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Editoriale

Fuggire, correre, emigrare. Ma resta l’amore, come scriveva Paolo di Tarso

sabato 14 agosto 2010 di Emiliano Morrone
Stanotte sono andato a dormire con una frase di Giampaolo Spinato, «lasci ai suoi sogni le bestemmie che urgono per vivere, o a un’altra vita, forse».
Ho guardato indietro e avanti, in casa pacchi di libri, fogli, scritti. Parole, storie. Chiusi per l’ennessimo trasferimento, per disporre in diverso ordine quella memoria di testi, capitoli del mio pensiero, della mia vita. E’ la pratica d’ogni emigrato, forse una necessità personale, esistere nella sfera degli altri.
Non hai sede, tutto è (...)

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> Fuggire, correre, emigrare. ---- e la convinzione interiore di non doversi arrendere in alcun modo e per nessun motivo.

giovedì 30 dicembre 2010

Trovare Dio nel deserto dell’anima

di Giorgio Montefoschi (Corriere della Sera, 29.12.2010)

Secondo la scarna descrizione che di lui fecero fra’ Eliseo de los Martires e fra’ Girolamo di San José, Juan de la Cruz, Giovanni della Croce - uno dei più grandi mistici dell’Occidente - era di statura medio piccola e ben proporzionato nel corpo; il volto, moro, aveva una fronte ampia e spaziosa, naso appena aquilino, barba a mezzo pelo, occhi neri profondi e incoraggianti; il portamento era distinto e grave e, nella sua modestia e mitezza di tratto, irradiava una impronta di nobiltà spirituale, di serenità, e di calma.

Ma, dietro a quella mitezza e a quella serena calma, si celava una volontà di ferro: la volontà che nel corso della sua non lunga vita (era nato, da una famiglia povera, nel villaggio di Fontiveros, vicino ad Avila, nel 1542, morì nel convento di Ubeda, in Andalusia, mentre i confratelli gli leggevano brani del Cantico dei Cantici, il 13 dicembre del 1591), gli consentì di lottare con tutte le sue forze per la riforma dell’ordine del Carmelo a cui apparteneva (in questo vicinissimo a Santa Teresa d’Avila, che aveva incontrato nel 1567 e procedeva in questa stessa linea, fondando conventi «teresiani» dal Nord al Sud della Spagna); gli dette il coraggio e la pazienza di sopportare le contestazioni e le umiliazioni dei carmelitani che rimanevano calzati e vedevano come perturbatori della conservazione gli scalzi, e per circa un anno un duro carcere; la convinzione interiore di non doversi arrendere in alcun modo e per nessun motivo all’idea che la vera riforma della Chiesa non andava impiantata sulla ortodossia del pensiero e della dottrina, bensì cercata e risolta nel cuore dell’uomo addormentato in una fede affievolita, o spenta.

Le sue poesie, fortemente improntate dal Cantico dei Cantici, il libro amoroso e mistico per eccellenza, descrivono l’Amore: il dolore insopportabile che si prova per la lontananza o l’assenza di chi è amato e si nasconde; lo sgomento della solitudine; i misteriosi tocchi d’amore che, per sua volontà imperscrutabile, l’amato concede improvvisamente a chi ama e invece si sente abbandonato e ferito, come prigioniero nel ventre di una bestia, e poi improvvisamente vede un lampo che, però, di nuovo lo acceca e lo ferisce, dal momento che è un lampo, e scompare; infine, le dolcezze sublimi dell’unione, ineffabili, paragonabili con molta approssimazione a un naufragio di una luce piccola in una luce immensa, di un suono in una musica silente. Sono poesie meravigliose. A chi lo interrogava su quale fosse l’origine di questi versi così ricchi e belli, rispose: «A volte era Dio a darmeli, a volte ero io a cercarmeli». Li cercava - come fa ogni poeta, ogni scrittore, ogni artista
-  nel buio più assoluto: vera condizione, imprescindibile, per la creazione.

È lo stesso buio, la tenebra, che è al centro dei suoi Commentari - la Salita al Monte Carmelo, la Notte Oscura, il Cantico Spirituale, la Fiamma d’amore: vale a dire, i lunghi commenti che seguono le Canzoni, nei quali, appunto, si specchiano il verso e la prosa, i percorsi niente affatto dissimili del poeta e dell’uomo che insegue Dio e da Dio è inseguito - perché tutto, tutto comincia da lì. Comincia dal buio che l’anima sente nella mancanza d’amore, e lì finisce: nella tenebra che Dio impone all’anima per poterla accogliere nuda, smarrita nel buio, dentro di Sé.

Nessuno, mai, è riuscito a raccontare questo cammino dalla tenebra alla tenebra, e dalla tenebra alla luce, come ha fatto Juan de la Cruz. Nessuno, mai, ha tracciato una salita tanto ardua, priva di ogni consolazione, comprese quelle ultraterrene. Nessuno, mai, ha concepito per l’anima un abisso così profondo. La Sposa è già in una notte oscura, eppure è infiammata d’amore: un amore che non riesce a definire e la sovrasta, e che forse, in una sua precedente visita, le ha regalato lo Sposo. Quindi, esce dalla sua casa addormentata, esce dalla prigione dei sensi, e va a cercarlo. Ma, per trovarlo, deve andare dove lui si è nascosto e dove, dunque, deve lei stessa nascondersi; deve ridursi a una tenebra ancora più oscura: e spogliarsi, annullare ogni conoscenza terrena, ogni conoscenza dell’intelletto, ogni tentazione della memoria, ogni folle presunzione della fantasia; deve annichilirsi nel corpo e nello spirito come, nel Getsemani e sulla Croce, fece Gesù.

«Per giungere a ciò che non sai» , scrive Juan de la Cruz nella Salita al Monte Carmelo, «devi passare per dove non sai; per giungere al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove non hai niente; per giungere a dove non sei, devi passareper dove ora non sei; per giungere interamente al tutto, devi rinnegarti totalmente in tutto» .

L’anima, insomma, deve conoscere Dio attraverso ciò che Egli non è, piuttosto che attraverso ciò che è; deve farsi arida e vuota come il deserto (deve andare nel deserto in cui andò Gesù); deve sentirsi tradita, abbandonata, morta, sola. Ma ecco che in quel momento, quando penserà di essere infinitamente lontana da Dio, sentirà un «tocco amoroso» che la sconvolge, una voce forte e dolce che la chiama, e capirà che mai più di quel momento è stata vicina a Dio: che non è fuggito, è in lei tutto nascosto, e la sta chiamando.

Come è possibile questo amore? Come è possibile amare chi non si conosce? Come è possibile, nel buio, questo amore del buio? Come è possibile che io vada a cercarti - dice la Sposa allo Sposo - se «quello che capisco mi piaga e mi ferisce d’amore e quello che non riesco a comprendere mi uccide?». È possibile - le risponde lo Sposo - perché io non ti ho abbandonata mai, io ti amata da sempre, prima che tu lo sapessi, e ti amerò per sempre. La Sposa trema, incredula, a queste rivelazioni che di colpo squarciano la tenebra fitta, e balbetta d’amore, non sa che dire. Allora, l’Amato le infonde nel cuore una immensa, pacifica e amorosa certezza: il calore che non si consuma mai della fiamma. E l’anima brucia e non si consuma in quella fiamma. È rapita e si perde in quella pacificante luce. E - come accade nel Fedro, e alla fine del Verbo degli uccelli, il poema mistico medievale del persiano Attar, come accade in ogni amore vero - la bellezza dell’Amata e dell’Amato si specchiano e si confondono.

* San Juan de la Cruz o Giovanni della Croce nacque in Spagna nel 1542 e morì nel 1591. Fondatore dei Carmelitani Scalzi, fu beatificato nel 1675 e canonizzato nel 1726. Il volume contenente Tutte le opere di Juan de la Cruz, con testo spagnolo a fronte, è curato da Luigi Bracco (Bompiani, pagine CXCVIII-2330, € 45) e fa parte della collana «Il pensiero occidentale» , diretta da Giovanni Reale.


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