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Il grido di Giovanni Bollea: "Non distruggete la mia casa per i bambini". L’ultimo appello del maestro della neuropsichiatria infantile, oggi gravemente malato, perché non venga smantellato il suo Istituto

L’INFANZIA SORRIDENTE, LA SOCIETA’ DI "ERODE", E L’ULTIMO APPELLO DI GIOVANNI BOLLEA. Un suo testo su "come nasce il sorriso" e una nota di Leonetta Bentivoglio - a c. di Federico La Sala

«Grazie al lavoro di Bollea, l’Italia conta su numerosi centri di Neuropsichiatria Infantile. Sarebbe terribile togliere autonomia al cuore di questa mappa, cioè all’istituto romano che porta il suo nome»
domenica 23 gennaio 2011 di Federico La Sala
[...] Narrava qualche tempo fa il padre della Neuropsichiatria Infantile italiana Giovanni Bollea: «Ho incontrato un albero grande e grosso. Ci siamo guardati e lui mi ha detto: siamo entrambi alla fine». Ora che sul bilico della fine c’è davvero, Bollea, 97 anni compiuti in dicembre, sfida la morte con un’energia miracolosa. E dalla sua agonia lancia un appello per la salvaguardia e l’indipendenza dell’Istituto neuropsichiatrico romano da lui fondato: è questa la sua ultima, importante (...)

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> GIOVANNI BOLLEA. ---- IN PRINCIPIO E’ IL SORRISO.

lunedì 7 febbraio 2011

Bollea, tutta la vita dalla parte dei bambini

Morto a 97 anni il padre della neuropsichiatria infantile in Italia Una vocazione nata da piccolo, durante una visita al Cottolengo

di Piero Bianucci (La Stampa, 07.02.2011

LA SOFFERENZA PSICHICA Per curarla non basta la pediatria, serve una scienza che si occupi dell’anima" LA TERAPIA Una rete che oltre ai medici includa genitori, insegnanti, psicologi, assistenti sociali

Se n’è andato ieri Giovanni Bollea, fondatore della neuropsichiatria infantile in Italia, grande vecchio che tanto ha fatto per i più piccoli e indifesi: bambini Down, bambini con lesioni cerebrali, bambini e adolescenti senza malanni fisici ma traumatizzati nell’anima da famiglie divise, abbandoni, violenze.

Nato a Cigliano Vercellese, aveva compiuto 97 anni il 5 dicembre in un letto del Policlinico Gemelli di Roma. Dal 12 agosto, quando una ischemia cerebrale lo trascinò nel buio del coma, lottava per strappare ancora qualche giorno, qualche mese, e quasi aveva vinto, perché dal coma era uscito, aveva ripreso a comunicare con il mondo - la moglie Marika, i sei figli - sia pure debolmente.

Sapeva di avere una missione da compiere: mettere al sicuro la disciplina scientifica che aveva fondato e portato a dignità accademica nel nostro paese. Perché oggi la neuropsichiatria infantile rischia di scomparire dal panorama medico italiano, travolta nell’alluvione di tagli più o meno indiscriminati all’Università. Sotto il governo Berlusconi, e con il cambio di colore politico alla Regione Lazio, si è fatto strada il progetto di riassorbirla nella pediatria. Mentre Giovanni Bollea ha dedicato la sua esistenza proprio a staccarla dalla medicina pediatrica, convinto com’era che la sofferenza psichica non sempre, e mai del tutto, è riconducibile a una base organica. Se la pediatria si occupa dell’organismo del bambino, pensava, altrettanto necessaria è una scienza che si occupi della sua mente e dei suoi malfunzionamenti. Perché sono malfunzionamenti che in alcuni casi hanno origini fisiologiche, genetiche, traumatiche, ma in altri casi affondano invece le radici in problemi di relazioni umane, e le relazioni umane non sono materia per il medico ma, appunto, per un neuropsichiatra che, come Bollea, abbia sviluppato una sensibilità diversa verso la mente dei bambini, conosca la psicoanalisi infantile, e quindi Anna Freud, che ne fu pioniera. Ma neppure questo è sufficiente: intorno al bambino con disagio psichico Bollea voleva tessere una rete che oltre ai medici specializzati includesse genitori, familiari, insegnanti, pedagogisti, psicologi, assistenti sociali.

Gli ultimi mesi della vita di Bollea sono stati segnati da un appello per tutelare l’indipendenza, e prima ancora il ruolo, della facoltà di Neuropsichiatria infantile dell’Università La Sapienza di Roma e del relativo Istituto neuropsichiatrico in via dei Sabelli che lui aveva fatto nascere. «Non distruggete la mia casa dei bambini», è stato il suo ultimo grido.

Bollea si era laureato in medicina nel 1938 a Torino e si era specializzato in malattie mentali. Constatando come nel nostro Paese fosse scarsa l’attenzione al disagio psichico nei bambini e negli adolescenti, era andato a specializzarsi in psichiatria infantile a Losanna, in Svizzera, costeggiando anche l’ambiente pedagogico di Piaget. Con quel bagaglio torna in Italia e negli Anni 50 rivoluziona la neuropsichiatria infantile introducendo per la prima volta nel nostro Paese la psicoanalisi e - soprattutto - la psicoterapia di gruppo: lo guidava l’idea che sono le relazioni umane a curare e ad aver bisogno di essere curate, anche quando la malattia ha un substrato organico o genetico. Erano tempi nei quali i Down avevano una limitatissima aspettativa di vita ed erano chiusi in un ghetto sociale. Bollea fece maturare il processo che li ha inseriti nella società e nel lavoro, triplicando nel contempo la loro esistenza.

Duecentocinquanta pubblicazioni scientifiche, un trattato di neuropsichiatria infantile e molti libri rivolti anche ai non addetti ai lavori sono l’eredità di Bollea, con un bestseller edito da Feltrinelli dal titolo provocatorio Le madri non sbagliano mai . Tanti riconoscimenti (laurea honoris causa in Scienze dell’Educazione all’Università di Urbino, Premio Unicef, Premio alla carriera al Congresso mondiale di psichiatria e psicologia infantile che si tenne a Berlino nel 2004). Ma non erano queste le cose che gli interessavano. «La più grande mia gioia nella vita è ridare il sorriso ai bambini e ai ragazzi che l’avevano perduto», diceva. Ed è emblematico che abbia fondato anche l’Alvi, «Alberi per la vita», associazione privata per il rimboschimento dell’Italia. Intorno aveva una famiglia da patriarca: sei figli (Ernesto, Mariarosa e Daniele avuti nel primo matrimonio con Renata Jesi; Barbara, Arturo e Marco nati dalla seconda moglie Marika e dal suo primo marito ma cresciuti con lui), sette nipoti, tredici bisnipoti.

Raccontava di aver sentito la sua vocazione all’età di sette anni visitando il Cottolengo a Torino. Una suora gli disse: «Questi bambini disgraziati saranno i primi a entrare in paradiso», e lui, con la voce dell’innocenza: «Perché invece non provate a curarli?». Vicino al Cottolengo, nel popolare quartiere di Porta Palazzo, era cresciuto: una concentrazione di miseria e svantaggio fisico e sociale. Poi il liceo frequentato lavorando nel pastificio ereditato dalla bisnonna in via Po, il matrimonio con l’ebrea Renata Jesi e le conseguenti persecuzioni razziali, la campagna di Russia, durante la quale era costretto a operare i compagni feriti senza anestesia. Infine l’Istituto creato a Roma, che diventa subito un riferimento scientifico e «politico» per tutta l’Europa. Negli ultimi tempi la sua attenzione aveva colto fenomeni nuovi: l’esposizione dei ragazzi alla violenza sugli schermi televisivi, l’onnipresenza alienante dei videogiochi, l’oscillare dei genitori tra lassismo e costrizione. Scuola, famiglia e società in crisi, mentre per Bollea solo la loro cooperazione può darci un mondo migliore.


“In principio è il sorriso”

Pubblichiamo una riflessione di Giovanni Bollea, invitato a parlare del sorriso come capacità innata del bambino.

di Giovanni Bollea (La Stampa, 07.02.2011)

Dopo il primo pianto, appena uscito dall’utero, vediamo il sorriso del bambino legato a quello della madre che lo guarda a sua volta negli occhi. Il sorriso che nasce non dalla vista del volto della madre, ma dal suo profumo, rimarrà nella sua memoria per sempre. E così al primo dentino, al primo passo, all’entrata della scuola materna.

In questo modo il sorriso dei primi anni si prolunga anche durante le esperienze iniziali all’interno delle difficoltà scolastiche, che si manifestano già nell’asilo nido, dove i primi collegamenti con l’altro da sé sono ritmati dagli episodi di pianto, che è il suo modo di colloquiare. Ma il dramma nasce quando il bambino non è ascoltato né seguito, o quando la madre ritarda nel riprendere il bambino alla scuola materna. Al loro incontro, perciò, ci sarà di nuovo «quel» sorriso d’intesa. Quel famoso sorriso del dopo scuola che non sarà mai più lo stesso durante tutto il suo cammino di adulto.

Ricordiamoci che anche nella gioia di aiutare la mamma nei piccoli lavori di casa il bambino manifesterà la preferenza della madre nei suoi confronti, che così lo fa sentire sempre più importante.

Il sorriso è lo stare con la madre, il ridere è la manifestazione dell’orgoglio e della soddisfazione di eseguire e conquistare qualcosa insegnatogli da lei, dalla quale gli giunge un segno di allegra approvazione. Il sorriso è quindi amore, il ridere è... «obbedire». [...]

Coinvolgerlo in modo positivo nelle realtà quotidiane: ecco che l’elemento formativo darà felicità al bambino, se non lo avrete mai fatto sentire come un ordine. Il significato di comando, infatti, non deve mai essere trasmesso come un invito obbligatorio prima dei quattro-cinque anni. Sembrerà semplicistico e forse ovvio, ma pochissimi invece capiscono l’importanza di farsi accompagnare e far partecipare il bambino alle commissioni, commentando a voce alta le cose che vedono. Questo sia con i genitori sia con i nonni.

L’infanzia sorridente in questo periodo storico non è purtroppo la normalità, ma l’amore, lo slancio impegnato e caricato di generosa attenzione quotidiana formerà un adulto più o meno maturo.


Lo psichiatra dalla parte dei bambini

È scomparso a 97 anni il pioniere degli studi dell’infanzia in Italia

Si era formato all’estero, poi rientrato a Roma aveva costruito il suo istituto d’avanguardia

Aveva grande rispetto per le madri e ne ha difeso l’immagine positiva

di Luciana Sica (la Repubblica, 07.02.2011)

«Per favore, niente retorica sulla mia persona». Aveva ragione a chiedere maggiore sobrietà sul suo conto, Giovanni Bollea, il celebre studioso dell’infanzia scomparso ieri a Roma a 97 anni (la camera ardente sarà allestita domani in Campidoglio, dalle 10). Aveva ragione di temerla, la retorica, perché correva il rischio di essere ingabbiato in una serie di cliché giornalistici, inevitabilmente facili: dal "vecchio saggio" al "professore appassionato", all’"irriducibile idealista". Definizioni anche gratificanti, ma semplificatorie e riduttive di un’esperienza umana e professionale di prim’ordine.

Che Bollea fosse saggio, appassionato e idealista è fuori di dubbio, ma più importante è stato il suo ruolo nell’affermazione di una disciplina - la neuropsichiatria infantile - prima molto osteggiata, poi considerata negli ambienti accademici con qualche sussiego, infine anche un po’ enfatizzata, come del resto negli ultimi anni sono stati enfatizzati i bambini. Sempre più si tecnicizza e si idealizza la loro presunta felicità: un modo sofisticato per dissimulare l’ambivalenza dei sentimenti in un Paese dove i bambini non si fanno.

Bollea, invece, ha sempre avuto una profonda fiducia nei più piccoli, nella loro diversa modalità di guardare il mondo. Era convinto che sarebbero stati proprio loro - i bambini - a distruggere l’individualismo e il consumismo della nostra epoca. Ma, di Bollea, affascinava anche la considerazione e il rispetto che aveva per le madri, secondo una lezione umana e scientifica nel segno dei grandi innovatori negli studi sull’infanzia come Donald Winnicott e John Bowlby. Una lezione che si può sintentizzare così: la mamma sa come comportarsi con il suo bambino, e in quel suo sapere naturale deve confidare pienamente.

Tutt’altro che un’ovvietà, perché la madre oggi viene considerata, e quindi si considera, la maggiore incompetente in fatto di figli, mentre una quantità di esperti le indica perentoriamente il modo di partorire, di allattare, di fare le pappe, di cambiare i pannolini, di vestire, di sorridere, di vietare, di divertire il proprio bambino. Qualcuno - i soliti psichiatri americani - ha addirittura ipotizzato che la mamma sia facilmente sostituibile. Una specie di optional, visto che i bambini sarebbero in grado di raggiungere uno sviluppo psicologico normale con qualsiasi altra figura femminile significativa.

Pacatamente ironica l’obiezione di Bollea, in un’intervista a Repubblica per i suoi novant’anni: «Non capisco proprio - disse - perché si voglia attaccare la mistica della madre, quando l’etologia ha dimostrato che questa è una mistica delle specie viventi. Penso che le ricerche più recenti hanno fatto un enorme regalo alle donne, forse il più grande. Noi sappiamo che soltanto la madre naturale è in grado di captare i segnali del bambino e di dargli significato. È lei che inizia il neonato alle sue capacità cognitive. È dunque la donna che crea la mente dell’uomo».

Le madri non sbagliano mai (1995) e Genitori grandi maestri di felicità (2005), usciti da Feltrinelli, sono tra gli ultimi libri di Bollea - di taglio divulgativo e di gran successo (assai meno recenti i suoi saggi a carattere decisamente universitario sulla Psichiatria dell’età evolutiva, usciti da Bulzoni).

Ma dove saranno mai queste mamme perfette? Quel titolo paradossale somiglia a una dichiarazione di principio, difende l’immagine della madre positiva, «felice sintesi di istinto-tradizione-cultura». Bollea cita Bion, psicoanalista molto letterario, oltre che di genio («La madre riuscirà a trasformare con successo la fame in soddisfazione, il dolore in piacere, la solitudine in compagnia, la paura di morire in tranquillità»). E quando poi scrive che di donne imperfette e sapienti ne ha incontrate moltissime, si coglie un’ammirazione tutta speciale. Bollea era però un uomo sobrio, meglio: un piemontese austero (di Cigliano Vercellese), che non amava dire di sé più di tanto. Si appassionava invece a rievocare gli anni in cui - giovanissimo e allievo prediletto di Ugo Ciarletti - si lanciò nell’avventura della neuropsichiatria infantile con il piglio del pioniere entusiasta. Nel ’46 venne scelto - gli italiani erano sei in tutto - per frequentare un corso di psichiatria a Losanna, e più tardi fu assistente a Parigi, facoltà di Medicina, cattedra di psichiatria infantile. Al ritorno in Italia, Bollea costruì dal niente quello che oggi è considerato un Istituto di neuropsichiatria infantile all’avanguardia in Europa: in via dei Sabelli, a Roma, nel quartiere di San Lorenzo. Un "centro" ora a rischio di tagli, che lui ha difeso fino allo stremo delle forze.

Anche in anni recenti Bollea ha continuato a lavorare, privatamente, e a farci sentire la sua voce, indignata e lucida, le tante volte che i bambini diventavano protagonisti di storie terribili. Ma era sempre infastidito che la normalità fosse tanto bistrattata, che non facesse notizia: implacabile il suo "j’accuse" ai media, soprattutto alla televisione, per quella che definiva «l’insana passione di rappresentare le atrocità del mondo». E l’ultima associazione - di cui è stato fondatore e presidente - ha voluto chiamarla, per ogni chiarezza, "Alberi per la vita". Era convinto che battersi contro i guasti alla natura e occuparsi del benessere dei bambini fossero attività molto simili.

Si può dire, senza retorica, che la vita di Bollea sia stata segnata da un incrollabile ottimismo - a dispetto dell’orrore che denunciava con un senso forte dell’impegno civile. «Ci ritroviamo immersi - diceva - in un’epoca piena di paure. Ma io credo che l’uomo possa ritrovare se stesso. La famiglia e la scuola costituiranno i due formidabili baluardi di una nuova rivoluzione». Si aspettava molto dal futuro, Giovanni Bollea, con quella sua aria giocosa da folletto saggio: senza nessuna simpatia per una certa arida intellettualità e i suoi narcisistici pessimismi di maniera.


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