Ve lo chiedono gli egiziani: non chiamatelo golpe
di Marco Hamam (la Repubblica, 05.07.2013)
La deposizione di Morsi non è una rivoluzione tout court, dato il ruolo dei militari, ma non può neanche essere considerata un semplice colpo di Stato. Un problema geopolitico, oltre che semantico.
Tutta la stampa occidentale, con rare eccezioni, ha definito quello che è successo in Egitto negli ultimi giorni come golpe militare, colpo di Stato dell’esercito, putsch.
Persino Limes l’ha ribadito nell’articolo di Accorsi - con il quale, tra l’altro, sono sostanzialmente d’accordo rispetto all’analisi del futuro prossimo della Fratellanza e dell’Egitto - ma vanta un tale spirito pluralista da ammettere anche l’opinione opposta.
Smettiamola di chiamarlo golpe. Ve lo chiedono gli egiziani. Ve lo chiedono tutti quelli citati da Accorsi: i manifestanti, i militari, l’Azhar, i salafiti. Aggiungo da parte mia anche i cristiani e i fulul (i mubarakiani).
Se quello di ieri è stato un golpe militare, che cos’è allora una rivoluzione? Abbiamo assistito a manifestazioni pacifiche e ordinate di folle oceaniche stimate dai 13 ai 30 milioni. Se sommiamo i manifestanti nei quattro giorni di fila arriveremo a cifre che sfiorano il centinaio di milioni di persone, un numero molto superiore a quello totale degli aventi diritto al voto.
In mezzo a quelle masse erano rappresentati tutti gli egiziani, anche i salafiti che hanno divorziato dal governo fratellesco piuttosto rapidamente, anche chi ha votato i Fratelli musulmani e poi si è pentito.
Credo che non si sia mai visto niente di politicamente e pacificamente caratterizzato comparabile a questi numeri, perlomeno da quando esistono la fotografia, i satelliti e gli elicotteri. Probabilmente la sola vera concorrenza storica viene dal famoso pellegrinaggio induista Kumbh Mela (30 milioni di pellegrini nel 2013) e dal pellegrinaggio sciita alla tomba di Hussein a Karbala’, in Iraq (circa 20 milioni nel 2013). Ma, appunto, stiamo parlando di eventi religiosi e non politici. Queste persone hanno contemporaneamente invaso tutte le maggiori città e hanno chiesto, compatti: Morsi se ne deve andare.
Il presidente democraticamente eletto Morsi (e qui non voglio aprire la polemica sui probabili conteggi “affrettati” compiuti su pressione americana) ha perso la sua legittimità guadagnata con le urne. Dietro queste manifestazioni ci sono stati mesi di preparativi.
Dal 28 aprile 2013 Tamarrud, un movimento d’opposizione nato per destituire Morsi, ha lanciato una campagna di raccolta di firme. A metà di giugno le firme erano più di 20 milioni e questo ha certamente messo in allerta i militari che, prefigurando una riedizione del 2011, hanno dato una settimana di tempo perché si arrivasse a un accordo politico tra le parti. Il 29 giugno, un giorno prima delle annunciate manifestazioni, le firme erano 22 milioni. Morsi ha vinto con 13 milioni di voti.
Limitiamoci a definizioni molto larghe, da banco di scuola e da vocabolario. A scuola mi hanno insegnato che la rivoluzione avviene quando un popolo (senza specificare numeri) rovescia un governo o un regime, mentre colpo di Stato si dice quando a farlo sono i militari, di solito in maniera antidemocratica.
A giudicare da queste definizioni scolastiche, parrebbe che l’Egitto sia entrambe le cose, sovrapposte. Il vocabolario Treccani definisce rivoluzione, in senso politico, “il processo rapido, e per lo più violento, attraverso il quale ceti, classi o gruppi sociali, ovvero intere popolazioni, sentendosi non sufficientemente rappresentate dalle vigenti istituzioni, limitate nei diritti o nella distribuzione della ricchezza che hanno concorso a produrre, sovvertono tali istituzioni al fine di modificarle profondamente e di stabilire un nuovo ordinamento”.
Lo stesso dizionario definisce colpo di Stato: “atto con cui un gruppo ristretto di persone, anche se già investite di poteri costituzionali, mutano in modo violento, o quanto meno extralegale, l’ordine costituzionale vigente".
Di primo acchito, nessuna delle due definizioni di Treccani sembra perfettamente calzare con la situazione egiziana: “rivoluzione” non è, perché è pacifica; “colpo di Stato” neanche, perché non stiamo parlando di un gruppo ristretto di persone.
Tuttavia, il dizionario specifica, nel caso del golpe: “Per tale caratteristica il colpo di Stato si distingue dalla rivoluzione, in quanto questa è operata dal popolo o da organi non costituzionali”. Il popolo è la chiave di volta, è il discrimine tra golpe e rivoluzione.
Se, etimologicamente e, spesso costituzionalmente, nelle democrazie il potere appartiene al popolo (démos = popolo, cràtos = potere) [1], il popolo ha il diritto di esercitarla, a maggior ragione se pacificamente, anche se al di fuori del consueto percorso istituzionale.
Democrazia non equivale a urnocrazia. Certo non equivale neanche solo alle manifestazioni di piazza. Ma questo è un altro discorso, da fare in altra sede.
Quindi: in Egitto l’esercito ha deposto, con un atto di forza straordinario, un governante, democraticamente eletto, contro il quale il popolo ha manifestato in massa.
Se usiamo il termine golpe stiamo definitivamente cancellando la parola rivoluzione dal dizionario politico. Nessuna sommossa popolare della storia può più considerarsi una rivoluzione ma sempre e solamente un golpe perché si presuppone che ci sia sempre un burattinaio - militare, paramilitare, extraparlamentare o istituzionale - che muova le masse.
Ma forse dobbiamo liberarci di certe immagini preconcette: che cos’è, infatti, nell’immaginario comune una rivoluzione? Quando un gruppo di rivoluzionari entra violentemente nei palazzi del potere, uccidendo o imprigionando i governanti, bypassando un esercito immobile? Forse che non si può più parlare di rivoluzione quando milioni di persone che pretendono la defenestrazione di un presidente (quindi tecnicamente rivoluzionarie) chiedono la protezione dell’esercito regolare, senza, dunque, imbracciare le armi? Siamo sicuri che l’esercito non ha avuto alcun ruolo nelle altre rivoluzioni? Rivoluzione si può dire solo quando la protesta viene soffocata nel sangue? Se Morsi si fosse dimesso, la stampa avrebbe comunque parlato di golpe? Sono domande che pongo per primo a me stesso: questi fatti egiziani mi hanno messo linguisticamente in crisi.
Non possiamo parlare di golpe tout court. Storicamente, secondo Varol, la gran parte dei golpe militari è stata perpetrata da ufficiali affamati di potere, principalmente in Sud America e in Africa, che hanno cercato di deporre regimi esistenti (militari o civili), sostituendosi a essi, al fine di ottenere potere e ricchezza.
L’esercito egiziano è sfavillante, ha tutto, è uno dei più ricchi e rigogliosi del pianeta ed era arrivato a un accordo politico-economico con i Fratelli musulmani. Che interesse avrebbe avuto a fare un golpe, sapendo di andare incontro alla violenza dei sostenitori della Fratellanza? Se vogliamo dirla tutta, poi, la repubblica egiziana è stata fondata sul colpo di Stato del 1952 (quello sì un golpe, fatto da pochi ufficiali) e guidata da militari fino al 2011.
Il fatto ironico è che nel 2011 le dinamiche furono simili: i militari presero in mano le redini del paese dopo estenuanti, gigantesche manifestazioni che forzarono l’ex presidente Mubarak a rassegnare le dimissioni. Eppure molti di quelli che oggi gridano al colpo di Stato, tra cui la stessa amministrazione americana, chiamarono quel “fatto” “la più grande rivoluzione degli ultimi tempi”.
Stavolta, tra l’altro, rispettando la costituzione del 1971, la presidenza è passata nelle mani del presidente della Suprema Corte Costituzionale, ‘Adli Mansur e non all’esercito, che sembra - i prossimi mesi potrebbero smentirmi - non aver voglia di stare in primo piano dopo la tremenda esperienza del biennio 2011-2012.
Lo stesso comunicato rivoluzionario del 3 luglio e la road map per i prossimi mesi sono stati redatti dopo una riunione con le più importanti istituzioni/movimenti politici nazionali: Tamarrud, l’opposizione laicista, la polizia, l’Azhar, la Chiesa copta. La road map coincide largamente con le richieste di Tamarrud.
Avete mai visto voi un golpe così democratico? A mio parere, in un solo, unico caso, si potrebbe parlare tecnicamente di golpe, o meglio, di golpe mascherato: nel momento in cui, documentazione alla mano, si dimostri che dietro Tamarrud e le manifestazioni di piazza si celino i militari.
In fondo, a ben pensarci, i due termini golpe e rivoluzione nascono e si diffondono per descrivere fatti storici: rivoluzione, perlomeno nel significato moderno, si è diffuso per definire quello che è successo in una determinata regione, Inghilterra, in un determinato periodo storico, il XVII secolo.
Gli eventi egiziani mettono tremendamente in discussione definizioni ormai obsolete e inadatte a spiegare fatti estremamente più complessi e liquidi del passato. C’è chi propone una locuzione interessante: “colpi di Stato democratici”.
A voler essere onesti, gli unici a insistere sulla parola golpe sono i Fratelli musulmani, i loro seguaci interni e i loro sponsor esterni (Stati Uniti e alcuni paesi europei, tra cui l’Italia, insieme a Turchia e Iran). Ed eccoci forse arrivati al busillis.
Non ci troviamo più solo nell’ambito della semantica o della politologia.
Siamo sul terreno, nudo e crudo, della geopolitica: se il tuo leader mi sta antipatico e tu lo cacci (facendomi anche un piacere), è rivoluzione; se il tuo leader mi sta simpatico (e magari l’ho aiutato a vincere) e tu lo mandi via, allora è un golpe. Con tutte le conseguenze nefaste a cui questo può portare.
Ma alla fine è veramente una semplice questione di punti di vista?
Note:
[1] Nella Costituzione egiziana del 2011, sospesa il 3 luglio scorso, all’articolo 3 si legge: “La sovranità appartiene al popolo soltanto, fonte dei poteri, il quale la esercita e protegge, preservando l’unità nazionale”.