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RIPENSARE L’UNO E I MOLTI ("UNO"), L’IDENTITÀ E LA DIFFERENZA!!! CONTIAMO ANCORA COME SE FOSSIMO NELLA CAVERNA DI PLATONE. NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ....

MATEMATICA E CIVILTÀ: UNA CRISI EPOCALE. Odifreddi dà alla matematica l’onore di grande motore della civiltà, ma ancora non sa «Che cos’è il numero, che l’uomo lo può capire? E che cos’è l’uomo, che può capire il numero?». La sua recensione di un saggio di Alex Bellos, con alcune note - di Federico La Sala

(...) rispondere a entrambi gli interrogativi, e di mostrare come le storie del numero e dell’uomo siano in realtà intrecciate in maniera inestricabile, e i progressi e regressi dell’uno siano andati di pari passo coi progressi e regressi dell’altro.
venerdì 25 febbraio 2011 di Federico La Sala
[...] stupisce quindi che il libro di Bellos sia in realtà una storia delle civiltà mascherata, osservata e raccontata dai complementari punti di vista del numero, delle cifre e del calcolo: tre aspetti di un’unica realtà, che costituiscono le versioni aritmetiche del pensiero, della scrittura e del linguaggio. Né stupisce che il libro mostri che, come le idee sono legate alla lingua in cui vengono espresse, e le parole sono legate alla scrittura con cui vengono registrate, così le varie (...)

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> MATEMATICA E CIVILTA’: UNA CRISI EPOCALE. --- «Dovremmo essere tutti femministi», invita la Adichie. Perché l’unico numero primo pari è il due (di Melania Mazzucco)

domenica 10 maggio 2015


Siamo tutti femministi

Ridotta a macchietta, caricatura o anacronismo. Oppure recuperata con operazioni più glamour che politiche. Invece ora la più giusta rivoluzione del XX secolo ritorna

A patto di farla insieme agli uomini

Perché l’unico numero primo pari è il due

di Melania Mazzucco (la Repubblica, 10.05.2015)

DOVE eravamo rimasti col femminismo? In Occidente da almeno vent’anni la parola è andata fuori corso, come una vecchia moneta. Rottamata, liquidata, trasformata in un ironico insulto. Non fare la femminista. Non sarai mica femminista? Oppure in un anacronismo. Negli ultimi vent’anni per una donna proclamarsi femminista era un boomerang, come presentarsi a un party con un vestito fuori moda. Una dichiarazione di inattualità, un modo sicuro per raccogliere l’esecrazione universale - anche di molte fra quante, a loro tempo, furono orgogliose di esserlo. Il rancido dibattito sugli errori e sui fallimenti del femminismo storico è diventato un pretesto per affossare, con la parodia del femminismo, e delle femministe, l’unica giusta rivoluzione del Ventesimo secolo.

Ci voleva una bravissima scrittrice nigeriana, Chimamanda Ngozi Adichie, che sa essere diretta senza essere semplice, sia quando inventa romanzi sia quando recita una conferenza di trenta minuti, per riaccendere l’attenzione. Poi una star planetaria come Beyoncé ha campionato alcune frasi del discorso di Adichie, Dovremmo essere tutti femministi, inserendole nella sua canzone Flawless, e la parola “femminista” è diventata di nuovo attraente. Fotografie patinate con la parola femminista in bella vista dietro l’icona di una giovane donna di successo, vibranti discorsi di attrici intelligenti e graziose davanti a platee attonite di signori attempati hanno completato il recupero del concetto - rendendolo glamour per le nuove generazioni: l’operazione di marketing, o di restyling, è perfettamente riuscita. Ma forse non si tratta solo di questo. Liberato dalla zavorra dell’ideologia, ricondotto ai comportamenti minimi della vita quotidiana, questo neofemminismo “pop”, o “light” (copyright Annie Lennox), ha avuto il grande merito di ricominciare a far discutere di disuguaglianza. Perché è di questo che si tratta.

Letteralmente, femminista è «persona che crede nell’eguaglianza sociale, politica, giuridica ed economica dei sessi». Potrebbe sembrare una convinzione ormai acquisita, trascorso più di un secolo dalle prime rivendicazioni delle suffragette (che chiedevano, si badi, il diritto di voto alle elezioni, cioè semplicemente la voce, ovvero la fine di una millenaria esclusione e segregazione): oggi non si incontra nessuno che pubblicamente osi proclamarsi in disaccordo, e osi riesumare i vecchi stereotipi dell’inferiorità mentale, o biologica, della donna.

Ma - al di là delle buone intenzioni e della correttezza politica di facciata - questa parità che tutti teoricamente ritengono cosa buona e giusta, nella società, nella politica, nel diritto, nell’economia, è stata raggiunta? Per rispondere, bisogna tener conto di troppe differenze - geografiche, culturali, economiche, anagrafiche, religiose - e forse questa è già la risposta.

Non è stata raggiunta la parità se, facendo lo stesso mestiere e avendo le stesse qualifiche, gli stessi diplomi, la stessa esperienza, una donna guadagna meno di un uomo, solo perché è una donna. Se a casa, a scuola, all’università, in azienda, non ha realmente le stesse opportunità dei suoi compagni. Se il lavoro per lei è un miraggio o un lusso, se lo studio è un privilegio, se la famiglia è un’alternativa o una missione, se l’indipendenza è una colpa, se ritrovare la libertà dopo un rapporto o un matrimonio sbagliato è un crimine da pagare con la vita. Se anche solo dover dimostrare di valere qualcosa pretende il sacrificio della sua identità (meglio non sembrare troppo donna, se vuoi essere presa sul serio).

La parità non è equivalenza. Essere uguali non è essere identici. Su questo equivoco si è giocato il destino del femminismo storico - che i suoi avversari hanno facilmente ridotto a fenomeno psicosessuale, stigmatizzando la femminista come una virago ambiziosa e rabbiosa, una donna frustrata e negata che vuole prendere il posto dell’uomo diventando come lui, assumendone modi e comportamenti, ed esercitando il potere allo stesso modo.

Da qui anche la caricatura che, in questi anni di riflusso, si è a poco a poco stratificata nell’immaginario collettivo del Ventunesimo secolo: nella versione apocalittica la femminista essendo sinonimo di donna sgradevole e poco attraente, refrattaria alla depilazione, che siccome non piace agli uomini li detesta; nella versione integrata di manager single, anaffettiva, sterile e crudele tagliatrice di teste (nuova incarnazione dell’eviratrice che ossessionò il pensiero misogino di fine Ottocento). Invece la parità è altro. Si può essere pari essendo differenti. Per essere pari, inoltre, bisogna potersi dividere per due. Eccetto il due, i numeri primi sono tutti dispari. Non si può essere femministe da sole.

Fino a oggi, stranamente, si è sempre declinato il sostantivo al femminile - sia al singolare sia al plurale. La femminista, le femministe. Come se fosse un problema che riguardava solo le donne, e il loro modo di stare al mondo. Invece, è necessaria una piccola, ma immensa, rivoluzione grammaticale. «Dovremmo essere tutti femministi», invita la Adichie. Perché anche gli uomini, di oggi ma soprattutto di domani, possono esserlo (e in verità, parecchi già lo sono: basti pensare ai mutamenti che hanno ri-orientato i traguardi dell’esistenza, liberato le manifestazioni degli affetti e delle emozioni, capovolto la dinamica della genitorialità e parentalità, perfino i canoni dell’estetica). In fisica, la parità è una proprietà di simmetria della funzione: invertendo il segno alle coordinate spaziali un fenomeno si ripete immutato. Se questo nuovo femminismo basico avrà un futuro sarà proprio perché cerca di spostarci insieme. Di cambiare il segno alle coordinate dello spazio, del tempo, dell’educazione che diamo o vogliamo dare ai bambini, delle relazioni fra i generi, e - anche o soprattutto - con noi stesse. Esistono anche femministi felici.

* L’ANTICIPAZIONE Dovremmo essere tutti femministi di Chimamanda Ngozi Adichie (Einaudi, traduzione di Francesca Spinelli, pagg. 50, euro 9)


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