L’importanza delle radici
di Gian Luca Favetto (la Repubblica, 15 novembre 2011)
Un festival di letteratura con l’Italia come paese ospite. In cerca di luoghi dove seminare e raccogliere parole, le parole che producono pensieri e sentimenti. Che poi sono i libri, questi luoghi, e sono anche tutti gli uomini che con i libri parlano, comunicano, s’incontrano e confrontano, fanno esperienze, condividono tempo e storie. Si chiama I luoghi delle parole, è giunto all’ottava edizione ed è un festival sparso sul territorio. Dura una settimana e ha casa in dieci comuni piemontesi non distanti da Torino: Chivasso, Settimo, Brandizzo, Caluso, Castagneto Po, Leinì, San Benigno Canavese, San Maurizio Canavese, San Sebastiano da Po, Volpiano.
Quest’anno ha scelto un tema semplice: l’identità. All’ombra del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, una trentina di incontri declinano in tutte le possibili forme e sfumature il concetto, l’ipotesi, il dubbio, il sostantivo, la sostanza identità. Che cos’è?, di cosa è fatta?, da dove viene e dove va?, cosa dice oggi e cosa diceva ieri e cosa dirà domani. Se si parla di identità, l’Italia ospite ci sta bene. Come fosse un paese straniero, persino qui, in un lembo di pianura fra Po e Dora. In fondo, e neanche troppo in fondo, l’Italia è un paese straniero. Straniero a se stesso prima che agli altri. Ancora deve conoscersi, sperimentarsi, capirsi, incontrarsi. E non è certo che sia un male.
Detto questo, nell’abbuffata di incontri sull’identità, io parlo di radici, porto le radici. Radici versus identità. Quelle prescindono da questa. Non appartengono allo stesso sentire. Non c’è da far confusione. Le radici sono plurali, l’identità è un monolite cementificato. Le radici camminano, sono viaggio, l’identità è un arresto di tempo che fu. L’identità è dietro, le radici sono davanti. L’identità è un arrocco che difende, le radici entrano in contatto con l’altro, cercano e danno nutrimento, cercano e danno mondo. L’identità ha l’idem dentro, lo stesso, il medesimo, l’omologato, le radici sono differenze che si diramano. L’identità ha denti che mozzicano, strappano, lacerano, le radici non mordono, succhiano. Solo parole, si può obiettare. Ma sono le parole che contano e cantano, e fanno esistere le cose. Nessuna cosa è dove la parola manca, dice un verso del poeta tedesco Stefan George.
Le parole sono fatti: fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza. Le parole sono materia, sono carne e sono architravi. Non bisogna temerle, bisogna usarle. Allenarsi e usarle bene, con cura. Chi ha cura di se stesso e degli altri, di se stesso in mezzo agli altri, cura le parole. Le preoccupazioni vengono da come si usano. Non hanno colpe, non portano colpe, loro; a seconda dei casi, portano senso, fantasie, bisogni, speranze, dolore. E però capita che qualcuno usi identità - aggiungendo l’aggettivo culturale - come una mazza ferrata o un muro di protezione.
C’è chi dice che l’identità culturale sia la madre di tutti i razzismi. Non è così: non è madre, nemmeno matrigna, è zitella. L’identità culturale è la zitella di tutti i razzismi. Arida, non dà frutti, solo pene. Invece, le radici sono l’inizio delle storie, stanno al principio e vanno. Mentre l’identità - con questo accento che sa di passato remoto - è alla fine delle storie, è il loro tramonto. Noi siamo fatti di storie più che di atomi. Grazie alle storie viviamo. Là dove c’è una storia, c’è un uomo. Sono l’uno le radici dell’altra, e viceversa. L’identità è un valzer con se stessi, ogni tanto bisogna cambiare partner