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CHE LA DEA "GIUSTIZIA" ("MAAT") SOSTENGA IL POPOLO EGIZIANO NEL SUO CAMMINO ...

L’EGITTO E LA NOSTRA VERGOGNA: ROMA TACE. "L’occasione che perderemo": una nota di Lucio Caracciolo - con aggiornamenti (nel forum), a cura di Federico La Sala

Mentre tutto il mondo si preoccupa del dopo-Mubarak, noi ci dilaniamo sulla "nipote" (...)
venerdì 11 febbraio 2011 di Federico La Sala
[...] Nell’Egitto khedivale l’italiano era lingua franca, usata nell’amministrazione pubblica. Un tipografo di origine livornese, Pietro Michele Meratti, vi fondò nel 1828 il primo servizio di corrieri privati, la Posta Europea, poi assurto a monopolio pubblico. Le diciture delle prime serie di francobolli egiziani erano in italiano. Decine di migliaia di italiani, tra cui molti ebrei, abitavano il Cairo e Alessandria, dove i segni del "liberty alessandrino" sono ancora visibili. La nostra (...)

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> L’EGITTO E LA NOSTRA VERGOGNA: ROMA TACE. --- NESSUN INCUBO ISLAMICO. In piazza Tahrir ho visto l’Egitto laico (di Robert Fisk)

giovedì 3 febbraio 2011


-  Nessun incubo islamico.
-  In piazza Tahrir ho visto l’Egitto laico

-  Martedì scorso hanno sfilato insieme donne con il niqab e ragazze con i capelli lunghi, poveri e ricchi.
-  Non è un popolo anti-occidentale o anti-americano

-  di Robert Fisk (l’Unità e The Independent, 03.02.3011)

IL CAIRO Quella di martedì è stata la parata della vittoria, ma senza la vittoria. Il solo dispiacere che al calar delle tenebre Hosni Mubarak si autodefiniva ancora «presidente» dell’Egitto. Mubarak ha concluso la giornata come previsto, apparendo in televisione per annunciare che bisognerà aspettare fino alle prossime elezioni. Sulle prime agli egiziani avevano detto che questa doveva essere la marcia di un milione di persone fino al Palazzo di Kuba, residenza ufficiale di Mubarak a Heliopolis. Ma la folla era tale che gli organizzatori, che facevano capo a circa 24 gruppi di opposizione, hanno deciso che era troppo pericoloso esporsi alle cariche della polizia segreta. In seguito hanno detto di aver scoperto un furgone con a bordo uomini armati nei pressi di piazza Tahrir. Io ho visto solamente 30 sostenitori di Mubarak che urlavano a squarciagola il loro amore per l’Egitto davanti alla sede della radio sotto lo sguardo vigile di oltre 40 soldati.

Le urla di odio per Mubarak stanno diventando familiari e gli striscioni sempre piu’ interessanti. «Né Mubarak né Suleiman; non abbiamo bisogno di Obama - ma non ce l’abbiamo con gli Usa», diceva generosamente uno striscione. «Via tutti, compresi i vostri schiavi», diceva un altro. In un cortile sporco e malridotto ho visto dei ragazzi che con lo spray scrivevano su candide lenzuola rettangolari gli slogan politici per pochi centesimi. Le sale da te dietro la statua di Talat Harb erano affollate di gente che parlava di politica con la stessa passione che si vede nei dipinti orientalisti di Delacroix. Ma cosa era? L’inizio di una rivoluzione? O una rivolta? O una «esplosione» di rabbia come l’ha descritta un giornalista egiziano con il quale ho parlato? Questo avvenimento politico senza precedenti aveva alcuni elementi peculiari. Anzitutto lo spirito laico della manifestazione. Donne col chador, il niqab o il fazzoletto marciavano allegramente accanto a ragazze con i capelli lunghi sulle spalle, gli studenti camminavano accanto agli imam e ad uomini con barbe che avrebbero fatto morire di invidia Osama bin Laden. I poveri con i sandali logori e i ricchi vestiti da uomini d’affari si confondevano nella folla multicolore dando una rappresentazione grafica dell’Egitto diviso in classi e facendo pensare all’invidia sociale incoraggiata dal regime. Avevano fatto l’impossibile e, in un certo senso, la loro personale rivoluzione sociale l’avevano già fatta con pieno successo.

Poi c’era l’assenza dell’«islamismo» vero e proprio incubo dell’Occidente, incoraggiato ovviamente dall’America e da Israele. Mentre il mio cellulare continuava a squillare andava in onda la solita, vecchia storia. Tutti - giornalisti radiofonici, televisivi, redazioni - volevano sapere se dietro l’oceanica dimostrazione c’era la Fratellanza Musulmana. La Fratellanza avrebbe preso il potere in Egitto? Ho detto la verità. Erano scemenze. La «Fratellanza Musulmana» alle ultime elezioni ha preso il 20% dei voti e i membri dell’organizzazione sono 145.000 su una popolazione di oltre 80 milioni.

Una folla di egiziani che parlavano inglese si è raccolta intorno a me durante uno di questi imperdibili colloqui telefonici. Sono quasi caduti a terra dalle risate al punto che ho dovuto troncare la conversazione. Naturalmente non è servito a nulla spiegare intervenendo in diretta che il gentile e umanissimo ministro degli Esteri di Israele, Avigdor Lieberman - che una volta ha detto che “Mubarak puo’ andare all’inferno” - può finalmente ritirarsi dalla scena, politicamente intendo. La gente era travolta dagli eventi. E anche io. Mi trovavo all’incrocio dietro il Museo Egizio dove appena cinque giorni prima - mi sembravano passati cinque mesi - sono quasi morto soffocato per lacrimogeni. Fino ad allora nessuna parola di lode e sostegno da parte dell’Occidente per queste donne e questi uomini coraggiosi. E anche l’altro ieri non si è levata una voce per ringraziarli.

Sorprendentemente erano pochissimi i segni di ostilità nei confronti degli Stati Uniti malgrado le espressioni infelici di Obama e di Hillary Clinton negli otto giorni precedenti. Quasi dispiaceva per Obama. Se avesse sostenuto il tipo di democrazia che aveva predicato al Cairo sei mesi dopo la sua investitura, se avesse chiesto qualche giorno prima l’uscita di scena di questo dittatore di Serie C, la folla oltre alla bandiera egiziana avrebbe sventolato quella degli Stati Uniti e Washington avrebbe realizzato la missione impossibile: trasformare l’odio contro l’America (Afghanistan, Iraq, «guerra al terrore» e via dicendo) nel rapporto più disteso e amichevole che gli Usa ebbero negli anni ’20 e ’30 e, malgrado l’appoggio dato alla nascita di Israele, nel calore che caratterizzava le relazioni tra arabi e americani fino agli anni ’60.

Ma no. Queste possibilità’ sono andate perse in appena sette giorni di debolezza e codardia come quelli vissuti a Washington e che stridevano con il coraggio di milioni di egiziani che cercavano di fare quello che noi occidentali gli chiediamo sempre: trasformare una dittatura in democrazia. Loro volevano la democrazia. Noi volevamo la «stabilità», la «moderazione», la «misura», la leadership «forte», le «riforme» caute e i musulmani ubbidienti.

Il fallimento della leadership morale occidentale potrebbe rivelarsi una delle principali tragedie del Medio Oriente. L’Egitto non è anti-occidentale. Non è nemmeno particolarmente anti-israeliano anche se le cose potrebbero cambiare. La tragedia è che un presidente americano ha teso la mano al mondo islamico e poi ha mostrato il pugno quando quello stesso mondo islamico è sceso in piazza per combattere una dittatura e chiedere la democrazia.

Questa tragedia potrebbe proseguire nei giorni a venire nel caso in cui Stati Uniti e Unione Europea decidessero di appoggiare il successore designato di Mubarak, vale a dire il vicepresidente Omar Suleiman, capo dei servizi segreti e negoziatore con Israele. Suleiman ha detto di voler aprire un tavolo negoziale con «tutte le fazioni» - ha persino tentato di imitare Obama. Ma in Egitto tutti sanno che un suo eventuale governo sarebbe l’ennesima giunta militare che gli egiziani sarebbero chiamati ad ossequiare per ottenere quelle elezioni veramente libere che Mubarak non ha mai concesso. È possibile, è concepibile che il migliore amico di Israele in Egitto dia a questi milioni di egiziani la libertà e la democrazia che chiedono? È possibile che l’esercito appoggi acriticamente quella democrazia considerato che riceve da Washington la bella somma di 1,3 miliardi di dollari l’anno? Questa macchina militare, che non combatte una guerra da 38 anni, è sotto-addestrata e super-armata con armamenti per lo più obsoleti - anche se l’altro ieri si potevano ammirare i nuovi carri M1A1 - e vanta legami inestricabili con il giro degli alberghi e dei complessi residenziali di lusso, graziosi regali del regime Mubarak ai generali per premiare la loro fedelta».

E cosa facevano gli americani? Correva voce che i diplomatici americani fossero in viaggio per l’Egitto per presiedere il negoziato tra il futuro presidente Suleiman e i gruppi dell’opposizione. Correva anche voce che diversi soldati del corpo dei Marines fossero stati inviati in Egitto per difendere l’ambasciata americana da eventuali attacchi. Certo è che Obama alla fine ha detto a Mubarak di togliere il disturbo. Certo è che le famiglie americane sono state evacuate dal Marriott Hotel del Cairo e scortate da soldati e poliziotti egiziani all’aeroporto abbandonando un popolo che poteva benissimo essere amico dell’America.

(c) The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto


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