Le scommesse perdute dello stato. Crack istituzionale
Due recenti libri sulla crisi della democrazia rappresentativa. Il primo è di Maria Rosaria Ferrarese che affronta, ne La governance tra politica e diritto, le soluzioni che stanno emergendo nei sistemi politici occidentali incapaci di fronteggiare la globalizzazione. Gaetano Azzariti, ne Diritto e conflitti, analizza invece le contraddizioni del costituzionalismo nel registrare la natura dei conflitti sociali, culturali e di classe della contemporaneità
di Giuseppe Allegri (il manifesto, 24 febbraio 2011)
Come e perché ripensare la democrazia? È questa la principale domanda che pervade due volumi da poco in libreria. Quasi identica a quella che il filosofo d’origine tunisina Yves Charles Zarka pone in apertura al libro collettivo Repenser la démocratie (Armand Colin) a un nutrito gruppo di filosofi, giuristi, storici, sociologi. Nel nostro caso ci troviamo dinanzi a una sociologa del diritto, Maria Rosaria Ferrarese, autrice di La governance tra politica e diritto (Il Mulino, pp. 218, euro 18); e a un costituzionalista, Gaetano Azzariti, Diritto e conflitti. Lezioni di diritto costituzionale (Laterza, pp. 418, euro 35), un nome che i lettori de il manifesto conoscono assai bene per i suoi commenti e contributi sui duraturi «conflitti istituzionali» del nostro paese. Sin dai titoli si comprende che entrambi i lavori partono da un’analisi critica delle esperienze giuridiche, fortemente orientata a indagare i nessi istituzionali, politici e sociali dei modi di produzione del diritto, nella crisi delle categorie fondanti la modernità giuridica: statualità, democrazia rappresentativa, supremazia della legge, centralità del parlamento.
L’intento esplicitato da Ferrarese è quello di studiare la «governance come sfida alla, o come aggiustamento della democrazia»; o come interrogazione critica della «tradizionale geografia istituzionale costruita dallo stato moderno». Si parte da un dialogo/conflitto serrato tra «le sfide della governance» e le «presunzioni della democrazia rappresentativa», dapprima ponendo l’accento sulla «crisi della legislazione», l’insufficienza del clivage diritto pubblico/diritto privato e l’impossibile, reale divisione dei poteri. Siamo al centro della polarità tra costituzionalismo delle garanzie, limitazione dei poteri e governance prodotta da quella soft law che non pensa più il diritto come «formulazione normativa», ma piuttosto come «funzione, come risultato, come effettività». Sono le «impossibilità della rappresentanza» dinanzi alle «possibilità del costituzionalismo»: il deperimento «dell’ingegneria della delega» ai rappresentanti del popolo, lo sconfinamento territoriale oltre le frontiere perimetrate dalla democrazia istituzionale, il radicale mutamento delle società dopo l’«impoverimento» causato dalla crisi economica delle classi medie, massificate e individualizzate al contempo, pericolosamente sospese tra populismo, spettacolarizzazione delle pulsioni e «gestione professionale delle percezioni collettive». Si profila quindi la rivendicazione di nuove forme di partecipazione politica, la centralità della tutela delle minoranze, la riscrittura di nuove agende sociali e l’affermazione di inedite forme di produzione giuridica.
Ferrarese indaga da tempo il rapporto tra common e civil law nell’epoca globale, tra la tendenziale americanisation du droit e la necessaria, ma incompiuta, capacità di autotrasformazione della tradizione giuridica continentale, anche a fronte di un diritto comunitario spesso autoreferenziale.
Le fabbriche della legge
In questo oramai quarantennale cantiere si afferma la governance, come «esercizio del potere e produzione di norme giuridiche» attraverso strumenti e procedure che «legano soggetti, gruppi, comunità ai centri di potere»; ma anche come «modalità istituzionale» aperta, flessibile, a «geometria variabile», in un «panorama giuridico privo di centro e affidato a meccanismi di conflitto tra norme e di competizione tra ordinamenti». Nei due capitoli centrali della sua ricostruzione, Ferrarese indaga la «governance giudiziaria» e quella «contrattuale». Da una parte riprendendo «il precedente americano» della garanzia giurisprudenziale nella democrazia maggioritaria e il «dialogo tra Corti» nel diritto europeo dell’ultimo cinquantennio. Dall’altro esplorando la governance of contract, a partire dall’antropologia dell’homo oeconomicus, nell’esperienza del New Public Contracting thatcheriano, nel diritto globale della lex mercatoria, delle law firms e delle altre «istituzioni della globalizzazione» economica e finanziaria.
In questo quadro la governance diviene «succursale della democrazia»: approfitta delle incapacità della rappresentanza politica per instaurarsi al centro di una «competizione tra gli interessi», rispetto alla quale le istituzioni finiscono per divenire strumento della gouvernementalité foucaultiana, quasi riproducendo la «concezione cristiana del governo pastorale»; mentre in altri momenti si torna a una sorta di postmoderno medioevo della regolazione giuridica.
Eppure è possibile intravedere nelle procedure di governance una «tendenza al decentramento», alla frammentazione dei poteri, alle possibilità del controllo diffuso da parte di un’opinione pubblica attiva, dotata di accesso libero alla rete, alla «sperimentazione dal basso di meccanismi di partecipazione», oltre la dimensione contrattuale e giurisprudenziale della governance tradizionale. È lo spazio post-democratico dei soggetti invisibili alle istituzioni centralistiche dello Stato nazione, così come alla disseminazione immateriale della globalizzazione tardo-capitalista: la scommessa è quella di immaginare forme del conflitto all’altezza del mutamento di paradigma avvenuto nei sistemi istituzionali e di produzione normativa.
La dinamica costituzionale
E proprio di Diritto e conflitti si occupa Gaetano Azzariti, in un volume che ha il notevole pregio di essere sia un itinerario di lezioni di diritto costituzionale, che una proposta di ripensamento dei fondamenti teorici e istituzionali del costituzionalismo moderno e contemporaneo, alla luce della «dinamica dei conflitti»: un lavoro che necessita di un confronto ben più approfondito, che può essere solo suggerito e accennato in questa occasione.
La prima parte del libro ricostruisce il «diritto come norma sociale, regola di condotta» della convivenza, in cui «l’oggetto della scienza giuridica» si apre «alla società e alla complessità della realtà sociale» e l’ordinamento giuridico è inteso come «istituzione normativa e sociale». Rimane senza risposta la domanda sulla «costruzione del consenso sociale, che è sempre artificiale, ma può anche essere fortemente manipolata, nonché vacuamente spettacolare». È questo il punto di partenza dell’analisi critica proposta nella seconda, assai più ampia parte del volume: il rapporto tra «ordinamenti e conflitti» alla luce di una loro «composizione autoritativa», piuttosto che di una «soluzione procedurale», ipotesi alle quali viene preferita la «legittimazione dei conflitti» nella transizione dal «potere del demos alla sovranità della Costituzione».
È un’ampia e suggestiva cavalcata nel pensiero politico e giuridico della tradizione occidentale, che prende le mosse da una radicale e inappellabile critica della «composizione autoritativa dei conflitti», cui consegue il rifiuto della logica capitalistica dietro al «funzionalismo scettico di matrice nichilista», che può essere combattuto anche «in forza di un illuminismo disincantato e critico» e non necessariamente «contrapponendo una visione dogmatica e determinista»: «oltre al nulla del nichilismo, il costituzionalismo e la storia». In questo senso il «paradigma procedurale» di soluzione dei conflitti e il «normativismo» di matrice kantiana e kelseniana si mostrano insufficienti dinanzi alla portata innovativa di «conflitti irriducibili».
Qui si parte dalle figure tragiche di Antigone e Socrate, passando per la «resistenza passiva» di Tommaso e giungendo alla potenza razionalizzatrice della «gigantesca macchina dell’obbedienza» hobbesiana, capace di influenzare tanto il pensiero liberale del «costituzionalismo moderno di Locke», quanto «quello radicale e democratico» di Rousseau. Quel Rousseau che per Azzariti diviene il viatico alla «sovranità della costituzione»: l’affermazione post-rivoluzionaria del «nuovo patto sociale», che limita e divide i poteri, garantendo anche i «diritti fondamentali» dell’individuo; è l’avvio del lungo percorso che porta alla «democrazia pluralista o costituzionale». Affascinanti e coinvolgenti sono le pagine sul Rousseau «fomentatore del cambiamento», «critico dell’ideologia», promotore di un «radicalismo eversivo». Affascianti e coinvolgenti perché evidenziano la possibilità di intraprendere un percorso eterodosso verso una radicale trasformazione dell’esistente, anche tra le maglie oscure e a volte insondabili della governance postmoderna.
La democrazia del tumulto
L’ipotesi di contrastare la corrotta finanziarizzazione dell’economia ipercapitalista e «la crisi del modello politico incentrato sullo stato» (Ferrarese), a partire, piuttosto che dalla previsione di leggi intese come «limitazioni dell’azione», dalla creazione di «nuove istituzioni», post-rappresentative e non statali, che siano, usando una frase del Gilles Deleuze studioso di Hume, «modello positivo di azione». La sensazione che la centralità dei conflitti nel maturo capitalismo globale si dispieghi dalla necessaria lotta per la condivisione e trasmissione del sapere, inteso come bene comune, che già Condorcet definiva istruzione pubblica (contro la giacobina educazione nazionale), antagonistica tanto alla dimensione privata, che a quella statuale. E che intorno all’eccedenza della conoscenza si stia giocando tanto il massacro, prima generazionale e ora anche sociale, dell’ultimo trentennio in Europa, quanto le attuali, irriducibili rivolte sulla sponda meridionale del Mediterraneo.
È questo un sottile, ma duraturo filo rosso che lascia però del tutto aperta la dimensione creativa delle nuove forme di regolazione giuridica, sicuramente oltre le «buone pratiche» di una good governance. Se dovessimo elencare «buoni esempi» e modi per produrre il diritto, verrebbe da pensare alla democrazia del tumulto del Machiavelli dei Discorsi, che avremmo voluto trovare ricordata nel lavoro di Azzariti: «perché i buoni esempi nascono dalla buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da que’ tumulti che molti inconsideratamente dannano».