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RIPENSARE L’UNO E I MOLTI ("UNO"), L’IDENTITÀ E LA DIFFERENZA!!! CONTIAMO ANCORA COME SE FOSSIMO NELLA CAVERNA DI PLATONE. NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ....

UNITÀ D’ITALIA E FOLLIA: EMERGENZA LOGICO-POLITICA EPOCALE. PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI UNITÀ E DI SOVRANITÀ (SOVRA-UNITÀ). Materiali sul tema - a c. di Federico La Sala

SAPERE AUDE!: USCIRE DALLA CAVERNA, USCIRE DALLO STATO DI MINORITÀ, USCIRE DALLA "PREISTORIA" E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE E NEL DELIRIO DELL’ “UOMO SUPREMO” DEI VISIONARI E DEI METAFISICI ATEI-DEVOTI
mercoledì 18 giugno 2014
Premessa
L’ITALIA, IL "BIPOLARISMO PRESIDENZIALE", E I COSTITUZIONALISTI IN COMA PROFONDO (1994-2011). - con allegati
FESTA NAZIONALE, IL 17 MARZO. IL CARNEVALE DELLA FOLLIA ISTITUZIONALE (1994-2011). L’UNITÀ D’ITALIA E LA "FOLLIA INCOSTITUZIONALE" DI "DUE PRESIDENTI" DELLA REPUBBLICA. - con allegati
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
LA COSTITUZIONE, "I DUE CORPI DEL RE", E I DUE PATTI DEL CITTADINO.
"APRITE, APRITE": SONO IL VOSTRO "PAPI"!!! LA (...)

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> UNITA’ D’ITALIA E FOLLIA: EMERGENZA LOGICO-POLITICA EPOCALE. ---- UNA GRANDE DERIVA. Ripensare la sinistra: «La sfida: ricostruire un punto di vista della sinistra» (di Alfredo Reichlin) -

venerdì 8 novembre 2013

Ripensare la sinistra

di Alfredo Reichlin (l’Unità, 08.11.2013)

      • Il testo pubblicato è tratto dal discorso tenuto ieri da Alfredo Reichlin al convegno «Ripensare la cultura politica della sinistra».

LA SINISTRA È IN UN GRANDE TRAVAGLIO MA LA CRISI CHE LA ATTRAVERSA È TANTO PIÙ GRAVE PERCHÉ ESSA SEMBRA PRIVA DI UNA CHIARA IDEA DI SÉ E DEL SUO RUOLO. Non si vede un pensiero politico che abbia l’ambizione di leggere in modo autonomo e critico le cose nuove del mondo. Ma non è della contingenza politica che voglio parlare. Qui si vorrebbe riflettere sulla necessità di affermare una visione fondatamente critica, tanto più necessaria in rapporto a cambiamenti che non sto a ricordare. Cambiamenti che si possono riassumere sotto il titolo di «fine della occidentalizzazione del mondo».

La situazione è paradossale. Da un lato è fallita l’idea che proclamava la fine della storia e di conseguenza l’accettazione di un pensiero unico non più discutibile (il liberismo) ma dall’altro permane un vuoto. Non si vede un pensiero diffuso capace di dare alla politica una diversa dimensione. Perché di questo si tratta: insieme a tante cose, è la dimensione stessa dell’uomo che sta cambiando. Cambia il suo rapporto, non solo con gli altri uomini, ma con la natura. (...)

Non basta che i filosofi ci spieghino il mondo, occorre un nuovo soggetto su cui far leva se vogliamo cambiarlo. Ed è ciò che in effetti fece il socialismo storico. Esso dominò il Novecento non solo perché predicò la giustizia sociale ma perché fece leva su strumenti e pensieri capaci di farla valere. Inventò strumenti molto potenti che non esistevano prima: il sindacato, il partito di massa, il suffragio universale. Impose al capitalismo un compromesso democratico. Il lavoro restava una merce ma una merce speciale: per comprarla occorreva che la plebe si trasformasse in cittadini, armati di diritti e leggi uguali. I quali diritti si materializzavano in una nuova forma di Stato. Un potere. Lo Stato sociale. Insomma un «profeta armato». Ed è proprio questo il punto: questo «profeta» è stato «disarmato» alla svolta degli anni 70. Non solo in Italia. (...)

La sinistra si è divisa. Una parte di essa non si è nemmeno posta i problemi che Alain Tourane riassume così, in una sintesi estrema e forse estremista: «Tutte le categorie e le istituzione sociali che ci aiutavano a pensare e costruire la società (Stato, nazione, democrazia, classe, famiglia) sono diventate inutilizzabili. Erano figlie del capitalismo industriale. All’epoca del capitalismo finanziario non corrispondono più alla realtà delle cose».

Io non sono così drastico. Però anch’io credo che non abbiamo valutato in tutta la sua portata la cosiddetta «rivoluzione conservatrice». Non finiva solo un modello economico ma qualcosa di più lungo periodo. Finiva quel grande compromesso reso possibile dall’esistenza di determinati poteri (Stati, leggi, culture, nuova soggettività delle masse, sistemi) che garantivano un determinato rapporto tra politica ed economia. Gli «spiriti animali» dell’avidità si legittimavano in quanto costretti a misurarsi con nuovi diritti di cittadinanza, conquiste di libertà, diffusione del benessere, perfino con le spinte verso una certa equità sociale.

Non pretendo di aggiungere nulla alle tante analisi. Misuro solo gli effetti dell’enorme squilibrio che si è creato non solo nella distribuzione della ricchezza ma nel rapporto di forza tra la potenza dell’oligarchia finanziaria globalizzata e la debolezza della politica localizzata.

Si è aperta in realtà una nuova grandissima «questione sociale», molto diversa da quella classica originata dal vecchio industrialismo. Essa non consiste più essenzialmente nella contrapposizione tra salario e profitto. È il valore del lavoro che è messo in discussione.

Ciò apre una profonda contraddizione con il fatto che il lavoro è nonostante tutto il luogo della realizzazione di sé ed è il fondamento della cittadinanza. Perciò a me pare che il passaggio da costruire è realizzare una condizione di autonomia facendo molta leva sul superamento del lavoro come precariato, come residuo. E ciò in nome della necessità di creare una condizione umana segnata da una più forte conoscenza, responsabilità e partecipazione alle decisioni.

Dovremmo smetterla con la futile polemica tra Stato e mercato. Il mercato non cessa affatto di avere il suo ruolo. Ciò che gli sviluppi del mondo moderno rendono sempre più chiaro è che il mercato di per sé non è in grado di sovra determinare lo sviluppo degli altri sistemi sociali. Desideri, comportamenti e valori stimolati proprio dalle economie post-industriali tendono a farsi valere e a condizionare a loro volta l’economia al punto da sovvertirne i meccanismi di funzionamento. È la cosa su cui aveva molto riflettuto Karl Polany.

È diventato difficile perfino misurare con i parametri tradizionali il valore economico, il quale appare sempre più determinato dall’estensione delle reti e dalla velocità con cui esse consentono di scambiare idee, conoscenze e relazioni. È quindi venuto il momento di assumere una visione più ampia di ciò che significa creare «valore aggiunto» dal momento che questo si ottiene sempre più integrando conoscenza e socialità, investimenti in beni collettivi e intraprendenza personale.

La verità è che, così come è decrepita la vecchia contrapposizione cara ai «liberal» tra Stato e mercato, è anche diventata meno significativa la vecchia contrapposizione «socialista» tra profitto e salario. Lo sfruttamento è ben altra cosa: riguarda il lavoro ma investe tutta la condizione umana: la vita, i modi di pensare, i territori.

Ecco perché direi che il problema che massimamente emerge è quello di guardare al di là delle cronache dei partiti per interpellare forze diverse, anche culturali, sulla necessità di pensare un nuovo pensiero. Una nuova soggettività. La capacità non solo di definire in astratto le grandi riforme che sono necessarie, ma il «con chi e contro chi» e anche il «come» farle. Astratte fantasie?

Penso alla famosa osservazione di Antonio Gramsci relativa alla «concretezza», cioé il ruolo che in un determinato scenario storico-sociale assume la presenze o l’assenza di un soggetto portatore di una critica della realtà e di un progetto di cambiamento. Riesca o no a realizzare appieno la sua proposta, dice Gramsci, è l’esistenza stessa di questo punto di vista che fa parte del quadro e lo modifica. Ecco. Io credo che la sinistra se vuole tornare a contare nel mondo nuovo deve porsi questo problema.


«La sfida: ricostruire un punto di vista della sinistra»

Biasco, Urbinati, Pasquino, Pinelli, Rusconi, Galli, Tronti e Simone all’iniziativa con Reichlin

«Superare la subalternità al liberalismo solidale»

«Uscire dal silenzio per rilanciare una soggettività sociale e anche un partito»

di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 8.11.2013)

Una grande deriva. Globale. E il tentativo di reagire, tornando a nominare ciò che è andato disperso, va rinominato: la sinistra. Da questa percezione nasce il convegno «Ripensare la cultura politica della Sinistra», alla sala Capranichetta di Piazza Montecitorio, scaturito da un’idea dell’economista Salvatore Biasco e inaugurato ieri dalla relazione di Alfredo Reichlin, che oggi pubblichiamo su l’Unità. Reichlin stesso definisce il tema: «il silenzio della sinistra» e il tentativo di spiegare perché. Specie in un momento in cui era lecito attendersi il contrario.

Ovvero il rilancio di politiche di regolazione del ciclo economico, laddove il capitalismo finanziario ha mandato all’aria i margini residui del patto tra economia e democrazia. Precipitando il mondo euro-occidentale in recessione. Con attacco senza precedenti al lavoro e al welfare e sprigionamento, dagli spiriti animali liberisti, di altri temibili spiriti: populismo, fondamentalismi, destre radicali.

Per Reichlin si tratta di rilanciare una «soggettività sociale della sinistra» e anche un partito. Un punto di vista insomma, su cui far leva per liberare “egemonicamente” i ceti subalterni (e cita il Gramsci delle crisi organiche del capitalismo). E il punto dibattuto resta: come ricostruirlo questo punto di vista generale in un mondo che rende invisibili i soggetti o li colonizza? Trasformando valori e istanze post-materiali in narcisismo e gregarismo consumista?

Hanno provato in tanti a rispondere ieri, da Salvatore Biasco, a Nadia Urbinati, a Gianfranco Pasquino, a Cesare Pinelli e a Gian Enrico Rusconi. Fino alla Tavola rotonda conclusiva con Carlo Galli, Mario Tronti, Biasco stesso e Raffaele Simone. Mentre oggi si cimentano Mariuccia Salvati, Luigi Ferrajoli, Fabrizio Barca, Laura Pennacchi, Miguel Gotor, con le conclusioni di Walter Tocci (il convegno è organizzato dalle fondazioni ex Ds, con Ugo Sposetti in qualità di sponsor politico).

E allora vediamoli i modi di ridare voce alla sinistra, in un momento delicatissimo, perché nel Pd si profila una leadership “personale” che fuoriesce del tutto dall’alveo di quello che della sinistra fu il troncone principale: il movimento operaio.

Ad esempi Biasco denuncia la smemoria di una comunità di destino e di interessi. Unita all’assenza di un «paradigma critico della società capitalista». Riprende il tema della soggettività di massa del partito e propone una «socialdemocrazia non nostalgica né statalista», ma che incarni il ruolo di regolatore e redistributore per il rilancio della domanda e la critica del capitalismo «così com’è». Biasco invoca un altro capitalismo: «sociale», lo definisce. Che incorpori dosi massicce di comunità e responsabilità. Dentro «compatibiltà sistemiche», da spingere in avanti e senza massimalismi.

Nadia Urbinati invece rileva come la sinistra sia stata essa stessa causa del suo male. Mostrandosi subalterna al «liberalismo solidale». Di qui una vera e propria «afasia in economia», e il trionfo congiunto di populisti e tecnici, contro la politica organizzata. Per Urbinati è necessario attaccare il nodo del «capitalismo manageriale e monetarista»: invisibile e irresponsabile. Che depotenzia, come dice Habermas, le istituzioni, le leggi e la politica. Il set di valori da cui ricominciare? Eccolo: «dignità della persona, beni comuni, eguaglianza, partecipazione all’economia, diritti civili e laicità degli stili di vita».

Per Pasquino la socialdemocrazia resta attualissima, come pure il keynesismo. Al punto che il politologo stende un «breviario ideale del cittadino socialdemocratico». Un soggetto civico informato, che partecipa a un tessuto comune, non una tantum come ai gazebo. E che perciò esprime classi dirigenti dalle «sue» organizzazioni. Dal sindacato, al partito, alle associazioni collaterali. Come è stato e come è ancora nelle grandi socialdemocrazie, malgrado i segni dell’egemonia liberista e monetarista. Del resto, dice ancora Pasquino, cosa c’è di più socialista dell’articolo 3 della nostra Costituzione, che prescrive di rimuovere gli ostacoli allo sviluppo personale e alla partecipazione economi- ca? Dunque, ci vogliono partiti pedagogici e radicati, per contrastare le forze impersonali dell’economia.

Anche se, visti i vincoli internazionali, occorrerebbe «una rivoluzione permanente e socialdemocratica alla Trotzky, un Trotzky socialdemocratico...». Altri spunti: «l’attacco di Jp Morgan all’eccesso di partitismo e socialismo presente nelle istituzioni dei Paesi europei». Lo ricorda Cesare Pinelli, professore alla Sapienza: è la finanza a voler fare la riforma dello Stato, la stessa finanza che ha generato la catastrofe!

Poi c’è l’analisi di Gian Enrico Rusconi, a modo suo drammatica. Dice: la Germania di Frau Merkel, nazional-monetarista e corporativa, «non sente ragioni». Esercita suo malgrado un’egemonia mercantilista, sulla base di regole che non intende mutare e che oggi la favoriscono. E «i tedeschi sono d’accordo, dagli operai agli imprenditori». Forse, conclude, meglio cercare di farle cambiare idea con il peso degli Stati nazionali, «più che con le utopie federaliste».

Due batture infine sulla tavola rotonda. Con due parole al centro. «Emancipazione» (Galli) e «Liberazione» (Tronti). Sono diverse, ma convergono su un punto: occorre ribaltare i rapporti di forza tra dominanti e dominati, e a favore dei secondi. Altrimenti non c’è sinistra.


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