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ARTE E NEUROSCIENZE.

ESTETICA, CREATIVITA’, E PAURA DELLA NEUROESTETICA. Alcune risposte di Semir Zeki ad Armando Massarenti - a c. di Federico La Sala

La nascita della neuroestetica, così chiamata da Semir Zeki nel 2001, ha fatto chiarezza nell’ambito di quella che un tempo era considerata filosofia dell’arte e che oggi invece si è sempre più propensi a considerare una scienza della percezione
giovedì 5 maggio 2011 di Federico La Sala
[...] La maggior parte di noi oggi è affascinata dalle scoperte astronomiche che cercano di scandagliare le origini e i limiti dell’universo; molti di noi ammirano Newton per aver individuato la legge di gravità che sta alla base del movimento dei corpi celesti. Forse questo ha diminuito il nostro entusiasmo e la nostra curiosità sull’Universo? Assolutamente no. E perché mai, allora, le conoscenze relative alla creatività, ai neurotrasmettitori dell’area della ricompensa, alla fisiologia (...)

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> ESTETICA, CREATIVITA’, E PAURA DELLA NEUROESTETICA. --- Il libero arbitrio. La condanna di scegliere al tempo delle neuroscienze (di Michael Gazzaniga)

giovedì 7 febbraio 2013

Il libero arbitrio. La condanna di scegliere al tempo delle neuroscienze

Uno dei grandi protagonisti degli studi sul cervello racconta i traguardi delle nuove ricerche. E spiega perché certi limiti non si possono varcare

di Michael Gazzaniga (la Repubblica, 07.02.2013)

Mi ricordo di aver visto alcuni anni fa un toccante documentario della Bbc in cui si raccontava una storia molto semplice. Un reporter di lungo corso della tv britannica stava viaggiando per l’India e decideva di andare a fare visita a un suo amico indiano. Le riprese mostravano il giornalista e il cameraman che facevano lo slalom tra escrementi e rifiuti in una baraccopoli sorta sul fianco di una collina, per infine arrivare alla casa di due metri per tre dell’amico.

Là si trovava lui, sorridente e festoso alla vista dell’amico inglese. Si scopriva allora che la casa, dove viveva con la moglie e i due figli, era anche il suo luogo di lavoro, il suo negozio; vi vendeva scarpe da tennis per ragazzi, di quelle che lampeggiano. In qualche modo riuscivano a far stare tutto in quel bugigattolo e, mentre il cameraman stentava a rimanere fermo nel negozio a causa degli afrori insopportabili, il dignitoso indiano consegnava un paio di scarpe all’amico inglese perché le portasse ai suoi figli.

Si trovavano in uno stato che un occidentale definirebbe di povertà e miseria totali, ma lo scambio umano trascese tutto il resto, culminando in uno di quei momenti che ci aiutano a capire davvero chi siamo. È questa grandezza dell’essere “umani” che tutti noi abbiamo a cuore, e che non vogliamo ci sia portata via dalla scienza. Vogliamo sentire il nostro valore e il valore dell’altro.

Ho sempre cercato di dimostrare come una comprensione scientifica più completa della natura della vita, e del rapporto tra mente e cervello, non intacchi questo valore caro a noi tutti.

Siamo persone, non cervelli: siamo quell’astrazione che si manifesta quando una mente, che emerge da un cervello, interagisce con il cervello stesso. È in questa astrazione che esistiamo e, di fronte a una scienza che sembra intaccarla, siamo alla disperata ricerca delle parole per descrivere cosa siamo davvero. Siamo instancabilmente curiosi di sapere come tutto ciò funzioni.

La prospettiva deterministica globale che pervade tutto ciò che è scienza sembra spingerci verso un punto di vista sconfortante: quello secondo cui, in definitiva, per quanto ci agghindiamo siamo una macchina di qualche tipo che funziona in modo automatico e senza controllo esplicito, quasi dei veicoli delle forze dell’universo, forze più grandi di noi e fisicamente determinate. Ma allora nessuno di noi è prezioso, perché siamo tutti pedine.

Il modo consueto per uscire da questo dilemma è ignorarlo, e affermare qualcosa a proposito della grandezza della vita a livello fenomenologico, di come sia bello il parco Yosemite, di quanto sia fantastico fare l’amore e di quanto siano meravigliosi i nipoti, e goderci il tutto. E noi ce lo godiamo, perché siamo fatti per gioire di queste cose: è il modo in cui funzioniamo, e anche la fine del problema. Prenditi un Martini Dry, metti i piedi sul divano e leggiti un buon libro.

Ho provato a fornire una diversa prospettiva nell’approccio al problema. Alla fine ho concluso che tutte le esperienze di vita, personali e sociali, hanno un’influenza sul nostro sistema mentale emergente. Tali esperienze sono forze potenti che modulano la mente: non soltanto vincolano i nostri cervelli, ma rivelano anche che è l’interazione dei due strati di cervello e mente a consentire la nostra realtà cosciente e il nostro viverla in tempo reale.

Il compito delle neuroscienze moderne è la demistificazione del cervello; tuttavia, per portare a termine tale compito, le neuroscienze devono trovare come le leggi e gli algoritmi che governano tutti i moduli separati e distribuiti operino insieme per dare origine alla condizione umana.

Capire che il cervello funziona in modo automatico, e che segue le leggi del mondo naturale, è una cosa confortante e rivelatrice: confortante, perché possiamo avere fiducia nel fatto che il nostro strumento decisionale, il cervello, ha una struttura affidabile nell’esecuzione delle scelte riguardo all’azione; e rivelatrice, perché è chiaro che tutta la misteriosa questione del libero arbitrio è un concetto mal congegnato, basato su delle convinzioni sociali e psicologiche formate in periodi particolari della storia dell’umanità, che non hanno origine dalla conoscenza scientifica moderna sulla natura del nostro universo, e che sono in disaccordo con essa.

Come mi suggerisce John Doyle: «Siamo in qualche modo abituati all’idea che quando un sistema sembra mostrare funzioni e comportamenti coerenti e integrati, deve esservi qualche elemento “essenziale” - e, soprattutto, centrale, o comunque capace di controllo centralizzato - responsabile di ciò. Siamo profondamente essenzialisti, e il nostro cervello sinistro troverà quell’essenza. E se non riusciamo a trovarla, ce la costruiamo. La chiamiamo omuncolo, mente, anima, gene e così via [...] Ma di rado è nel consueto senso riduzionistico [...] Ciò non significa che non esista qualche “essenza” responsabile; solo che è distribuita. Si trova nei protocolli, nelle leggi, negli algoritmi, nei programmi. È così che funzionano i formicai, Internet, gli eserciti, i cervelli. La cosa ci risulta difficile da afferrare perché non è contenuta in una qualche scatola, da qualche parte. Se così fosse si tratterebbe infatti di un errore di progettazione, perché quella scatola costituirebbe un singolo punto di vulnerabilità. In effetti, è importante che non stia nei moduli, ma nelle regole di funzionamento che devono seguire».

Nel compiere uno sforzo per rendere più chiaro il tutto, vedo che la mia prospettiva si va modificando. È il modo in cui vanno le cose nella scienza: i fatti non cambiano; quello che cambia, specialmente nelle scienze in cui c’è una forte componente di interpretazione, come le neuroscienze e la psicologia, sono le idee su quei fatti che vanno accumulandosi. Tutte le mattine ogni singolo scienziato va ripetendosi una tormentosa domanda: la spiegazione che ho proposto per questo e quello coglie davvero ciò che accade? Nessuno conosce le debolezze di un’idea meglio di colui che la propone; costui, di conseguenza, è sempre sul chi vive. E non è una condizione facile da sopportare.

Una volta chiesi a Leon Festinger, uno degli uomini più intelligenti del mondo, se si fosse mai sentito inadatto. Rispose: «Certo! È quello che ti rende adatto». Mi sono reso conto di quanto occorra un linguaggio unificato, non ancora sviluppato, per cogliere ciò che accade quando i processi mentali vincolano il cervello e viceversa. L’azione si trova nel punto in cui questi livelli si interfacciano; secondo un certo vocabolario, è dove la causalità dall’alto verso il basso incontra quella dal basso verso l’alto; secondo un altro vocabolario non è per niente là, bensì nello spazio tra i cervelli che interagiscono l’uno con l’altro. È quanto avviene all’interfaccia dell’esistenza organizzata a strati che fornisce una risposta al nostro tentativo di comprendere la relazione mente-cervello.

Come dobbiamo descriverla? Il livello che emerge ha un suo andamento temporale, e una sua connessione alle azioni che vengono svolte. E quell’astrazione ci rende presenti nel tempo, e responsabili. L’intera questione del cervello che compie tutto prima che ne siamo consapevoli diventa opinabile e irrilevante dalla prospettiva di un diverso livello di funzionamento. Comprendere come sviluppare un vocabolario per quelle interazioni su diversi livelli costituisce, a mio avviso, la sfida scientifica di questo secolo.

-  © 2013 Codice edizioni Torino


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