglio esagerare oltre nell’esegesi di una comunicazione pubblicitaria che magari passerà inosservata per i più, tanto è denso il flusso informativo che ci investe. Qualche lettore può anche mettersi a ridere per quanto sto scrivendo. Sarà un mio vizio professionale, ma prendo sul serio le parole. Soprattutto quando mettono in gioco «fede» o «credo», esibiti come punti fermi di certezza in un mondo di incertezze. Una forza che per associazione va oltre il campo religioso e interessa tutti gli ambiti della vita.
Il discorso non è semplice, lo so. Ma i creativi della pubblicità hanno intuito che giocando sulle ambiguità e sulle assonanze della parola «io credo» possono vendere anche qualcosa, come il fotovoltaico, che viceversa richiederebbe ragionamenti ben più articolati e ragionati.